Benedetto e Gregorio: le colonne della liturgia latina

ROMA, giovedì, 7 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito una riflessione di don Enrico Finotti, parroco di S. Maria del Carmine a Rovereto (prov. Trento), contenuta nel libro “La centralità della liturgia nella storia della salvezza” (Edizioni Fede e Cultura, 2009).

 

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Fin dai primissimi tempi la liturgia della Chiesa si espresse in due forme, tra loro connesse, in modo che l’una sia l’estensione e l’approfondimento dell’altra. Si tratta della liturgia ordinaria del popolo di Dio e, al suo interno, quella più specifica degli asceti e delle vergini. La prima celebra i divini misteri nel tessuto della vita di ogni giorno, seguendo i ritmi e le situazioni in cui si trova la comunità cristiana, l’altra prepara e prolunga nei tempi e approfondisce nei contenuti i misteri celebrati nella riunione domenicale e feriale, che tutti accomuna. Questa due modalità, che rispondono a specifiche sensibilità spirituali e a diversa disponibilità di tempo e di lavoro, convivono dentro la comunità cristiana e si intrecciano, come espressioni legittime e complementari della liturgia quotidiana e settimanale della Chiesa locale. In tal modo l’intera assemblea liturgia riceve permanentemente il beneficio e la testimonianza di una dedizione cultuale più intensa ed estesa, a contatto con la vita della comunità, che gli asceti offrivano a Dio per il bene e il progresso di tutti i fratelli nella fede. Essi, infatti, anticipavano nella lode e nella meditazione, la convocazione di tutto il popolo con i suoi pastori, e la estendevano poi in altre ore del giorno e della notte, impossibili a chi viveva nei normali ritmi giornalieri. Gli asceti e le vergini non vivevano quindi da estranei alla loro comunità cristiana, ma erano pienamente inseriti in essa e stavano in primo piano nella comune celebrazione dei divini Misteri, dai quali i fedeli laici attingevano la forza per il loro impegno secolare e gli asceti la luce per una vita spirituale più intensa e fervente.

Con l’avvento della libertà religiosa queste pratiche ulteriori, che nei primi secoli erano per lo più facoltative e fatte solo dai più zelanti, ricevono una più precisa organizzazione sia nei riti, come nelle persone che le assolvono e si avviano verso una forma sempre più istituzionalizzata. Questa situazione, più evoluta, è già evidente nella Chiesa di Gerusalemme del IV secolo, secondo il noto diario della pellegrina spagnola Egeria.

Ebbene, queste due diverse intensità nell’esercizio del culto sono all’origine della due fondamentali forme liturgiche, comuni in Oriente e in Occidente, designate oggi come: la liturgia cattedrale e la liturgia monastica. La prima scaturisce dal modulo tipico dei riti rivolti all’assemblea di tutto il popolo, la seconda deriva da quelle forme supplementari, consentite solo ad alcuni, gli asceti e le vergini. Un esempio di composizione di queste due forme lo si può individuare nella Liturgia delle Ore, dove, le Lodi, i Vespri e la Veglia domenicale, si ritengono appartenenti all’antico ufficio cattedrale, mentre le Ore minori diurne (terza, sesta, nona compieta) e l’Ufficio notturno feriale si configurano come sviluppi successivi dell’Ufficiatura monastica. [1]

In seguito, con la nascita e la crescente affermazione del monachesimo e soprattutto col passaggio dalla forma eremitica a quella cenobitica, la liturgia monastica tende a separarsi notevolmente dal seno della Chiesa locale e ad esprimersi sempre più in ambienti diversi e con forme proprie, più consone al carisma specificatamente contemplativo. Si giungerà così, nell’alto medioevo, alla realizzazione matura di quelli che saranno i due luoghi precipui della vita della Chiesa e dell’irradiazione evangelica: la città con la liturgia della sua cattedrale e il monastero con la liturgia abbaziale. Qui le due forme liturgiche potranno percorrere strade distinte in strutture rispettivamente più adatte e con un diverso tipo di assemblea liturgica: quella del popolo e quella dei monaci. Questa opportunità consentirà alle due forme – cattedrale e monastica – di raggiungere una maggiore identità e di esprimersi con una propria genialità, ma produrrà anche una più profonda divaricazione tra monaci e laici.

