ROMA, martedì, 16 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito ampi stralci del discorso pronunciato questo martedì dal Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, in occasione della riunione della Giunta di Confindustria.
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Un’enciclica è «senza tempo» perché è un richiamo, pastorale e dottrinale, sul senso da dare alle azioni umane, secondo lo spirito cristiano. Ma una enciclica è anche «nel tempo» perché si riferisce ai problemi reali di oggi che, per chi fa impresa, sono complessi e talora preoccupanti, e Benedetto xvi nella Caritas in veritate non tralascia di evidenziarli con chiarezza.
Non sono qui per ripercorrere dettagliatamente i contenuti di tale documento pontificio, ma per ribadire in questa assemblea di imprenditori, preoccupati di una sana imprenditorialità che coniughi il profitto con lo sviluppo sociale, ciò che è ormai opinione diffusa: che la crisi non è soltanto economica, ma è stata originata da deficit di valori morali e da comportamenti pratici contrari alla legge di Dio e conseguentemente contrari all’uomo; dannosi per la giustizia e negativi per la crescita materiale e spirituale della società. Dai recenti interventi di Benedetto xvi si può individuare una «trilogia» di piste da percorrere per arginare questo deficit di valori. Anzitutto occorre prendere in seria considerazione l’emergenza educativa. «La chiedono i genitori — dice il Papa — preoccupati e spesso angosciati per il futuro dei propri figli; la chiedono gli insegnanti, che vivono la triste esperienza del degrado delle loro scuole; la chiede la società nel suo complesso, che vede messe in dubbio le basi stesse della convivenza; la chiedono nel loro intimo gli stessi ragazzi e giovani, che non vogliono essere lasciati soli di fronte alle sfide della vita» (Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008).
Un’altra imprescindibile necessità è la formazione di una nuova generazione di laici cristiani impegnati nel mondo del lavoro, dell’economia, della politica, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile (Omelia per la celebrazione eucaristica sul sagrato di Nostra Signora di Bonaria, 7 settembre 2008).
Il terzo elemento, che si evince dall’enciclica stessa, è l’approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione. «Serve un nuovo slancio di pensiero per comprendere meglio le implicazioni del nostro essere una famiglia; l’interazione tra i popoli del pianeta ci sollecita a questo slancio, affinché l’integrazione avvenga nel segno della solidarietà piuttosto che della marginalizzazione» (Caritas in veritate 53).
Possiamo così riassumere i valori che devono guidare l’imprenditore: fare impresa è una missione potenzialmente elevatissima, ma essa è uno strumento per il benessere dell’uomo, il quale non è solo materia e perciò esige grandi attenzioni anche ai suoi bisogni spirituali. Quando l’imprenditore si occuperà anche di questi, avrà acquisito un vero vantaggio competitivo.
Per assicurare lo sviluppo dell’impresa, si deve credere nella vita e sostenerla con tutti i mezzi, aiutando le famiglie a formarsi, sostenendo la nascita e la crescita dei figli, assicurando così uno sviluppo vero e sostenibile per il sistema industriale.
Per favorire la creazione di ricchezza dell’impresa, lo sviluppo economico deve essere distribuito ed esteso a tutti, solo così potrà esser mantenuto.
L’economia e la tecnica non possono avere autonomia morale. Essendo mezzi, essi devono esser utilizzati per il bene comune e della persona.
La responsabilità dell’imprenditore e il comportamento cosiddetto etico sono personali, perché è la persona che dà senso alle proprie azioni.
Una ulteriore domanda viene tuttavia spontanea: questi comportamenti sono validi per una corretta conduzione dell’azione di sviluppo in un mondo che cambia? Per rispondere a tale domanda è necessario chiedersi quali, in questo momento, sono i veri grandi cambiamenti che pretendono considerazione per un’azione imprenditoriale di sviluppo. Al riguardo, occorre ricordare che è cambiata la crescita economica a seguito di fattori diversi, a cominciare dall’introduzione di un distorto modello di crescita, dovuto al crollo delle nascite. Grazie alle azioni che hanno tentato di compensarne le conseguenze non previste, quali la spinta alla produttività esasperata, la delocalizzazione produttiva, il consumismo a debito delle famiglie…, si è creato uno sviluppo artificiale e insostenibile, il cui crollo ha prodotto distruzione di ricchezza e vulnerabilità delle imprese, delle famiglie, delle persone e degli stessi Stati.
