San Benedetto, lasciando la casa e l’eredità paterna per essere gradito a Dio, si consacrò interamente a lui nella vita monastica.
* Abitò solo con se stesso, sotto gli occhi di colui che vede tutto.
Si ritirò dal mondo, con l’ignoranza di chi sa troppo bene, e con la sapienza di chi non vuol sapere.
* Abitò solo con se stesso, sotto gli occhi di colui che vede tutto.[2]
La liturgia cattedrale, invece, si cura prevalentemente di introdurre il popolo nei misteri e di disporlo a riceverne con frutto la grazia. Elevare il popolo alla liturgia e portare la liturgia al popolo è la preoccupazione del pastore. Il popolo nella sua globalità e nelle situazioni ordinarie di vita è il referente fondamentale di questa forma liturgica. E il genio specifico del pastore vigilante sta nel coniugare con equilibrio l’integrità del mistero con la sua trasmissione, senza ridurre o eliminare uno dei due termini. L’intento pastorale ricerca nella continuità della tradizione l’impiego migliore di formule, preci, simboli e riti verificando con responsabilità e competenza la loro abilità a comunicare quella grazia, che devono poter esprimere in modo adeguato. Per questo la liturgia cattedrale tende ad essere breve, incisiva, semplice, elastica. Essa segue il ritmo diversificato delle categorie comuni dei cristiani, che vivono nella società e sono impegnati nel lavoro quotidiano. Tuttavia non è priva di fascino, di sacralità e di solennità, come dimostra la liturgia della Chiesa Romana, che da sempre si esprime con riti brevi, lineari, nobili e solenni. E’, infatti, la nobile semplicità (SC 34) [3] il carisma di questa Chiesa con la quale tutte le Chiese devono concordare. E dalla nobiltà della forma romana spira un senso del sacro essenziale ed eccelso e, proprio per questo, incisivo nella pastorale. San Gregorio Magno è il modello della liturgia cattedrale romana. Egli, come risulta dal suo Sacramentario, ha fatto sintesi delle migliori tradizioni liturgiche precedenti e, da buon pastore, ha consegnato al suo popolo una liturgia capace di coinvolgerlo con efficacia nei misteri salvifici. La sua opera liturgica ebbe una tale diffusione e una così vasta recezione nella Chiesa latina da varcare i secoli, fino a giungere ai nostri tempi. Il suo genio pastorale lo raccomanda quale referente per ogni successiva riforma della liturgia, che, mediante uno sviluppo organico dell’ininterrotta Tradizione, immette nel popolo cristiano, che si diversifica nelle culture, quell’unica energia divina che non può mai essere corrotta. Anche Gregorio trova nel meraviglioso responsorio della sua memoria liturgica del 3 settembre, una mirabile sintesi dell’intera sua opera pastorale e in particolare del suo splendido genio liturgico:
Dalle profondità delle Scritture trasse norme di azione e contemplazione, e immise nella vita del popolo l’acqua viva del Vangelo.
* La sua voce continua a risuonare nella Chiesa.
Come aquila colse dall’alto il senso delle cose; con la forza della carità provvide agli umili e ai grandi.
* La sua voce continua a risuonare nella Chiesa.[4]
Il mutuo legame tra le due forme liturgiche – cattedrale e monastica – è ancora assicurato da Gregorio e Benedetto. Infatti, Benedetto – monaco – assume come base liturgica per le sue comunità monastiche il rito dell’Urbe – sicut psallit Eccelsia Romana – e così salva la forma romana antica e classica e la trasmette ai posteri. Gregorio – vescovo – adatta alle esigenze del suo popolo la liturgia di sempre, ma sempre col cuore legato al monastero e con un continuo riferimento alla sua personale esperienza di monaco. In tal modo, né manca a Benedetto la comunione con la liturgia cattedrale, né manca a Gregorio la comunione con la liturgia monastica. Si ritorna così a quel nesso indissolubile delle origini, quando popolo e asceti, condividevano nell’unica Chiesa locale le due anime della liturgia. Un legame che mai dovrebbe essere perduto per l’edificazione dell’unico popolo di Dio. Benedetto e Gregorio, non solo affermano la legittimità e la ricchezza delle due forme liturgiche, ma al contempo ne proclamano l’unità indissolubile e il comune orientamento al servizio dell’unica Chiesa di Dio.