In questo quadro storico i due grandi, Benedetto e Gregorio, emergono quali personalità rappresentative delle due forme liturgiche: Benedetto è il simbolo della liturgia monastica, Gregorio è il simbolo della liturgia cattedrale.

In verità essi assurgono anche ad essere i paladini dell’intera vita ecclesiale dell’Occidente. Infatti, la loro persona è strettamente collegata alle due Regole, che essi hanno donato alla Chiesa. La Regola monastica di san Benedetto organizza il monachesimo occidentale e pone le basi costitutive delle abbazie; La Regola pastorale di san Gregorio Magno, imposta la pastorale occidentale e pone le basi della vita diocesana e dei suoi pastori.

La liturgia monastica, in primo luogo, privilegia il monito evangelico del pregare incessantemente (1 Ts 5,17) e si impegna ad una assolvenza tendenzialmente piena dell’intero salterio e di un più ampio lezionario biblico. Ciò è reso possibile da un regime di vita consono alla contemplazione, diurna e notturna, e si può realizzare solo in ambienti adatti a questo scopo, col supporto di una comunità che condivida preghiera, lavoro e riposo. Gli Angeli che contemplano sempre il volto di Dio ne sono icona e la vita celeste ne è modello. L’intimità totale con Dio e l’olocausto della verginità, la fusione sinfonica nella comunità, unita all’abnegazione di se stessi, delineano il cuore del monaco e offrono il clima spirituale più idoneo per l’attuazione del canto corale e regolare delle lodi divine. Soprattutto dopo la fine della grandi persecuzioni si sentì l’esigenza di non rinunciare a quella radicalità evangelica che era caratteristica delle origini eroiche del cristianesimo e, di fronte all’inevitabile allentamento della preghiera in un popolo cristiano sempre più numeroso, ma con conversioni talvolta sommarie, si intese conservare la generosità degli inizi con una vigorosa proposta esistenziale, che tenesse vivo lo spirito della primitiva comunità cristiana. In tal senso la liturgia monastica, in tutte le sue variabili, costituisce un bacino di spiritualità irrinunciabile per la santità e l’elevazione qualitativa dell’intero popolo di Dio. San Benedetto è l’interprete insuperato della liturgia monastica occidentale e il suo carisma è descritto con rara eloquenza in uno dei responsori più belli dell’Ufficio Romano, che si canta proprio nella sua festa dell’11 luglio:

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San Benedetto, lasciando la casa e l’eredità paterna per essere gradito a Dio, si consacrò interamente a lui nella vita monastica.

* Abitò solo con se stesso, sotto gli occhi di colui che vede tutto.

Si ritirò dal mondo, con l’ignoranza di chi sa troppo bene, e con la sapienza di chi non vuol sapere.

* Abitò solo con se stesso, sotto gli occhi di colui che vede tutto.[2]

