di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 16 marzo 2010 (ZENIT.org).- “I cristiani riescono a vedere la bellezza di Gesù sofferente e sfigurato che ha accettato la morte perchè noi potessimo vivere”. Con queste parole monsignor Timothy Verdon ha dato inizio alla sua relazione su “Il Dio dei cristiani e la bellezza”.
Un intervento svolto presso la Basilica Cattedrale di Trieste il 10 marzo scorso nell’ambito degli Incontri quaresimali alla Cattedra di San Giusto.
Monsignor Verdon è uno storico dell’arte formatosi alla Yale University. Dal 1994 è sacerdote a Firenze, dove dirige l’Ufficio diocesano per la catechesi attraverso l’arte.
Autore di libri e articoli in italiano e inglese sul tema dell’arte sacra, è stato Consultore della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e Fellow della Harvard University Center for Renaissance Studies; tuttora insegna presso la Stanford University e la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.
E’ anche Presidente della Commissione per l’Ecumenismo ed il Dialogo Interreligioso dell’Arcidiocesi fiorentina oltre che canonico della Cattedrale di Firenze e membro del Consiglio d’amministrazione della fabbriceria.
Il Cristo è bello, ha sottolineato il religioso, perchè è “promessa per il nostro avvenire; cifra del mistero pasquale che, sì, è sofferenza ma che è soprattutto gloria”.
E “l’arte offre un sostegno alla nostra fede”, ha spiegato monsignor Verdon, anche se “questo Dio bello in cui crediamo, facendosi uomo in Gesù Cristo, si è lasciato abbrutire”.
Ma come ha compreso san Cirillo d’Alessandria, nell’accettare e vivere la Croce Gesù ha redento il mondo e qui sta la bellezza.
Facendo riferimento ad una celebre tela del maestro spagnolo Diego Velasquez, il professore statunitense ha sottolineato “la bellezza paradossale del Signore Crocifisso, il cui segno visivo è oggi contestato in Europa”.
Monsignor Verdon ha quindi ricordato una piccola placchetta votiva rinvenuta sotto l’altare papale di San Pietro negli scavi voluti da Pio XII – un’opera forse del IV secolo – ed ha sottolineato “l’antica mistagogia cristiana che ha visto tutta la vita di Cristo nel segno della croce”.
Richiamando poi l’esempio della croce di Papa Pasquale I, un capolavoro di smalto cloisonné su lamina d’oro realizzato forse da un maestro siriaco attivo a Costantinopoli nei primi decenni del IX secolo e conservata nel Museo Sacro della Biblioteca Vaticana, ne ha descritto il programma iconografico focalizzato sul mistero natalizio.
“La croce in oggetto è in realtà di una stauroteca, cioè un contenitore per frammenti della vera croce, e così – ha commentato il professore americano – l’impatto dell’oggetto non era solo intellettuale ma anche viscerale”.
Poiché l’oggetto cruciforme conteneva il legno su cui Cristo era morto, il credente contemplava queste scene della sua nascita con profonda commozione; non a caso il centro, corrispondente alla testa di Cristo in un crocifisso, è occupato dalla Natività stessa, col bambino in una mangiatoia allusiva alla futura offerta del corpicino come alimento.
Monsignor Verdon ha quindi fatto riferimento anche ai riquadri musivi di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, dove il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci viene raccontato con Cristo che estende le braccia a destra e a sinistra per dare i pani e i pesci agli apostoli.
“Ma la posa – ha spiegato – è quella che egli assumerà successivamente sulla croce, come se l’anonimo artista avesse intuito che, nel Nuovo Testamento, ogni racconto di un pasto in qualche modo prepara il lettore a comprendere il senso del pasto decisivo in cui, la notte prima di morire, Cristo offrì il proprio corpo nel segno del pane, e il sangue nel vino, per soddisfare la fame spirituale dell’umanità”.
Monsignor Verdon ha detto che il mistero della Croce è presente ovunque nell’arte cristiana, come in uno straordinario dipinto del XIV secolo, opera di un maestro greco attivo in Italia, Nicoletto Semitecolo, che fa vedere Cristo crocifisso senza la croce lignea, inchiodato alle mani del Padre.
“E’ una raffigurazione della Trinità – ha rilevato il canonico della Cattedrale di Firenze- in cui l’affermazione di Cristo di essere ‘una cosa sola’ con il Padre significa lasciarsi crocifiggere alla volontà di Dio di offrire un segno materiale ed indiscutibile del suo amore per gli uomini”.
In questo contesto monsignor Verdon ha inserito un’opera trecentesca del maestro veronese Turone de Maxio, una miniatura in un antifonale conservato nell’Archivio del Capitolo del Duomo di Verona.
In quest’opera, ha spiegato, “l’immagine, che ha per tema la Trinità, fa vedere Cristo in croce nel seno di Dio Padre che gli alita lo Spirito, più o meno come farà ancora Masaccio nel Quattrocento: era questo infatti il modo di visualizzare il mistero del Dio uno e trino nell’arte occidentale della fine del Medioevo”.
“Il Dio che è ‘Bellezza antica e nuova’, sin dall’eternità è bellezza crocifissa per noi!”, ha infine concluso monsignor Verdon.