Interventi per la quarta Congregazione generale il 12 ottobre (pomeriggio)

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 13 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito gli interventi pronunciati questo martedì pomeriggio nella quarta Congregazione generale dell’Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi.

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– S. B. Gregorios III LAHAM, B.S., Patriarca di Antiochia dei Greco-Melkiti, Arcivescovo di Damasco dei Greco-Melkiti (SIRIA)

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La pace, la coesistenza e la presenza cristiana nel mondo arabo sono legate in modo vitale e solido. La presenza cristiana nel mondo arabo è minacciata dai cicli di guerre che si abbattono su questa regione culla del cristianesimo.
La causa principale è il conflitto israelo-palestinese: i movimenti fondamentalisti, il movimento Hamas, Hezbollah sono le conseguenze di questo conflitto come le discordie esterne, la lentezza nello sviluppo, il sorgere dell’odio, la perdita della speranza nei giovani che sono il 60% della popolazione dei paesi arabi.
L’emigrazione dei cristiani. Fra le conseguenze più pericolose del conflitto israelo-palestinese: l’emigrazione che farà della società araba una società di un solo colore, unicamente musulmana di fronte ad una società europea detta cristiana. Se questo accadesse e l’Oriente dovesse svuotarsi dei suoi cristiani, ciò vorrebbe dire che ogni occasione sarebbe propizia per un nuovo scontro delle culture, delle civiltà e anche delle religioni, uno scontro distruttivo fra l’Oriente arabo musulmano e l’Occidente cristiano.
La fiducia fra l’Oriente e l’Occidente. Il ruolo dei cristiani è di creare un clima di fiducia tra l’Occidente e il mondo musulmano per lavorare ad un nuovo Medio Oriente senza guerra.
Appello ai nostri fratelli e concittadini musulmani: per convincere i cristiani a restare, pensiamo che sia necessario rivolgerci ai nostri fratelli musulmani per dire loro con franchezza quali sono le nostre paure: la separazione della religione e dello Stato, l’arabità, la democrazia, nazione araba o nazione musulmana, diritti dell’uomo e leggi che propongono l’islam come unica o principale fonte delle legislazioni che costituiscono un ostacolo all’uguaglianza di questi stessi concittadini davanti alla legge. Vi sono anche i partiti fondamentalisti, l’integralismo islamico, ai quali sono attribuiti atti, di terrorismo, di uccisioni, degli incendi di chiese, di estorsioni, in nome della religione e che, forti del fatto di essere maggioranza, umiliano i loro vicini.
Fare la pace è la grande sfida: è la grande jihad e il grande bene. È la vera vittoria e la vera garanzia per il futuro della libertà, della prosperità e della sicurezza per i nostri giovani, cristiani e musulmani, che sono il futuro delle nostre Patrie.

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Pierre BÜRCHER, Vescovo di Reykjavïk (ISLANDA)

I vescovi della Conferenza Episcopale del Nord (NBK) sono consapevoli, insieme ai loro fratelli e alle loro sorelle in Medio Oriente, che al di là della difficile situazione politica e del confronto con estremismi musulmani, un difficile problema è rappresentato dall’emigrazione dei cristiani. Questo problema si risolverà solo con la soluzione definitiva del conflitto israelo-palestinese. È ormai giunto il momento urgente della riconciliazione e della pace! I cristiani del Medio Oriente, piuttosto che fuggire dalla regione, sono indispensabili in questo processo vitale di giustizia e di pace. Di fatto, sono loro che hanno ereditato il mandato cristiano del perdono. Non si tratta quindi solo di essere ben accolti all’estero, ma soprattutto della loro presenza in Medio Oriente a salvaguardia di una cultura storica vitale per il mondo intero. La pace è la vocazione urgente della Terra Santa! La giustizia per le tre religioni monoteiste è che Gerusalemme sia una città aperta per tutti!
L’emigrazione dei cristiani provenienti dai paesi orientali riguarda anche il Nord del mondo. Una delle ragioni è senz’altro lo sviluppo economico galoppante dei cinque paesi nordici della nostra Conferenza episcopale. Dopo la crisi di due anni fa, ora occorre aiutare l’Islanda a uscirne. In questi cinque paesi la percentuale di cattolici si aggira attorno al 2-3 percento della popolazione totale, essendo la maggioranza luterana. In molti paesi orientali ciò corrisponde alla percentuale di cristiani rispetto ai musulmani. La situazione pastorale nei nostri paesi del Nord è quindi quella di una diaspora. Inoltre, è molto diversificata e vive esperienze positive con sacerdoti e religiosi provenienti dai paesi orientali. In molti luoghi le chiese cattoliche vengono date in uso per la divina liturgia sia ai cristiani cattolici sia a quelli non cattolici. Anche questo è segno di un ecumenismo pratico!

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Joseph ARNAOUTI, Esarca Patriarcale di Damasco degli Armeni, Vescovo emerito di Kamichlié degli Armeni (SIRIA)