La liturgia cattedrale, invece, si cura prevalentemente di introdurre il popolo nei misteri e di disporlo a riceverne con frutto la grazia. Elevare il popolo alla liturgia e portare la liturgia al popolo è la preoccupazione del pastore. Il popolo nella sua globalità e nelle situazioni ordinarie di vita è il referente fondamentale di questa forma liturgica. E il genio specifico del pastore vigilante sta nel coniugare con equilibrio l’integrità del mistero con la sua trasmissione, senza ridurre o eliminare uno dei due termini. L’intento pastorale ricerca nella continuità della tradizione l’impiego migliore di formule, preci, simboli e riti verificando con responsabilità e competenza la loro abilità a comunicare quella grazia, che devono poter esprimere in modo adeguato. Per questo la liturgia cattedrale tende ad essere breve, incisiva, semplice, elastica. Essa segue il ritmo diversificato delle categorie comuni dei cristiani, che vivono nella società e sono impegnati nel lavoro quotidiano. Tuttavia non è priva di fascino, di sacralità e di solennità, come dimostra la liturgia della Chiesa Romana, che da sempre si esprime con riti brevi, lineari, nobili e solenni. E’, infatti, la nobile semplicità (SC 34) [3] il carisma di questa Chiesa con la quale tutte le Chiese devono concordare. E dalla nobiltà della forma romana spira un senso del sacro essenziale ed eccelso e, proprio per questo, incisivo nella pastorale. San Gregorio Magno è il modello della liturgia cattedrale romana. Egli, come risulta dal suo Sacramentario, ha fatto sintesi delle migliori tradizioni liturgiche precedenti e, da buon pastore, ha consegnato al suo popolo una liturgia capace di coinvolgerlo con efficacia nei misteri salvifici. La sua opera liturgica ebbe una tale diffusione e una così vasta recezione nella Chiesa latina da varcare i secoli, fino a giungere ai nostri tempi. Il suo genio pastorale lo raccomanda quale referente per ogni successiva riforma della liturgia, che, mediante uno sviluppo organico dell’ininterrotta Tradizione, immette nel popolo cristiano, che si diversifica nelle culture, quell’unica energia divina che non può mai essere corrotta. Anche Gregorio trova nel meraviglioso responsorio della sua memoria liturgica del 3 settembre, una mirabile sintesi dell’intera sua opera pastorale e in particolare del suo splendido genio liturgico:

Dalle profondità delle Scritture trasse norme di azione e contemplazione, e immise nella vita del popolo l’acqua viva del Vangelo.

* La sua voce continua a risuonare nella Chiesa.

Come aquila colse dall’alto il senso delle cose; con la forza della carità provvide agli umili e ai grandi.

* La sua voce continua a risuonare nella Chiesa.[4]

Il mutuo legame tra le due forme liturgiche – cattedrale e monastica – è ancora assicurato da Gregorio e Benedetto. Infatti, Benedetto – monaco – assume come base liturgica per le sue comunità monastiche il rito dell’Urbe – sicut psallit Eccelsia Romana – e così salva la forma romana antica e classica e la trasmette ai posteri. Gregorio – vescovo – adatta alle esigenze del suo popolo la liturgia di sempre, ma sempre col cuore legato al monastero e con un continuo riferimento alla sua personale esperienza di monaco. In tal modo, né manca a Benedetto la comunione con la liturgia cattedrale, né manca a Gregorio la comunione con la liturgia monastica. Si ritorna così a quel nesso indissolubile delle origini, quando popolo e asceti, condividevano nell’unica Chiesa locale le due anime della liturgia. Un legame che mai dovrebbe essere perduto per l’edificazione dell’unico popolo di Dio. Benedetto e Gregorio, non solo affermano la legittimità e la ricchezza delle due forme liturgiche, ma al contempo ne proclamano l’unità indissolubile e il comune orientamento al servizio dell’unica Chiesa di Dio.

Il carisma gregoriano continua nella Chiesa in eminenti figure di Pontefici, che hanno saputo, come san Gregorio Magno, adattare le forme variabili dell’unica liturgia, alle diverse situazioni dei tempi e dei popoli. Pontefici come, san Pio V, san Pio X, Pio XII e Paolo VI – per ricordare i più recenti – non sono che la continuità nel tempo della Chiesa delle cure soprannaturali che il Pastore divino esercita continuamente per la salvezza del suo popolo. In essi si è manifestato il carisma del grande Gregorio e per essi la Liturgia è apparsa in tutta la sua perenne vitalità. Scrutandola nelle profondità del suo mistero, colsero dall’alto il senso delle cose e, con opportune riforme, immisero nella vita del popolo del loro tempo l’acqua viva del Vangelo. Infatti, gli interventi liturgici di tutti i grandi Papi riformatori furono fondamentalmente a carattere pastorale e possono venir riassunti nel principio, auspicato da san Pio X, che ispira e consacra il movimento liturgico: “Essendo Nostro vivissimo desiderio che il vero spirito cristiano rifiorisca in tutti i modi e si mantenga nei fedeli tutti, è necessario provvedere prima di ogni altra cosa alla santità e dignità del tempio, dove appunto i fedeli si radunano per attingere tale spirito dalla sua prima ed indispensabile fonte, che è la partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa” (Mutu proprio: ‘Tra le sollecitudini’’, 22 novembre 1903). Gli interventi legittimi di tutti i Romani Pontefici non possono essere considerati alla stregua di operazioni private, per quanto qualificate, ma sono atti del supremo Magistero della Chiesa e quindi devono essere assunti con spirito religioso in quel cammino di continuità e di organico sviluppo, che, sotto la guida dello Spirito Santo, informa e sospinge l’intera vita della Chiesa. Qualora venisse meno questa visione di fede, crollerebbe la natura stessa del vivere in Ecclesia e cum Ecclesia. Non può perciò essere giustificata in alcun modo alcuna scelta difforme dalla comunione gerarchica (Lumen gentium 21), né in senso ‘tradizionalista’, né in senso ‘progressista’.

