Prove di pace in Terra Santa

Bernardelli racconta in un libro i tanti (e riusciti) progetti israelo-palestinesi

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di Mariaelena Finessi
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ROMA, martedì, 19 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Orme su un sentiero impervio e, dunque, tracce di speranza. Sono i passi di israeliani e palestinesi che, insieme, cercano di superare i tanti inciampi sulla via della pace. Storie che il giornalista Giorgio Bernardelli ha scovato nel tempo e raccolto nel volume “Ponti, non muri” (Edizioni Terra Santa, 130 pagine, 14 euro), titolo che riprende la nota frase pronunciata nel 2002 da Giovanni Paolo II: «Non di muri, ma di ponti ha bisogno la Terra Santa».

Contro ogni pessimismo “all’occidentale” sulla questione mediorientale, l’autore, che ha vissuto gli anni ’90, «quelli della speranza – dice – riposta negli accordi di Oslo», presenta in queste pagine i tanti «cantieri di incontro», invitando a ragionare sui fatti più che a muoversi per categorie ideologiche (o ideologizzate), e a tenere conto della buona volontà di chi, nonostante sia parte lesa in questo conflitto, offre la mano all’altro. «Sono storie che fanno uscire dall’ombra le risposte di una società civile straordinaria che – alla fine, in Israele come in Palestina – è l’unico vero motivo di speranza per il futuro». 

«Prima di iniziare a leggerlo – spiega durante la presentazione del libro, monsignor William Shomali, vescovo ausiliare del Patriarcato latino di Gerusalemme – pensavo si trattasse di un’opera in più sulla Terra Santa, scritta da un europeo e che dopo aver mostrato tutto il nero possibile ti fa sentire anche in colpa perché, a suo avviso, basterebbe poco per risolverla presto». Ebbene, monsignor Shomali, in visita a Roma per il Sinodo sul Medio Oriente, si sbagliava e lo riconosce: «Quello che c’è in questo libro sono invece i fatti. Esempi di convivenza. Di più, di collaborazione per una unica causa: la pace». 

Parola tanto abusata da risultare a volte banale. Parola che, privata della fatica e del sacrifico per conquistarla, è buona sola a motivare i tanti eventi che – in suo nome – quotidianamente le amministrazioni straniere, italiane in testa, organizzano da lontano. «La quintessenza di questo atteggiamento – racconta Bernardelli – sono le “partite del cuore”. Quelle per cui si organizza un torneo di calcio a cui partecipano anche una squadra di ragazzi israeliani e una palestinese». A cosa potrà mai servire una iniziativa simile, si domanda non senza amarezza l’autore. 

«Si prendono un gruppo di ragazzi di Tel Aviv e un altro di Ramallah – chiarisce -, li si porta per una settimana a centinaia di chilometri dal loro contesto quotidiano e, guarda un po’, scoprono di essere ragazzi tra loro non poi così diversi». E giù con gli spot sul genere “Ecco lo sport che unisce oltre ogni barriera”. Peccato che duri tutto solo una settimana, il tempo di smontare il carrozzone e ripartire. «Non ce l’ho con gli sportivi – assicura il giornalista -. È l’atteggiamento che c’è dietro che mi dà fastidio; la presunzione di aver “fatto qualcosa”». 

Altro è l’impegno personale, non demandato ad altri. «Penso al presidente egiziano Sadat – ricorda monsignor Shomali -, quando un giorno annunciò di voler visitare la Knesset (il Parlamento israeliano, n.d.a.). Fu per tutti una sorpresa. Qualche mese dopo gli israeliani si ritirarono dal Sinai. E che dire di quando Rabin volle ritirarsi da Hebron? Come vedete, il Signore ci sorprende sempre. Certo, Sadat e Rabin hanno pagato con la propria vita i passi verso la riconciliazione ma resta valido ciò che li ha animati. Perché, anche se la pace sembra irrealizzabile, occorre credere che il Signore può sorprenderci ancora». 

Eccoli, allora, i progetti destinati invece a durare. Quello, ad esempio, dell’associazione “Bimkom-Planners for Human rights”, architetti israeliani che hanno scelto di porre la propria professionalità al servizio della pace. Formatosi nel 1999, il team dei circa 100 volontari segue i più importanti progetti urbanistici con valenza politica. «La Bimkom – spiega Bernardelli – offre assistenza legale alle comunità locali che si vedono minacciate dall’espansione di un insediamento, seguono tutte le cause legate alla progettazione e all’attuazione del muro di separazione, assistono nella tutela dei loro diritti le comunità beduine del deserto del Negev, che spesso si trovano a fare i conti con ordinanze di sgombero». 

Poi, altro esempio fra i tanti, c’è l’associazione “Rabbis for Human Rights”: rabbini che hanno scelto di mettere al centro della propria esperienza religiosa il comandamento della Torah, “Tu avrai cura dello straniero che abita in mezzo a te”. Tra i tanti gesti c’è quello della raccolta delle olive. «In seguito alla costruzione del muro, nei posti in cui ai palestinesi è vietato arrivare, si recano invece i rabbini a raccogliere le olive, avvalendosi dei diritti garantiti dalla cittadinanza israeliana. Negli altri casi la loro presenza segue la logica degli “scudi umani”: laddove c’è un testimone è più difficile che avvengano abusi indiscriminati». 

Si tratta, come scrive Arik Ascherman, solo di «diventare testimoni della Presenza di Colui che dà rifugio». «Alla fine – conclude Bernardelli – è proprio questo l’unico modo degno di abitare la Sua terra». Senza contare che solo in questo modo la parola “pace” troverebbe una collocazione reale, e meno folkloristica, nella vita di ciascuno.

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ZENIT Staff

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