Nella “pienezza del tempo” (Gal 4, 4), Dio “inviò l’Unigenito suo Figlio, Gesù Cristo il Salvatore, che si incarnò come asiatico!” (Ecclesia in Asia, n. 1) e che viene da Oriente (Mt 24,27). Il Cristo è l’Amore misericordioso incarnato, morto e risuscitato. È figlio dell’Oriente. L’Incarnazione, di cui abbiamo celebrato il giubileo nell’anno 2000, è concepita da Giovanni Paolo II (Novo Millennio Ineunte) “non solo come memoria del passato, ma come profezia dell’avvenire” (n. 3). Lo stesso Papa riassume il XX secolo come secolo di barbarie e di manifestazione della misericordia divina. In riferimento, dunque, all’Instrumentum laboris, secondo obiettivo e parte del Sinodo: “ravvivare la comunione ecclesiale”, farò una lettura dei segni dei tempi che riassume una frase di Papa Benedetto XVI: “il mistero dell’amore misericordioso di Dio è stato al centro del pontificato di questo mio venerato predecessore” (Giovanni Paolo II). Suggerisco le seguenti proposte:
1. l’istituzione di una festa liturgica del Padre. Il “Padre Nostro” è la preghiera ecumenica per eccellenza;
2. edificare insieme il Corpo di Cristo: essere servitori della comunione, profeti della speranza e testimoni della misericordia (Una speranza nuova per il Libano). Il Medio Oriente “è crocevia di diverse Eparchie”. “Tale difficoltà può rivelarsi una grazia”, ma può impoverirle (n. 64). Si osserva “l’assenza del senso della Chiesa come mistero di comunione” (n. 80);
3. il primato della grazia e quello di Pietro nel terzo millennio. Dopo Paolo VI, Giovanni Paolo II riconosce che il primato del Vescovo di Roma “costituisce un ostacolo” per la maggior parte degli altri cristiani e invita a cercare con lui “le forme del ministero di unità del Vescovo di Roma”. Il Concilio Vaticano II afferma, infatti, che il Vescovo di Roma è il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione (Lumen gentium n. 18). Per altro, secondo Papa Giovanni Paolo II, a partire dalla debolezza umana di Pietro, è chiaro che il suo servizio specifico è un’azione della grazia. Dopo il triplice rinnegamento, Pietro ha bisogno della misericordia divina perché il suo servizio sia un servizio di misericordia, nato dalla multiforme misericordia di Dio (Ut Unum Sint). Secondo lo stesso Papa, la Chiesa “in nessun periodo storico … può dimenticare la preghiera che è grido alla misericordia di Dio dinanzi alle molteplici forme di male che gravano sull’umanità e la minacciano” (Dives in Misericordia, n. 15).

[Testo originale: francese]

– S. Em .R. Card. John Patrick FOLEY, Gran Maestro dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme (CITTÀ DEL VATICANO)

Come messaggeri della pace di Cristo, sono convinto che tutti noi dobbiamo pregare e lavorare per la pace in Medio Oriente, soprattutto per una pace giusta e duratura tra Palestina e Israele e tra i loro vicini.
Sono convinto che le continue tensioni tra israeliani e palestinesi abbiano largamente contribuito ai disordini in tutto il Medio Oriente e anche alla crescita del fondamentalismo islamico.
Mentre molti, compresa la Santa Sede, hanno suggerito una soluzione a due della crisi israelo-palestinese, più passa il tempo più una tale soluzione diventa difficile, poiché la realizzazione di insediamenti israeliani e di infrastrutture sotto il controllo israeliano a Gerusalemme Est e in altre parti della Cisgiordania rendono sempre più arduo lo sviluppo di uno stato palestinese possi
bile e integrale.
Durante lo storico pellegrinaggio del Santo Padre in Terra Santa dello scorso anno, ho avuto la possibilità di intrattenere brevi conversazioni con leader politici ai massimi livelli in Giordania, Israele e Palestina. Tutti loro hanno parlato del grande contributo alla comprensione reciproca dato dalle scuole cattoliche in quelle aree. Poiché le scuole cattoliche sono aperte a tutti e non solo ai cattolici e agli altri cristiani, vi vengono iscritti molti bambini musulmani e perfino alcuni bambini ebrei. Gli effetti sono evidenti e illuminanti. Si è generato un mutuo rispetto che, speriamo, porterà alla riconciliazione e perfino all’amore reciproco.
Essendomi stato conferito dal Santo Padre l’onore di servire come Grande Maestro dell’Ordine del Santo Sepolcro di Gerusalemme, traggo ispirazione dall’interesse e dalla generosità dei quasi ventisettemila cavalieri e dame del Santo Sepolcro in 56 giurisdizioni in tutto il mondo.
Molti hanno compiuto pellegrinaggi in Terra Santa, dove hanno visitato non solo i luoghi resi sacri dalla vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo, ma anche le parrocchie, le scuole e gli ospedali che servono coloro che definiamo “pietre vive”, ossia i discendenti cristiani dei primi seguaci di Gesù Cristo in quella terra che chiamiamo “santa”.
Dal Grande Giubileo dell’Anno 2000, l’Ordine del Santo Sepolcro ha inviato più di cinquanta milioni di dollari per aiutare in particolare il Patriarcato latino di Gerusalemme, ma anche altre comunità e istituzioni cristiane, a sopravvivere e a eccellere davvero nel servizio all’intera comunità in Terra Santa.
Questa generosità, mentre è importante, è subordinata allo sviluppo di una vita spirituale sempre più profonda da parte dei nostri membri e delle persone che serviamo.
Anni fa ho osservato che i cosiddetti cinque pilastri dell’Islam in realtà traggono origine da fonti giudeo-cristiane.
Ebrei, cristiani e musulmani credono tutti in un solo Dio; tutti noi pratichiamo la preghiera in modo frequente e, spero, fervente; tutti, in modi diversi, osserviamo il digiuno; crediamo nell’elemosina e la pratichiamo; e tutti cerchiamo di partecipare al pellegrinaggio, anche a Gerusalemme, città sacra per ebrei, cristiani e musulmani.
Possano queste convinzioni e pratiche comuni essere riconosciute e seguite nella speranza di una più grande comprensione reciproca e della riconciliazione, della pace e anche dell’amore nella terra che tutti noi, ebrei, cristiani e musulmani, siamo portati a chiamare “santa”

[Testo originale: inglese]

– S. B. Fouad TWAL, Patriarca di Gerusalemme dei Latini (GERUSALEMME)