Inoltre, sta anche cambiando la distribuzione del potere e dell’influenza politica a livello globale, che modifica il peso delle culture e, di conseguenza, il comportamento e i modelli imprenditoriali. Tale fenomeno potrà ancor più alterare pericolosamente la visione della dignità dell’uomo e della persona. Sta mutando, infine, anche il processo economico-finanziario, che da crescita drogata sta modificandosi in decrescita necessaria per ridurre il debito dei sistemi economici, provocando così maggior difficoltà per l’economia reale, chiamata a fronteggiare la crisi con minor sostegno finanziario e con rischi di conflittualità sociale.
Dai valori sottolineati discendono alcune raccomandazioni che mi sembrano significative. Certamente desta molta inquietudine il problema dell’occupazione e della sua tutela. Ce lo ricorda anche la Costituzione — che resta fondamentale per la vita civile del Paese — quando mette il lavoro alla base della democrazia. La perdita del lavoro per tanti occupati e la mancanza di prospettive di impegno per tante migliaia di giovani, pure qualificati, vanno ben oltre la perdita dello stipendio. Le persone espulse dal lavoro o senza prospettive di lavorare entrano in una crisi esistenziale, perché il lavoro è una parte costitutiva della persona che senza di esso si sente fuori posto e inutile. Non di rado entrano in difficoltà i rapporti familiari con le conseguenze sociali ben note. A questo riguardo, non voglio solo fare richiami generici e irrealistici. Come si garantisce l’occupazione, senza fare assistenzialismo? Conoscete meglio di me la risposta. Si tutela sviluppando l’impresa e rafforzandola competitivamente. Ciò richiede un adeguato sostegno finanziario, oggi carente. Ma voi avete chiaro il modello di sviluppo cosiddetto italiano, quello centrato sulla figura dell’imprenditore con una visione a lungo termine, con un senso di responsabilità sociale sul territorio, con una cura quasi personale ai propri dipendenti, con un’attenzione al rischio e prudenza nell’uso di strumenti complessi. Si rafforzi dunque questo modello e si convinca il sistema finanziario che è il migliore per il rilancio della nostra economia. Conseguentemente, auspico che si sviluppi una strategia di «concertazione» con le parti sociali e il governo per coordinare le scelte nella necessaria ristrutturazione a breve.
Sembra, infatti, doveroso fondare questo modello di ripresa sui valori di responsabilità personale e sul merito, anziché sulla ricerca di forme di assistenza o di protezione.
Parlando dell’oggi dell’impresa e dei valori che la devono guidare, non bisogna dimenticare gli sforzi di coloro che nel recente passato, in contesti certo differenti, sì da rendere forse problematico il volerli qui richiamare, con il rischio di semplificarli o mal interpretarli, hanno contribuito ad elaborare un modello di impresa con un forte senso di responsabilità sociale. Mi riferisco all’esperienza dell’azienda Olivetti, che mi piace ricordare dato che quest’anno ricorre il 50° anniversario della morte dell’ingegnere Adriano Olivetti (1960). Io sono originario della diocesi di Ivrea e questa esperienza è presente nella mia memoria e ha influito sulla mia sensibilità sociale.
In un convegno, vo
luto proprio dalla diocesi di Ivrea, intitolato «Olivetti ancora una sfida», tenutosi il 19 febbraio 2010, se ne è evidenziata la figura, ricordando i valori importanti e attuali dell’esperienza olivettiana. Il primo elemento ricordato è certamente quello di un umanesimo profondo nella gestione del mondo del lavoro. Un secondo elemento fondante è costituito dal senso di responsabilità con cui l’azienda ha affrontato il tema del suo rapporto con il territorio.