Il carisma gregoriano continua nella Chiesa in eminenti figure di Pontefici, che hanno saputo, come san Gregorio Magno, adattare le forme variabili dell’unica liturgia, alle diverse situazioni dei tempi e dei popoli. Pontefici come, san Pio V, san Pio X, Pio XII e Paolo VI – per ricordare i più recenti – non sono che la continuità nel tempo della Chiesa delle cure soprannaturali che il Pastore divino esercita continuamente per la salvezza del suo popolo. In essi si è manifestato il carisma del grande Gregorio e per essi la Liturgia è apparsa in tutta la sua perenne vitalità. Scrutandola nelle profondità del suo mistero, colsero dall’alto il senso delle cose e, con opportune riforme, immisero nella vita del popolo del loro tempo l’acqua viva del Vangelo. Infatti, gli interventi liturgici di tutti i grandi Papi riformatori furono fondamentalmente a carattere pastorale e possono venir riassunti nel principio, auspicato da san Pio X, che ispira e consacra il movimento liturgico: “Essendo Nostro vivissimo desiderio che il vero spirito cristiano rifiorisca in tutti i modi e si mantenga nei fedeli tutti, è necessario provvedere prima di ogni altra cosa alla santità e dignità del tempio, dove appunto i fedeli si radunano per attingere tale spirito dalla sua prima ed indispensabile fonte, che è la partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa” (Mutu proprio: ‘Tra le sollecitudini’’, 22 novembre 1903). Gli interventi legittimi di tutti i Romani Pontefici non possono essere considerati alla stregua di operazioni private, per quanto qualificate, ma sono atti del supremo Magistero della Chiesa e quindi devono essere assunti con spirito religioso in quel cammino di continuità e di organico sviluppo, che, sotto la guida dello Spirito Santo, informa e sospinge l’intera vita della Chiesa. Qualora venisse meno questa visione di fede, crollerebbe la natura stessa del vivere in Ecclesia e cum Ecclesia. Non può perciò essere giustificata in alcun modo alcuna scelta difforme dalla comunione gerarchica (Lumen gentium 21), né in senso ‘tradizionalista’, né in senso ‘progressista’.
Ma sarà soprattutto il Servo di Dio Paolo VI, che, per decreto del Concilio Ecumenico Vaticano II, darà un’attuazione del tutto singolare al carisma gregoriano in ordine alla riforma generale della Liturgia Romana. Egli in continuità col pensiero maturato nel movimento liturgico ed espresso da Pio XII al Primo Congresso Internazionale di Liturgia Pastorale tenuto in Assisi il 22 settembre 1956 – “Il movimento liturgico è in tal modo apparso come un segno delle disposizioni provvidenziali di Dio riguardo al tempo presente, come un passaggio dello Spirito Santo nella sua Chiesa, miranti ad avvicinare sempre più gli uomini ai misteri della fede e alle ricchezze della grazia, che hanno la loro sorgente nella partecipazione attiva dei fedeli alla vita liturgica” – realizzerà la riforma liturgica più vasta e organica che mai prima fosse stata compiuta. In lui risplende una grande sintesi – non ancora possibile nei secoli precedenti – dell’intero arco della storia della liturgia a partire dalle fonti più antiche; i riti e le preci riprendono l’equilibrio e la semplicità degli inizi; ed in linea con le migliori epoche creative dei grandi complessi rituali classici, offre un nuovo e considerevole apporto eucologico, che, coerente con la Tradizione, integra gli sviluppi dottrinali degli ultimi secoli nella prospettiva teologica del Concilio Ecumenico Vaticano II.
L’intento pastorale di Gregorio risplende anche in Benedetto XVI, che non
vuole che nulla di ciò che è vero, nobile, giusto… e merita lode (Fil 4, 8) ed è valido nella tradizione liturgica secolare della Chiesa, vada perduto, e ci richiama al detto evangelico: «… ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13, 52).
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1) RIGHETTI, M., Storia liturgica, ed. Ancora, 1969, vol. II, p. 605: “…alla fine del IV secolo vediamo organizzato presso le principali Comunità un duplice servizio ecologico o Cursus: il Cursus secolare, che comprende una ufficiatura quotidiana vespertina e mattutina, più una vigilia ad galli tantum nella tarda notte di ogni domenica; e un Cursus semiofficiale, che comprende la veglia notturna feriale quotidiana e le tre ore diurne a terza, sesta, nona. Di essi, il primo, universalmente praticato e seguito dal clero e dal popolo, asceti compresi, rappresenta il servizio ecologico liturgico ordinario delle Chiese (cursus cathedralis); il secondo, limitato al ceto degli asceti d’ambo i sessi (monaci, vergini), è lo sviluppo paraliturgico di quella preghiera privata, diurna e notturna, propria, come dicemmo, delle anime particolarmente consacrate al servizio di Dio entro o fuori le mura di un monastero (cursus monasticus)”.
2) SAN BENEDETTO, ABATE E PATRONO D’EUROPA, festa 11 luglio., Uff. di lett. resp. II
3) “I riti splendano per nobile semplicità, siano chiari nella loro brevità e senza inutili ripetizioni, siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni” (SC 34).
4) SAN GREGORIO MAGNO, memoria 3 sett., Uff. di lett. resp. II