La Chiesa Madre di Terra Santa è una realtà molto concreta e viva, pur essendo largamente minoritaria. Fondamentalmente, i cristiani dei nostri paesi non sono stati convertiti in qualche momento della storia, ma sono discendenti della primissima comunità, costituita da Gesù stesso.
Da questa verità storica derivano conseguenze ecclesiali e pastorali importanti per la Chiesa universale:
– La Chiesa Madre di Gerusalemme è quindi la vostra Chiesa, dove spiritualmente ed ecclesialmente tutti siete nati (Sal 87). Essa custodisce per tutta la Chiesa i Luoghi Santi dei patriarchi, dei profeti, di Gesù Cristo, della Vergine Maria e degli apostoli. È, come ci ha ricordato Sua Santità Papa Benedetto XVI, “un quinto Vangelo”.
– La Chiesa Madre di Gerusalemme deve dunque essere oggetto dell’amore, della preghiera e dell’attenzione di tutta la Chiesa, di tutti i vescovi, sacerdoti e fedeli del Popolo di Dio. Essere solidali con la Chiesa di Gerusalemme, vivere la comunione e la testimonianza di cui parla questo Sinodo deriva dai nostri doveri di pastori e dalla collegialità episcopale.
– Amare la Terra Santa implica la visita dei Luoghi Santi e l’incontro con la comunità locale.
– Amare la Terra Santa significa anche servirla: non lasciate la vostra Chiesa Madre sola e isolata. Aiutatela con le vostre preghiere, il vostro amore e la vostra solidarietà, evitando che diventi un grande museo a cielo aperto. Tacere per paura dinanzi alla situazione drammatica che conoscete sarebbe un peccato di omissione.
D’altro canto, siamo molto riconoscenti alla Santa Sede, ai vescovi, ai sacerdoti e a tutti gli amici della Terra Santa per quanto fanno con generosità al fine di sostenerci spiritualmente e materialmente. Siamo profondamente riconoscenti alla Congregazione per le Chiese Orientali e all’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme.
– La comunità cristiana in Terra Santa (appena il 2 percento della popolazione) soffre per la violenza e l’instabilità. È una Chiesa del Calvario. Ha la grande responsabilità di perpetuare il messaggio di pace e di riconciliazione. Malgrado le difficoltà che sembrano insormontabili, crediamo in Dio, signore della storia. Il Signore “è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo […], per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace” (Ef 2, 14-15).

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. François EID, O.M.M., Vescovo di Le Caire dei Maroniti (REPUBBLICA ARABA DI EGITTO)

Il confessionalismo nelle società islamiche dove vivono e testimoniano molti cristiani del Medio Oriente colpisce profondamente la loro condizione di spirito e il loro comportamento. Ne derivano ghettizzazione, chiusure verso gli altri e ostilità.
Questi cristiani non sono “cittadini indigeni”. Anzi, appartengono fondamentalmente e organicamente al tessuto sociale e all’identità nazionale dei loro rispettivi paesi. È per questo che sono chiamati a vivere la loro fede e a testimoniarla con autenticità, gioia e senza costrizioni.
Ispirandosi alla Parola di Dio che invita ogni cristiano a fare propria la sollecitudine del Signore per i poveri e i bisognosi, i membri della Chiesa cattolica in Egitto sono profondamente impegnati nei servizi educativi (169 collegi) come pure nei servizi sanitari e sociali. La loro azione è una manifestazione concreta della sollecitudine di Dio e dell’amore di Cristo verso tutti i fratelli più piccoli del Signore.
Ne abbiamo un esempio chiarificatore nell’apporto di un piccolo gruppo di cristiani libanesi emigrati in Egitto a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Questo piccolo gruppo dinamico e motivato era riuscito, in meno di cento anni, a fondare 249 giornali e periodici di lingua araba, francese e inglese. Sono loro che hanno fondato la quasi totalità delle case editrici dai nomi prestigiosi e tuttora esistenti in Egitto.
E che cosa dire di quella pleiade di scrittori illuminati e di donne scrittrici pioniere, che ha dato all’Egitto drammaturghi, registi, attori, musicisti e cantanti! Vorrei citare anche tutti i costruttori di chiese, scuole e ospedali, i fondatori di organizzazioni di beneficenza e di organismi socio-culturali, sportivi e religiosi, senza dimenticare i brillanti uomini d’affari che hanno istituito la Borsa d’Egitto e fondato la “Maison de l’Opéra”.
Purtroppo, quel clima di apertura e tolleranza così favorevole al fiorire dei loro talenti e al lancio di grandi progetti è stato cancellato dalla rivoluzione del 1952, cosa che ha inferto un colpo fatale al loro contributo socio-culturale.
L’attuale Sinodo non può illudersi di trovare una soluzione magica ai problemi delle Chiese nel Medio Oriente. Tuttavia, esso ci offre l’occasione di procedere ad un esame di coscienza personale e comunitario che ci consentirebbe di intravedere piste d’azione.

[Testo originale: francese]

S. E. R. Mons. Joseph Jules ZEREY, Arcivescovo titolare di Damiata dei Greco-Melkiti, Vescovo Ausiliare e Protosincello del Patriarcato di Antiochia dei Greco-Melkiti (GERUSALEMME)

Perché molte delle nostre famiglie emigrano? Perché vivono nella tiepidezza, schiacciate dalle bramosie provenienti soprattutto dai media, dalle pressioni provenienti da ogni parte, politiche, sociali, materiali, nonché da altre confessioni o religioni
? Perché molti hanno perduto la chiamata a vivere come i primi cristiani che, con gli apostoli, conducevano una vita evangelica, incentrata su Cristo nella preghiera e nella condivisione?
Constato con forza che molte delle nostre famiglie “sedicenti cristiane” hanno un bisogno vitale di essere rievangelizzate e di accogliere personalmente il perdono e la misericordia di Dio, ottenuti attraverso la passione, la morte e la risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo.
Da una quarantina d’anni siamo tutti testimoni che lo Spirito Santo suscita un rinnovamento nella Chiesa dal quale sono nati movimenti e comunità nuovi, che vivono un dinamismo missionario come i grandi apostoli e i grandi santi (che conosciamo), che nel corso dei secoli hanno saputo evangelizzare al centro della Chiesa e del mondo.
Negli ultimi anni ho incontrato, nei nostri paesi arabi e in altri paesi, diverse famiglie che vivono profondamente la loro fede cristiana malgrado le difficoltà enormi della vita quotidiana. Queste famiglie, animate dalla carità di Cristo, portano la loro croce con fede e mantengono una speranza contro ogni speranza.
Queste famiglie non possono reggere né saranno missionarie se non attraverso un legame personale, un amore profondo per Cristo, rafforzato dalla preghiera quotidiana come anche dal sostegno delle piccole fraternità o comunità parrocchiali, ritrovandosi ogni settimana intorno alla Parola di Dio. Questi “piccoli Cenacoli” consentiranno loro di vivere in modo più intenso l’Eucaristia domenicale.
Queste famiglie vivono della presenza in mezzo a loro del Cristo Risorto, che le vivifica con il suo Spirito Santo e le conduce al Padre.
Molto presto a Nazaret verrà costruito un centro internazionale per la spiritualità della famiglia. Il centro sarà al servizio della Chiesa locale e della Chiesa universale. Chiedo che possa diffondersi in tutte le città della Terra Santa, che non aiuti soltanto le famiglie a far fronte ai problemi e alle difficoltà della vita quotidiana, ma che soprattutto le incoraggi a diventare autentiche famiglie missionarie, veri focolari di carità e di luce.

