AIDS, religioni unite contro la stigmatizzazione

Per la prima volta, 40 leader religiosi di tutto il mondo si impegnano a sconfiggere l’HIV

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di Mariaelena Finessi

ROMA, venerdì, 26 marzo 2010 (ZENIT.org).- Dinanzi ad una vera e propria pandemia che negli ultimi 30 anni ha ucciso oltre 25 milioni di persone, esponenti di varie religioni si sono impegnati pubblicamente ad «esercitare una leadership più forte, più visibile e concreta» nella lotta all’AIDS.

È accaduto a Den Dolder (Paesi Bassi), dove – per la prima volta al mondo – 40 dei più importanti leader cristiani, musulmani, ebrei, induisti e buddhisti si sono riuniti, dal 22 al 23 marzo, per discutere di HIV/AIDS.

Organizzato dall’Alleanza ecumenica “Agire insieme” e dall’organismo cattolico olandese per lo sviluppo “Cordaid”, tra i temi affrontati dal vertice, le misure di prevenzione e contrasto della pandemia, le strategie atte a porre termine alla stigmatizzazione e discriminazione e, soprattutto, le modalità più opportune per esprimersi apertamente sulla malattia e sulle problematiche sociali ad essa correlate.

Il summit ha rappresentato inoltre un’opportunità di confronto e dialogo con malati di HIV e con specialisti impegnati nella lotta all’AIDS. Da quando il virus dell’immunodeficienza acquisita è stato identificato per la prima volta, 30 anni fa, le disparità di accesso al trattamento di farmaci antiretrovirali hanno creato forti disuguaglianze.

L’attuale crisi economica sta mettendo in pericolo i progressi compiuti finora tanto che ogni volta che due persone iniziano il trattamento farmacologico, altre cinque si infettano. I motivi includono indubbiamente anche la paura di essere isolati e condannati. Una paura che impedisce alle persone più vulnerabili di accedere ai servizi di prevenzione, controllo e trattamento della malattia. L’impegno dei religiosi è allora quello di «lavorare insieme per porre fine al silenzio».

Sostegno all’iniziativa è stato concesso dal ministero degli Esteri olandese, dall’agenzia delle Nazioni Unite UNAIDS e dal Consiglio ecumenico delle Chiese. In rappresentanza dei cattolici era presente all’incontro monsignor John Onaiyekan, arcivescovo di Abuja (Nigeria).

Monsignor Onaiyekan, di cosa avete discusso in questi due giorni?

Onaiyekan: Siamo stati invitati a scambiarci le esperienze nella speranza di trovare dei valori comuni sulla base dei quali programmare azioni concertate. Soprattutto, abbiamo riconosciuto che la religione deve essere vista come strumento di compassione e cura per chi soffre, non importa quale sia la causa della sofferenza. Il nostro compito è cioè di aiutare queste persone, specie a sconfiggere lo stigma e la discriminazione. Un compito oggi possibile, visto che la maggior parte delle religioni non parla più dell’AIDS come di una punizione di Dio ma piuttosto come di una sciagura. Ovvero di una malattia che affligge specialmente i poveri e gli innocenti. Ed è il caso dei bambini che nascono già con l’AIDS; dei coniugi che non hanno commesso nulla al di fuori della relazione matrimoniale; e di coloro, infine, che lavorano nelle strutture sanitarie e che corrono grandi rischi nel tentativo di aiutare degli sconosciuti.

Qual è la nuova strategia che vi vede accanto alle organizzazioni internazionali?

Onaiyekan: Queste organizzazioni internazionali per la prima volta cominciano ad interessarsi a ciò che facciamo noi comunità religiose. Prima di adesso si muovevano per conto proprio ignorando completamente tutti i nostri sforzi, mentre oggi stanno dicendo che vogliono lavorare accanto noi. Da ambo le parti cercheremo di capire in che modo possa farsi questa alleanza.

Ci sono già delle idee su come, nella pratica, possa realizzarsi questa collaborazione?

Onaiyekan: Dopo questo summit sarà più semplice scambiarsi le proprie esperienze, tenerci in contatto. Ad ogni modo si tratta di organizzazioni internazionali che lavorano anche a livello nazionale. Ad esempio – ed è il caso dell’UNAIDS – esse hanno uffici anche in Nigeria. Ciò vuol dire che il coordinamento sarà più immediato e ciascuna filiale di queste organizzazioni potrà relazionarsi più facilmente con i rappresentanti religiosi locali, al fine di individuare un supporto mirato, tecnico ed eventualmente economico. Per quanto riguarda gli accordi formali, invece, sarà una cosa da studiare più accuratamente perché compete alla Santa Sede. Quello che è certo, è che il lavoro più importante sarà fatto a livello locale, dai singoli Paesi e dalle singole diocesi.

Qual è l’impegno della Chiesa cattolica sul fronte della lotta all’AIDS? Esistono, ad esempio in Africa, delle “best practice” in tal senso?

Onaiyekan: La Chiesa cattolica si trova in grande vantaggio perché ha organizzazioni definite nelle Conferenze episcopali e nelle diocesi senza contare gli esperimenti intrapresi a livello interreligioso, fra cristiani e musulmani, per affrontare il tema dell’HIV e dell’AIDS. Per esempio, in Nigeria abbiamo un ufficio ecclesiastico che coordina le attività di prevenzione e cura della malattia e che è costantemente in contatto con il governo nazionale per discutere su come si possa lavorare insieme. In particolare, nella nostra diocesi, ad Abuja, abbiamo messo su dei programmi per aiutare le persone a livello sanitario e tutti, comunità religiose e civili, siamo coinvolti nei servizi di “HIV, counseling and testing” per sapere se chi arriva nei vari ambulatori è positivo o negativo, così da poter attuare una migliore distribuzione dei medicinali ed offrire servizi di informazione su come prevenire la trasmissione del virus dalla madre al figlio al momento parto. Ovviamente, tutto dipende dalla disponibilità economica.

Nell’attività di prevenzione, molto spesso si è discusso se sia il caso o meno di autorizzare l’utilizzo del condom. Lei che ne pensa?

Onaiyekan: Personalmente sono d’accordo con la Santa Sede che la risposta effettiva alla sfida che abbiamo dinanzi, e che coinvolge particolarmente i giovani, non sia il condom ma un cambiamento dello stile di vita, una migliore organizzazione sanitaria, la risoluzione del problema della povertà. E poi non dimentichiamo che ci sono quei milioni di persone che sono già malate: distribuire i condom non li aiuta.

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ZENIT Staff

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