ROMA, sabato, 13 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la relazione tenuta da monsignor Willem Eijk, Arcivescovo di Utrecht, intervenendo al Convegno teologico internazionale organizzato dalla Congregazione per il Clero e che si è tenuto dall’11 al 12 marzo presso la Pontificia Università Lateranense sul tema “Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote”.
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Si sente spesso dire che l’identità sacerdotale ha cominciato di vacillare in seguito al Concilio Vaticano II (1962-1965). Siccome il Concilio aveva riscoperto il laico e gli aveva attribuito pure una vocazione e missione, è sorta la domanda che cosa fosse specifica del sacerdozio. Io dubito se questo sia la storia completa e se la confusione fra l’identità del prete e quella del laico sia stata davvero il risultato del Concilio. Ci sono molti segnali che questa crisi ha cominciata prima.
Un libro informativo in questo rispetto, scritto fra l’altro dal preside del seminario minore dell’arcidiocesi di Utrecht, Mons. Ramselaar, è stato pubblicato nel 1947 sotto il titolo significativoOnrust in de zielzorg (Fermento nella cura delle anime).[1] Da questo libro risulta che lo ‘tsunami’ di rivoluzioni almeno nella Chiesa nei Paesi Bassi negli anni sessanta del secolo scorso, era percettibile già nella seconda meta degli anni quaranta. Detto libro conteneva una critica non tenera ai preti:
1. Il primo punto di critica era che i preti si occupavano troppo di cose che non appartenevano al proprio compito. Il rimprovero non era che i laici occupavano la sede del prete, ma vice versa: i preti occupavano le sedi dei laici. Nel rete delle organizzazioni cattoliche i preti erano i leader e le figure centrali.[2] Laici cominciavano di esigere i loro posti, non in questo senso che volevano fare da preti, ma che volevano avere anche un ruolo come leader nelle organizzazioni cattoliche.
2. In secondo luogo, si rimproverava ai preti di non vivere abbastanza la propria identità sacerdotale. Si trovava il loro agire troppo profano. I laici, pur apprezzando gli impegni e lo zelo dei preti, sentivano nei preti la mancanza del contenuto spirituale: la conversazione spirituale e la guida spirituale. La secolarizzazione, che fra i cattolici olandesi cominciava più tardi che negli altri paesi dell’Europa Occidentale, si infiltrava lentamente a partire dagli anni venti del secolo scorso.[3] Questo sviluppo aveva le sue ripercussioni anche sul prete. Fra parecchi preti il senso del mistero calava nel immediato secondo dopoguerra, secondo il citato preside del seminario minore.[4] Il medesimo fenomeno si manifestava pure in altri paesi, come risulta da un articolo nella rivistaFrankfurter Hefte, scritto dalla scrittrice tedesca Ida Görres nel 1946:
“Sempre si scontra con la domanda che tormenta: perché vi sono così pochi preti, che nel loro agire riflettono almeno qualche raggio di una frequentazione quotidiana con Dio, con cui il laico che desidera un cibo spirituale, può attaccare un discorso spirituale? Perché sono tanto rare le canoniche in cui c’è qualcosa di una atmosfera spirituale?”[5]
Bisogna concludere che il prete irradiava poco la sua identità intrinseca, cioè la sua identità sacramentale come uomo che rappresenta Cristo in persona, sopratutto nella celebrazione dell’eucaristia, come un intermediatore fra Dio e gli esseri umani. Al contrario, molti preti risultavano di essere affezionati alla loro identità estrinseca, cioè le loro funzioni come leader nella società profana, come leader delle organizzazioni cattoliche, come insegnanti e politici. La causa era fra l’altro che il loro compito proprio, la cura delle anime, diventava sempre più difficile a seguito alla secolarizzazione furtiva.