Per l’ingegnere Olivetti il movente del lavoro non è «quanto vale» ma «che cosa vale», con la conseguente traduzione in progresso civile dei risultati del processo produttivo. Secondo la concezione olivettiana l’impresa nasce e si sviluppa per poter ridistribuire gran parte dei profitti facendoli ritornare alla comunità circostante, con il conseguente armonico sviluppo dell’essere umano. Abissale la sua distanza dalla prospettiva dell’impresa predatoria impegnata a sfruttare le risorse locali senza restituire in ricchezza e bellezza. Egli si sforzava sempre e ovunque di radicare la fabbrica sul territorio di riferimento, al fine di farlo crescere materialmente, culturalmente, esteticamente.
L’ingegnere Adriano Olivetti è stato un esempio di umanesimo cristiano imprenditoriale (cfr. Luigino Bruni, Stefano Zamagni, Olivetti Adriano in Dizionario di economia civile, Città Nuova, 2009, pp. 635-640), conquistato dopo una svolta significativa della sua vita. Non è mia intenzione proporre la sua figura in chiave politica o ideologica — che può essere discussa a seconda dei punti di vista — ma piuttosto evidenziare che nella sua originale visione religiosa egli è stato simbolo del «dono» come vocazione. Egli volle donare i suoi averi per il bene comune. Per lui il dono era inteso come vocazione teologica di carità nella verità, non come filantropia. Perciò desidero simbolicamente ricordarlo alla luce dell’enciclica Caritas in veritate.
Un altro esempio più vicino a noi — anche se non vorrei privilegiarlo rispetto ad altre valide realizzazioni — è dato dal Gruppo Cerutti, fondato dall’ingegnere Giovanni Cerutti, che mi piace citare per averne conosciuto l’operato quando ero arcivescovo di Vercelli. In particolare ricordo la signora Tere Cerutti Novarese, recentemente scomparsa, che è stata alla guida del Gruppo per molti anni, prima accanto al marito Luigi, figlio di Giovanni, e poi come presidente. La filosofia aziendale e la storia di ottant’anni di attività del Gruppo ci presentano un’azienda vincente sul piano tecnologico e nello stesso tempo particolarmente attenta al fattore umano. Si deve riconoscere a Tere Cerutti — donna di fede profonda con notevoli doti di efficiente imprenditrice — la passione per le relazioni umane all’interno dell’azienda e tra l’azienda e i suoi interlocutori sparsi in tutto il mondo.
Viene allora da chiederci: come testimoniare con coraggio l’identità cristiana in questo momento di crisi? Credo che la risposta più opportuna possa essere trovata nella conclusione dell’enciclica, quando si afferma che «L’amore di Dio (…) ci dà il coraggio di operare e di proseguire nella ricerca del bene di tutti» (78). E ancora quando dice che «Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio» (79). Posso immaginare la vostra perplessità, ma vi parlo da pastore e non solo da studioso. La Chiesa, voi lo sapete, non svolge soltanto il compito di incoraggiare, ma anche quello di insegnare. Essa, infatti, ha una visione non solo naturale, ma anche soprannaturale.
Riguardo al lavoro, ad esempio, occorre notare che nei tempi antichi l’uomo libero non lavorava: il lavoro era riservato agli schiavi. Gesù Cristo invece, prima di annunciare per tre anni il Vangelo, per venti anni ha lavorato come falegname; Paolo di Tarso si manteneva fabbricando tende e scriveva ai cristiani «chi non lavora non mangi», e Benedetto da Norcia inseriva nella regola per i suoi monaci il principio del «prega e lavora»; così il lavoro diventava per l’uomo un’attività con pari dignità della preghiera e diventava una sua attività fondamentale, costitutiva. Nella modernità il lavoro, nella organizzazione di Frederick W. Taylor, veniva ridotto a puro mezzo di produzione, ma per il cristiano il lavoro umano va ben oltre perché è il corrispondere alla volontà di Dio su ciascuno: è così un atto di gratuità, un atto d’amore, una liturgia.