Ma sarà soprattutto il Servo di Dio Paolo VI, che, per decreto del Concilio Ecumenico Vaticano II, darà un’attuazione del tutto singolare al carisma gregoriano in ordine alla riforma generale della Liturgia Romana. Egli in continuità col pensiero maturato nel movimento liturgico ed espresso da Pio XII al Primo Congresso Internazionale di Liturgia Pastorale tenuto in Assisi il 22 settembre 1956 – “Il movimento liturgico è in tal modo apparso come un segno delle disposizioni provvidenziali di Dio riguardo al tempo presente, come un passaggio dello Spirito Santo nella sua Chiesa, miranti ad avvicinare sempre più gli uomini ai misteri della fede e alle ricchezze della grazia, che hanno la loro sorgente nella partecipazione attiva dei fedeli alla vita liturgica” – realizzerà la riforma liturgica più vasta e organica che mai prima fosse stata compiuta. In lui risplende una grande sintesi – non ancora possibile nei secoli precedenti – dell’intero arco della storia della liturgia a partire dalle fonti più antiche; i riti e le preci riprendono l’equilibrio e la semplicità degli inizi; ed in linea con le migliori epoche creative dei grandi complessi rituali classici, offre un nuovo e considerevole apporto eucologico, che, coerente con la Tradizione, integra gli sviluppi dottrinali degli ultimi secoli nella prospettiva teologica del Concilio Ecumenico Vaticano II.

L’intento pastorale di Gregorio risplende anche in Benedetto XVI, che non
vuole che nulla di ciò che è vero, nobile, giusto… e merita lode (Fil 4, 8) ed è valido nella tradizione liturgica secolare della Chiesa, vada perduto, e ci richiama al detto evangelico: «… ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13, 52).

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1) RIGHETTI, M., Storia liturgica, ed. Ancora, 1969, vol. II, p. 605: “…alla fine del IV secolo vediamo organizzato presso le principali Comunità un duplice servizio ecologico o Cursus: il Cursus secolare, che comprende una ufficiatura quotidiana vespertina e mattutina, più una vigilia ad galli tantum nella tarda notte di ogni domenica; e un Cursus semiofficiale, che comprende la veglia notturna feriale quotidiana e le tre ore diurne a terza, sesta, nona. Di essi, il primo, universalmente praticato e seguito dal clero e dal popolo, asceti compresi, rappresenta il servizio ecologico liturgico ordinario delle Chiese (cursus cathedralis); il secondo, limitato al ceto degli asceti d’ambo i sessi (monaci, vergini), è lo sviluppo paraliturgico di quella preghiera privata, diurna e notturna, propria, come dicemmo, delle anime particolarmente consacrate al servizio di Dio entro o fuori le mura di un monastero (cursus monasticus)”.

2) SAN BENEDETTO, ABATE E PATRONO D’EUROPA, festa 11 luglio., Uff. di lett. resp. II

3) “I riti splendano per nobile semplicità, siano chiari nella loro brevità e senza inutili ripetizioni, siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni” (SC 34).

4) SAN GREGORIO MAGNO, memoria 3 sett., Uff. di lett. resp. II

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ZENIT Staff

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