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Basile Georges CASMOUSSA, Arcivescovo di Mossul dei Siri (IRAQ)

Nei nostri paesi del Medio Oriente siamo delle piccolissime minoranze, già notevolmente devastate dai seguenti fattori:
1. L’emigrazione galoppante, dove i cristiani perdono sempre più fiducia nei propri paesi storici.
2. Le ondate di terrorismo, ispirate da ideologie religiose, intendere islamiche, o totalitarie, che negano il principio stesso della parità, a vantaggio di un negazionismo fondamentale che schiaccia le minoranze, delle quali i cristiani sono l’anello più debole.
3. La preoccupante diminuzione delle nascite tra i cristiani dinanzi a una natalità sempre più alta tra i musulmani.
4. L’ingiusta accusa mossa contro i cristiani di essere delle truppe assoldate o guidate da e per l’Occidente sedicente “cristiano”, considerati quindi come un corpo parassita della Nazione. Presenti e attivi qui molto prima dell’Islam, si sentono indesiderati a casa propria, che diventa sempre più una “Dar el-Islam” riservata. L’Occidente stesso non è più tenero, con il termine “cristiano” che per lui non evoca se non la dimensione religiosa. Quasi mai si ricorda l’aspetto sociale di un gruppo umano leso nei suoi diritti fondamentali, nella sua identità culturale, nei suoi beni, nella sua stessa esistenza a causa della sua religione. Ecco dunque il cristiano orientale in un paese islamico condannato a scomparire o all’esilio. Ciò che accade oggi in Iraq ci ricorda quanto è accaduto in Turchia nella Prima Guerra Mondiale. È allarmante!
5. Lo stato di frammentazione delle comunità cristiane in Medio Oriente: divisioni istituzionali ecclesiali e identitarie di Chiese locali attaccate alle loro autonomie, un tempo su base dottrinale e territoriale o linguistica, erette artificialmente secondo un nazionalismo etno-politico (l’Iraq attuale ne è un esempio), pur facendo riferimento alla stessa linfa patristica e linguistica, avendo subito la stessa sorte storica di “dhimmitudine”, con il futuro oscurato, per tutti, dagli stessi sintomi di disgregazione e a causa di fattori sia esterni sia interni.
Ecco quindi le vere sfide dalle conseguenze terribili che affrontano i cristiani nel Medio Oriente!

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Antoine Nabil ANDARI, Vescovo titolare di Tarso dei Maroniti, Vescovo ausiliare e Sincello per Jounieh (LIBANO)

“Non temere, piccolo gregge” è un appello alla speranza.
Quali sono le strade possibili verso l’avvenire per i cristiani a partire dall’esperienza libanese?
Occorre considerare le principali minacce che attualmente incombono sui cristiani per esaminare e proporre immediatamente suggerimenti pratici ipotizzabili in vista di un avvenire di pace.
– Tra le principali minacce: l’accordo interrotto di Taef, il decreto di naturalizzazione, gli acquisti surrettizi di terreni da parte di stranieri, il crescente impoverimento…
– Tra i provvedimenti ipotizzabili: il ristabilimento dell’equilibrio fra le confessioni, un “libro bianco” sulla situazione demografica e gli aspetti illegali del decreto di naturalizzazione, l’attribuzione della nazionalità agli emigrati così come il loro diritto di voto, sostenere gli sforzi della fondazione maronita nel mondo, abrogare le leggi attuali sull’acquisizione di terreni da parte di stranieri, istituire un “Cenacolo permanente di pensatori cristiano arabi…

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Ramzi GARMOU, Arcivescovo di Teheran dei Caldei, Amministratore Patriarcale di Ahwaz dei Caldei, Presidente della Conferenza Episcopale Iraniana (IRAN)