Vi invito, perciò, a riflettere attentamente su queste affermazioni. Gli imprenditori sono alla ricerca continua di nuove strategie vincenti, di nuovi vantaggi competitivi. Ebbene, non ho mai saputo che si fosse stabilita una strategia fondata su un vantaggio da molti ignorato: la grazia. L’addendo in più che rende ogni futuro imprevedibile. Si può pensare che la fiducia in Dio possa diventare un vantaggio? Che l’attenzione alla vita spirituale dei dipendenti diventi un vantaggio, che provoca più produttività, minori costi, minori rischi?
Ci si chiede come testimoniare con coraggio l’identità cristiana. Da quanto fin qui detto abbiamo visto emergere chiaramente la risposta: l’imprenditore cristiano considera l’impresa un mezzo e il profitto un utile strumento di misura. Entrambi, però, devono avere un fine, che è la persona umana. Il rispetto della dignità della persona si deve vedere anzitutto nell’attenzione dell’imprenditore verso il proprio comportamento, come pure verso i dipendenti, fornitori, clienti, azionisti, investitori. Tale attenzione provoca un valore, che si chiama fiducia. Occorre approntare strategie di sviluppo fondate proprio sul vantaggio competitivo della «fiducia», quella vera, non intesa soltanto come strumento di marketing, come avviene spesso con il termine «etica», usato specialmente quando questa viene a mancare. È necessario, quindi, che il mondo economico globale torni ad aver bisogno delle vostre capacità potenziate dalla risorsa «fiducia». Non si creda che modelli economici attualmente vincenti, ma che ci spaventano perché sono fondati su costi del lavoro troppo bassi, tecnologie troppo alte e prodotti di scarsa qualità, siano anche sostenibili. Se non sono centrati sulla valorizzazione dell’uomo, non lo saranno per molto. È una legge naturale fondata sul rispetto dell’uomo e delle leggi economiche naturali. Ignorarle produce gli effetti che abbiamo appena vissuto e che si riprodurranno in futuro in altre circostanze e condizioni. Vi invito, pertanto, a fornire al mondo l’esempio di come si governa una impresa con modelli cristiani di lealtà, trasparenza, sicurezza, qualità, capacità innovativa, senso di responsabilità e dovere. Tali scelte di alto profilo porteranno molti ad accorrere a voi per lavorare, per comprare, per fornire, per investire e per finanziare.
Per concludere vorrei ritornare all’inizio di questo mio intervento per riaffermate l’urgenza di una solida educazione delle nuove generazioni. È noto che il capitale umano di un’azienda passa attraverso la formazione, e questa rappresenta un vero obiettivo economico e sociale per il miglioramento dei rendimenti degli investimenti. Anche nei Paesi poveri il capitale umano ha questa funzione, nel senso che l’assorbimento di nuova tecnologia non può avvenire che attraverso la conoscenza. L’educazione però deve contribuire alla formazione delle idee e del pensiero dell’uomo in termini di socialità.
Prendo in prestito alcuni concetti espressi dal professore Ettore Gotti Tedeschi, in un recente articolo scritto per «Il Sole 24 Ore»: «Continuiamo a notare, opportunamente, una grande ansia di richiamare esigenze di etica e di fare proposte di nuovi modelli di capitalismo: temo però che grandi soluzioni con questo approccio giuridico economico sul capitalismo o sulla responsabilità sociale dell’impresa non si troveranno. Soluzioni vere si produrranno solo se si hanno idee e progetti per cambiare l’uomo anziché gli strumenti (…) Se l’uomo ha un pensiero vero, forte e maturo, il suo lavoro ne trae beneficio. Con conseguenze evidenti sui modelli di capitalismo migliori (…)»
(I buoni preti? Meglio degli economisti, 11 marzo 2010, pagina 15).
In questo modo la società può sperare in quella nuova generazione di uomini e di donne capaci di elaborare con competenza e rigore soluzioni di sviluppo sostenibile, e di impegnare le loro migliori energie morali nell’ambito della politica.
[L’OSSERVATORE ROMANO – Edizione quotidiana – del 17 marzo 2010]