L’“Instrumentum laboris” nella sua conclusione pone una domanda molto importante e al tempo stesso piuttosto inquietante: Quale avvenire per i cristiani del Medio Oriente?
Ritengo che questa domanda ci rivolga un appello urgente a una vera e profonda conversione del cuore verso una vita conforme al messaggio del Vangelo. È vero, il futuro della Chiesa nei nostri paesi e nel mondo intero è nelle mani di Dio, che veglia sui suoi figli come un Padre pieno di tenerezza e di misericordia. Ma è anche affidato alla nostra responsabilità di pastori, successori degli apostoli, che hanno ricevuto il mandato di pascere il gregge di Dio non per cupidigia ma per dedizione, divenendo modelli del gregge (cfr. 1Pt 5, 2-3).
Affinché questo Sinodo possa essere fonte di grazia e di rinnovamento per le nostre Chiese è indispensabile ascoltare ciò che lo Spirito Santo ci dice. È lui che può purificare il nostro cuore e liberarlo da tutto ciò che ci impedisce di essere testimoni autentici e fedeli del Risorto. In questo santo Sinodo ci viene chiesto di essere docili e attenti alla voce dello Spirito Santo, che ci ricorda che la missione della Chiesa locale è quella di essere al servizio del popolo al quale è mandata, che la sua missione principale è quella di annunciare la Buona Novella del Vangelo secondo la cultura di quel popolo. Felicemente il documento di lavoro ci mette in guardia contro il pericolo del confessionalismo e di un attaccamento esagerato all’etnia, che trasformano le nostre Chiese in ghetti e le chiudono su se stesse. Invece la missione di evangelizzazione ci chiama a vivere la diversità che caratterizza le venerabili tradizioni delle nostre Chiese in una comunione profonda che esprima le loro ricchezze e la loro bellezza.
Una Chiesa etnica e nazionalista si oppone all’opera dello Spirito Santo e alla volontà di Cristo, che ci dice: “ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1, 8). San Paolo, per la passione che aveva per l’annuncio del Vangelo a tutti i popoli, si è dato l’appellativo di “apostolo delle genti”, potendosi gloriare di essere ebreo e israelita. Ascoltiamo ciò
che dice: “sebbene io possa vantarmi anche nella carne […] circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo” (Fil 3, 4-7). Per poter dare testimonianza di Cristo morto e risorto dinanzi alle nazioni pagane, Paolo ha dovuto sacrificare la propria nazione e la propria etnia. Noi siamo pronti a imitarlo in questo affinché le nostre Chiese possano trovare un nuovo soffio missionario che faccia cadere le barriere etniche e nazionaliste, che rischiano di asfissiarle e di renderle sterili?
L’“Instrumentum laboris” ha quasi ignorato l’importanza fondamentale della vita monastica e contemplativa per il rinnovamento e il risveglio delle nostre Chiese. Questa forma di vita, nata in Oriente, è stata all’origine di un’espansione missionaria straordinaria e di una testimonianza ammirevole delle nostre Chiese nei primi secoli. La storia ci insegna che i vescovi venivano scelti tra i monaci, vale a dire tra uomini di preghiera e di vita spirituale profonda, con una grande esperienza delle “cose di Dio”. Oggi purtroppo la scelta dei vescovi non obbedisce agli stessi criteri e ne constatiamo i risultati, che non sempre sono positivi.
L’esperienza bimillenaria della Chiesa ci conferma che la preghiera è l’anima della missione; è grazie ad essa che tutte le attività della Chiesa sono rese feconde e danno molti frutti. D’altronde, tutti coloro che hanno partecipato alla riforma della Chiesa e le hanno restituito la sua bellezza innocente e la sua giovinezza eterna sono stati fondamentalmente uomini e donne di preghiera. Non per nulla nostro Signore ci invita a pregare incessantemente. Constatiamo con rammarico e amarezza che i monasteri di vita contemplativa, fonte di abbondanti grazie per il popolo di Dio, sono quasi scomparsi dalle nostre Chiese d’Oriente. Che grande perdita! Che peccato!

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Bosco PUTHUR, Vescovo titolare di Foratiana, Vescovo di Curia di Ernakulam-Angamaly dei Siro-Malabaresi (INDIA)

Anzitutto l’Arcivescovo Maggiore, il Sinodo dei Vescovi, i sacerdoti, i religiosi e i fedeli della Chiesa siro-malabarese sono grati al Santo Padre per averci invitato a partecipare a questo Sinodo. Poiché il nostro Arcivescovo Maggiore, il cardinale Varkey Vithayathil CSsR, non è attualmente in grado di viaggiare, sono stato pregato di rappresentare la Chiesa siro-malabarese. La nostra Chiesa accoglie e sostiene pienamente le iniziative intraprese dal Santo Padre per rafforzare la Chiesa cattolica in Medio Oriente, affinché essa, in comunione, possa dare testimonianza al Vangelo in questa regione.
Comunque, con questo intervento, vorrei sottoporre all’attenzione di questa augusta assemblea alcuni problemi pastorali indicati nell’Instrumentum laboris ai numeri 49 e 50, che dicono: “Nei Paesi del Medio Oriente si fa strada un fenomeno nuovo e importante: diverse Nazioni accolgono, come lavoratori immigrati, centinaia di migliaia di africani ed asiatici… Queste persone sono spesso oggetto di ingiustizie sociali… Tale immigrazione interpella anche le nostre Chiese. C’è qui una responsabilità pastorale per accompagnare queste persone, tanto sul piano religioso che sociale”.
I fedeli siro-malabaresi sono presenti nella Regione del Golfo fin dagli anni ’60. Per le loro necessità pastorali dipendono completamente dai Vicariati latini del Kuwait e dell’Arabia. Queste strutture ecclesiastiche create nel XX secolo per poche migliaia di emigranti non sono affatto adeguate per prendersi cura dei milioni di fedeli oggi presenti nella regione.
Riconosciamo con gratitudine gli sforzi dei due Vicari apostolici della regione. Tuttavia, la situazione della cura pastorale dei fedeli siro-malabaresi nei Paesi del Golfo Arabico è del tutto inadeguata e insoddisfacente. Nella regione ci sono almeno 430.000 emigranti siro-malabaresi (Arabia Saudita, 190.000; Emirati Arabi Uniti, 110.000; Oman, 45.000; Kuwait, 40.000; Bahrein, 35.000; Qatar, 10.000), ma nemmeno una parrocchia è eretta per loro. Fatta eccezione per Doha, non ci sono un’assistenza pastorale e una catechesi-formazione alla fede appropriate per i fedeli siro-malabaresi, in conformità con la loro tradizione ecclesiale. La gerarchia siro-malabarese non è affatto coinvolta né invitata a questo. La sola chiesa costruita a Doha per i nostri fedeli non è eretta a parrocchia, ma rimane un avamposto della parrocchia latina. Inoltre alla gerarchia siro-malabarese sono poste gravi restrizioni con un ‘rescritto’ della Santa Sede che impedisce ogni coinvolgimento della nostra Chiesa nel fornire un’assistenza pastorale appropriata ai nostri fedeli nell’area.
La comunità si trova in una situazione precaria e molti sono diventati indifferenti alla pratica della fede cattolica. Gli Ordinari locali non sono né in grado di fare né sono preparati adeguatamente a dare una assistenza pastorale appropriata all’eredità della singola Chiesa. Alla Chiesa siro-malabarese non è concessa nessuna libertà di assistere i suoi fedeli nella regione, un diritto previsto dagli insegnamenti del Concilio Vaticano II, dal Diritto Canonico e da altri documenti del Magistero. I sacerdoti religiosi che lavorano attualmente nella regione non hanno la necessaria formazione pastorale e liturgica per assistere la nostra gente. A causa dell’inadeguatezza dell’assistenza pastorale, c’è il pericolo sempre crescente che i nostri siano fuorviati da gruppi pentecostali che prosperano nella regione del Golfo. Perciò è essenziale affidare la cura pastorale dei fedeli siro-malabaresi alla nostra Chiesa, erigendo strutture ecclesiali adeguate e concedendo la giurisdizione alla nostra gerarchia. Contrariamente all’opinione generalmente fatta circolare da alcuni ecclesiastici, i governi nella Regione del Golfo in generale sono aperti alle comunità cristiane, poiché attualmente hanno bisogno di lavoratori emigranti.
Speriamo e preghiamo che la Sede Apostolica svolga un’azione adeguata per porre rimedio alla grave situazione nella regione e per consentire a tutte le parti coinvolte di offrire una cura pastorale adeguata ai nostri fedeli, conformemente alla tradizione liturgica e spirituale dei cristiani di San Tommaso.

[Testo originale: inglese]

– Rev. P. Pierbattista PIZZABALLA, O.F.M., Custode di Terra Santa (GERUSALEMME)

Troppo spesso la prospettiva pastorale in Terra Santa parte dalla situazione piuttosto che dalla vocazione della Chiesa. La nostra vocazione ha come punto di partenza At 2, 9-12. Allora come oggi, la Chiesa di Gerusalemme nasce e si sviluppa come Chiesa universale.
I luoghi santi di Terra Santa non sono solo punto fermo dell’identità cristiana locale, ma sono memoria viva dell’Incarnazione. Questa non è avvenuta solo nel tempo, ma anche in uno spazio. Abitare quello spazio è la nostra vocazione.
I pellegrinaggi da tutto il mondo e la presenza di ebrei e musulmani appaiono agli occhi della fede come adempimento seppure parziale della profezia del raduno di tutti i popoli sul monte Sion (Is 2, 2-4)
I pellegrinaggi e il carattere multireligioso della Chiesa di Terra Santa ci chiedono di essere Chiesa sempre più estroversa, ospitale, aperta agli altri. Essere minoranza ci sprona ad essere più propositivi. Le istituzioni della Chiesa sono una viva testimonianza di tale propositività.
A noi cristiani di Terra Santa spetta infine di ricordare il nostro dovere di custodire il carattere cristiano della Terra del Signore.

[Testo originale: italiano]

– S. B. Baselios Cleemis THOTTUNKAL, Arcivescovo Maggiore di Trivandrum dei Siro-Malankaresi (INDIA)

La comunione deriva fondamentalmente dalla Santissima Trinità. Questa realtà divina si riflette in tutte le opere salvifiche del Signore Gesù Cristo. Perciò il suo corpo, la Chiesa, deve trasm
ettere la stessa realtà-comunione. La Chiesa universale è una comunione di Chiese che celebrano gli unici e stessi atti salvifici del Signore in diverse tradizioni, presiedute dal Vescovo di Roma, il successore di san Pietro, capo del Collegio Apostolico. Per cui la comunione ecclesiale richiede un profondo senso di comunione spirituale. Per aumentare il significato e il bisogno della comunione ecclesiale, sia essa ad intra o ad extra, tutti noi dobbiamo ereditare personalmente la spiritualità di comunione e trasmetterla come corpo di Cristo.
Poiché stiamo approfondendo il nostro rendere testimonianza nel Medio Oriente, credo che si debbano consolidare gli sforzi per realizzare una piena comunione con le Chiese sorelle ortodosse. Come ha suggerito Papa Giovanni Paolo II, di venerata memoria, si deve cercare un nuovo ministero petrino del vescovo di Roma come supremo pontefice (Ut unum sint 95). La piena comunione con le nostre Chiese sorelle in Medio Oriente accrescerà armoniosamente la nostra comunione e testimonianza nel mondo.
Il nostro impegno comune, con musulmani, ebrei e con tutte le religioni e i popoli di buona volontà, per promuovere la giustizia in ogni luogo, stando al fianco di coloro che Dio ama e che gli stanno a cuore, ci chiede di fare lo stesso, cosicché gli esseri umani rimangano il culmine della creazione nel nostro mondo presente.

[Testo originale: inglese]

– S. E. R. Mons. Dimitrios SALACHAS, Esarca Apostolico per i cattolici di rito bizantino residenti in Grecia (GRECIA)

La massiccia emigrazione di fedeli orientali cattolici dal Medio Oriente in Occidente in territori di circoscrizioni ecclesiastiche latine pone l’urgente problema della loro cura pastorale e del loro stato giuridico. Il Vaticano II e in seguito il supremo legislatore nella Chiesa cattolica, il Romano Pontefice, nella sua sollecitudine per la Chiesa universale, con la promulgazione di due Codici, uno per la Chiesa latina e un altro per le Chiese orientali cattoliche, vi ha sufficientemente provveduto con norme adatte ordinando la fedele osservanza.
Anzitutto il Codice orientale enuncia un principio generale, secondo il quale i fedeli delle Chiese orientali, anche se affidati (commissi) alla cura pastorale di un vescovo o del parroco di un’altra Chiesa sui iuris, inclusa qui anche la Chiesa latina, rimangono tuttavia sempre ascritti alla propria Chiesa, tenuti ad osservare ovunque nel mondo il proprio rito, inteso come patrimonio liturgico, spirituale e disciplinare proprio.
Un altro principio è il seguente: nei luoghi dove non è stata ancora costituita dalla Sede Apostolica una propria gerarchia per i fedeli orientali, si deve ritenere come Gerarca proprio (Ordinario) degli stessi fedeli il Gerarca di un’altra Chiesa sui iuris, anche della Chiesa latina; cioè sono giuridicamente sottomessi alla giurisdizione del Vescovo del luogo, anche della Chiesa latina (can. 916,§5).
In questi casi, diritto e dovere del Vescovo latino – che ha nella sua diocesi dei fedeli orientali cattolici – è di salvaguardare e garantire a questi fedeli l’osservanza del proprio rito, cioè la propria liturgia e disciplina canonica, e provvedere a creare quelle strutture ecclesiali canoniche previste anche dal Codice latino, come ad esempio l’erezione di parrocchie personali. Inoltre, è noto che specie in materia di sacramenti di iniziazione cristiana e di matrimonio, i due Codici stabiliscono norme diverse, codificando rispettivamente la legittima diversità della tradizione latina e orientale. Ciò implica che il Vescovo o parroco latini siano sufficientemente a conoscenza di queste legittime differenze e favoriscano in pratica l’osservanza della tradizione orientale per i fedeli orientali soggetti alla loro giurisdizione, senza imporre agli orientali – a loro soggetti – la disciplina e prassi latina, come molto spesso accade in paesi d’occidente per semplice ignoranza.
È urgente, perciò, che nei seminari latini in luoghi dove esistono dei fedeli orientali, gli alunni siano istruiti anche nel campo della disciplina che vige per gli orientali. Gli stessi vescovi, gli stessi parroci in queste circoscrizioni latine sono tenuti a conoscere tale disciplina per garantire il diritto e l’obbligo dei fedeli orientali, loro sudditi, di osservare il proprio rito, cioè promuovere la loro identità cattolica ed orientale nella Chiesa universale.
Il supremo legislatore ha dotato la Chiesa cattolica di due normative canoniche, cioè di due Codici, uno per la Chiesa latina e uno per le Chiese orientali, di cui si è celebrato in questi giorni il 20° anniversario della promulgazione. L’emigrazione perciò crea nuove urgenti necessità pastorali che richiedono una, anche se sommaria, conoscenza di questa normativa, cioè che i vescovi orientali conoscano la legislazione latina, e che i vescovi latini la legislazione orientale. Il Vaticano II (OE) insegna che, salva restando l’unità della fede e l’unica divina costituzione della Chiesa universale, le Chiese d’oriente e le Chiese d’occidente hanno il diritto e il dovere di reggersi secondo le proprie discipline, più adatte al bene delle anime dei propri fedeli.

[Testo originale: italiano]

– S. E. R. Mons. Charbel Georges MERHI, Vescovo di San Charbel en Buenos Aires dei Maroniti (ARGENTINA)

La Chiesa riunita in un Sinodo riceve l’assistenza dello Spirito Santo, per realizzare le sue attività ecclesiali.
Siamo invitati a essere testimoni affidabili, secondo quanto ci indica il Vangelo. I nostri fedeli in Oriente hanno reso una testimonianza di esemplare eroismo nel corso di 20 secoli, malgrado i brutti momenti storici che hanno fatto scorrere il sangue innocente dei martiri e hanno fatto crescere un cristianesimo brillante e autentico. Tutto ciò è dovuto non al solo sforzo dei fedeli, ma piuttosto all’intervento della Divina Provvidenza. Una testimonianza che merita di essere ricordata è quella della comunità maronita che ha perseverato per 1600 anni, nonostante le enormi persecuzioni che ha dovuto subire. Senza questa Provvidenza divina essa non sarebbe arrivata a formare una Chiesa importante, rispettata dovunque. Ciò si può anche affermare senza errore delle altre comunità qui presenti.
La testimonianza che dobbiamo dare, a livello comunitario e personale, è il servizio della carità nella sua dimensione orizzontale. È il precetto evangelico del Signore.
In quanto testimoni del Vangelo, i cristiani devono anche vivere la coesistenza con intelligenza, abilità e prudenza. Posso suggerire agli amici che costituiscono l’Assemblea di seguire una regola generale per avere una coesistenza di armonia fra le diverse comunità che abitano in questa regione attualmente in conflitto. Cerchiamo, ebrei, cristiani e musulmani, di vivere senza ostilità, perché siamo tutti figli di Abramo.

[Testo originale: francese]

– Rev. P. José RODRÍGUEZ CARBALLO, O.F.M., Ministro Generale dell’Ordine Francescano dei Frati Minori (ITALIA)

Nell’anno 1218 san Francesco d’Assisi partì per l’Oriente. A Damietta si incontra con il Sultano Malek al Kamil. In clima di crociata il Poverello non parte con le armi, né mosso dal desiderio di conquista, bensì con la ferma volontà di incontrarsi con l’altro, il diverso e, in quel contesto, con il nemico. Non va contro nessuno, ma in mezzo a, inter (cf. 1 Regola 16,5). È la pedagogia della “non violenza” e del dialogo. Da allora i francescani siamo presenti ininterrottamente (cf. Paolo VI) nella Terra Santa, come Custodi dei Luoghi Santi, a nome della Chiesa Cattolica, e “pietre vive”, nelle scuole, parrocchie e attraverso le numerose opere sociali, al servizio di tutti senza distinzione di credo. È il piccolo/grande miracolo di quel gesto profetico di Francesco a Damietta, e della pedagogia della non violenza e del “dialogo della vita” .
Il dialogo fatto incontro non ha alternativa possibile nelle relazioni con le altre comunità Cristiane – dialogo ecumenico; non ha alternativa nelle relazioni con il Giudaismo e l’Islam dialogo interreligioso – che passa attraverso il riconoscimento dei
beni spirituali e morali che esistono in queste religioni (cfr. NA 2) ma, secondo la metodologia proposta da san Francesco nella sua Regola, passa anche per la confessione della propria fede con la vita in ogni momento, senza sincretismi né relativismi, con umiltà e senza promuovere dispute, e, quando piace al Signore, anche con la parola (cf. 1 Regola 16, 6 – 7). Il dialogo e la “via della non violenza” non ha alternativa neppure in relazione con tutto il processo di pace della regione.
Di fronte al triste spettacolo di tanti conflitti in Terra Santa e contro l’idea così diffusa che le religioni sono alla base di essi, noi cristiani siamo chiamati a mostrare al mondo che le religioni, vissute in autenticità, sono al servizio della comprensione tra diversi, al servizio della pace, e che forgiano dei cuori riconciliati e riconciliatori. La riconciliazione nella regione del Medio Oriente passa attraverso l’incontro delle religioni, e per noi cristiani passa attraverso l’incontro/dialogo tra le distinte confessioni cristiane. “Senza comunione non c’è testimonianza” (Benedetto XVI). Nel contesto della nuova evangelizzazione faccio quattro proposte:
– Si elabori un catechismo unico per tutti i cattolici del Medio Oriente.
– Si prendano iniziative concrete per una formazione adeguata alle esigenze della nuova evangelizzazione, e della situazione particolare del Medio Oriente, di tutti gli agenti di pastorale: sacerdoti, religiosi e laici.
– In continuità con l’anno paolino, si celebri un anno giovanneo in tutte le Chiese del Medio Oriente, se possibile con i fratelli delle Chiese non cattoliche.- Si potenzino gli studi biblici, specialmente attraverso i tre Istituti Biblici già presenti a Gerusalemme: la facoltà di Scienze Bibliche e di Archeologia dei francescani, l’Ecole Biblique dei domenicani, e l’Istituto biblico, dei Gesuiti.
Inoltre, mi auguro che, davanti alla costante diminuzione dei Cristiani in Terra Santa, esca da questo Sinodo una parola di conforto per le comunità cristiane e particolarmente cattoliche che vivono in quelle terre. Sia il Sinodo un’occasione propizia per potenziare con forza il dialogo ecumenico ed interreligioso. Salga, inoltre, un’intensa e fiduciosa preghiera per la pace in Medio Oriente e a Gerusalemme, e una chiamata urgente a quanti hanno nelle loro mani il destino dei popoli del Medio Oriente e, particolarmente della Terra Santa, perché ascoltino il grido di tanti uomini e donne di buona volontà che gridano per la pace e per il rispetto della giustizia.

[Testo originale: italiano]

– Uditore Harés CHÉHAB, Segretario Generale del Comitato Nazionale per il Dialogo Islamico-Cristiano (LIBANO)

È paradossale osservare che questi cristiani, che sono parte costituente di questo Oriente da molto tempo prima dell’Islam, attualmente si trovano davanti al terribile dilemma di scegliere tra la scomparsa e l’isolamento, che porrebbe fine al loro ruolo storico e alla loro missione.
La gravità del problema è diventata sempre più grande fino ad assumere tutta la sua ampiezza nel corso degli ultimi decenni, che hanno visto la nostra regione svuotarsi lentamente dei suoi cristiani, che tuttavia tanto hanno contribuito a formare la sua civiltà e che sono sempre stati pionieri nella lotta per la sua libertà e il suo accesso alla modernità. Questo esodo non può in nessun modo essere attribuito a motivi di ordine puramente economico, altrimenti si sarebbe spopolata l’intera regione, ed è evidente che la discriminazione, la persecuzione in alcuni luoghi, la paura in altri, la mancanza di libertà, la disparità di diritti sono alla base di questo movimento.
Ogni domanda relativa al futuro dei cristiani nella nostra regione ci porta a dedicarci a molte altre questioni ad essa intimamente legate, a cominciare dal dialogo interreligioso, a che punto è e quali sono i suoi orizzonti, che ne è del rapporto tra religione e Stato, o in altri termini tra ciò che è spirituale e ciò che è temporale, la laicità, la libertà, l’estremismo, il fondamentalismo, il terrorismo, tutti argomenti che vengono spesso ripresi dai media.
Purtroppo, i colloqui e molte conferenze che trattano del dialogo islamico-cristiano, dal cui successo dipende in gran parte il mantenimento della presenza attiva cristiana nella nostra regione, non concedono lo spazio importante che tali argomenti meritano, accontentandosi di porre l’accento sui punti di convergenza, certamente utili, ma nascondere i problemi o, nella migliore delle ipotesi, affrontarli in modo timido, non ha fatto progredire molto la nostra causa, anzi. I risultati ottenuti continuano a essere fragili e svaniscono davanti al il primo vero ostacolo. Ed è così che si allarga sempre di più il divario tra le tavole di incontri sul dialogo e il vissuto quotidiano, ed è qui che la letteratura utilizzata e la convergenza su alcuni punti non trovano la via di un’applicazione pratica.
Perciò d’ora in poi questo stile dovrebbe lasciare il posto a un’altra forma, dalla quale sarà bandito il linguaggio compiacente per incentrarsi soprattutto sulla verità, per quanto dura possa essere, ma con amore e sincerità, preoccupandosi di sensibilizzare i musulmani affinché prendano coscienza della realtà dei nostri problemi, e ciò, nel mutuo interesse di tutte le parti e della nostra regione.
Bisognerebbe intensificare la celebrazione di congressi e di riunioni, per portare i partecipanti ad affrontare queste questioni spinose. Fino ad oggi, e perfino nei documenti preparati dagli esperti musulmani in vista del Sinodo, le osservazioni non vanno oltre il quadro classico e tradizionale, perché semplice, in una società in rapido cambiamento e i cui relativi problemi di natura multiculturale e multireligiosa sono tanto complessi. Inoltre, far risalire un problema cronico, vecchio ormai di diverse centinaia di anni e quindi molto precedente l’inizio del conflitto tra israeliani e arabi, all’appoggio che l’Occidente dà a Israele, e confondendo i cristiani con l’Occidente, deriva dalla volontà di nascondere le vere cause del problema.
Ma parallelamente vi è una crescente azione da parte di molti musulmani che, fedeli alla loro fede e alla loro religione, non cessano di proclamare che essa rifiuta e vieta simili modi di agire. Allo stesso tempo, al livello di alcuni Stati, constatiamo una tolleranza che certamente non ha ancora raggiunto il livello auspicato, ma che lascia comunque una nota di speranza per il futuro.
Ad ogni modo, in Libano siamo determinati, cristiani e musulmani, ad andare avanti, a consolidare la nostra vita comune e ad affrontare insieme le minacce rappresentate dalle correnti estremiste, dal fanatismo, dall’integralismo, che negano il diritto alla differenza, consapevoli delle difficoltà ma decisi a riuscire a trasmettere il nostro messaggio di vita comune.

[Testo originale: francese]

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ZENIT Staff

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