Un aspetto intrigante è quale influenza aveva tutto questo sui seminaristi in quell’epoca. Loro avranno conosciuto almeno teoricamente qualcosa dell’identità intrinseca del prete, ma nondimeno: per molti giovani cattolici l’unica possibilità di studiare era di studiare a un seminario. Al giovane seminarista toccava un trattamento particolare nel mondo cattolico e nella propria famiglia a una età, a cui gli mancava ancora per questo la maturità necessaria. I seminari olandesi avevano annate record riguardanti i numeri di studenti alla fine degli anni cinquanta. Tuttavia, in seguito alla crescita rapida della prosperità, la possibilità aumentata di frequentare la scuola media e le borse statali per studi universitari gli studenti avevano in breve tempo l’opportunità di seguire altri studi per professioni profane. Conseguentemente i seminari si svuotavano nella prima metà degli sessanta in tempi stretti. Osservando questo, non si ci riesce a togliere di mente l’idea che l’identità estrinseca del prete, il suo imago che gli dava lustro nella società, era stata un motivo importante per la scelta di andare al seminario. Un missionario anziano, ordinato prete nel 1957, raccontava di recente in un programma televisivo come fu ricevuto come neomista solennemente nella sua parrocchia di nascita sotto archi trionfali e con lo squillo di trombe della banda locale: “come neomista si era l’eroe del villaggio.” Io mi ricordo come pochi anni dopo, circa 1965, nel mio villaggio di nascita al confine di Amsterdam si guardava compassionevolmente l’unico seminarista rimasto che il villaggio contava ancora.
Nello stesso periodo come tutte le persone autorevoli di un tempo, il notaio, il medico, anche il prete è caduto dal suo piedestallo, Tuttavia, mentre il medico e il notaio mantenevano nondimeno la loro identità, quella del prete attraversava una crisi profonda. Bisogna segnalare però che questa crisi riguardava soprattutto la sua identità estrinseca in seguito dei cambiamenti culturali e sociali dell’epoca. Come abbiamo visto, il vivere l’identità intrinseca era stato indebolito già molti anni prima.
Vedendo tutto questo, che cosa dovremmo pensare dell’idea che molti hanno in mente, cioè che il Concilio Vaticano II ha portato nella vita della Chiesa una discontinuità? Si tratterebbe soprattutto di una discontinuità, sentita come drastica, nella devalutazione della posizione del prete, nella rivalutazione di quella del laico e nella celebrazione della liturgia. Ciò che il Concilio, inteso come pastorale e non dottrinale, ha fatto, è che ha aggiornato la vita e la prassi della Chiesa ai cambiamenti culturali, in quanto necessario, mantenendo però pienamente ildepositum fidei. Riguardo all’identità del prete il Concilio ha fatto questo in modo molto chiaro e deciso. Il Concilio, pur fissando l’attenzione sulla partecipazione dei laici al sacerdozio comune (Lumen Gentium n. 34), ha mantenuto pienamente la dottrina concernente l’identità intrinseca del prete, accentuando la differenza specifica del sacerdozio particolare. Il Concilio ha affermato esplicitamente che il sacerdozio comune e quello ministeriale o gerarchico differiscono “essenzialmente e non solo di grado” (Lumen Gentium n. 10). Inoltre il decreto Presbyterorum Ordinis dice:
“… il sacerdozio dei presbiteri, pur presupponendo i sacramenti dell’iniziazione cristiana, viene conferito da quel particolare sacramento per il quale i presbiteri, in virtù dell’unzione dello Spirito Santo, sono segnati da uno speciale carattere che li configura a Cristo sacerdote, in modo da poter agire in nome di Cristo, capo della Chiesa” (n. 2).
Il Concilio non ha introdotto una discontinuità nell’identità del prete. Si, c’è stata una tale discontinuità, fuori del contesto del Concilio, in due fasi diverse, come abbiamo visto sopra. La prima è stata una erosione graduale del modo in cui i preti vivevano la loro identità intrinseca, che si manifestava pian piano almeno nell’Europa del Nord Ovest negli anni quaranta del secolo scorso. Nella seconda fase l’identità estrinseca che il prete aveva fino alla fine degli anni cinquanta, è caduta in modo rapidissimo nell’epoca rivoluzionaria degli anni sessanta. C
ostatando tutto questo, bisogna concludere di fatti che grazie al Concilio Vaticano II la continuità dell’identità intrinseca non è affatto stata minata, ma al contrario salvaguardata in tempo. Il Concilio, conficcando i picchetti giusto in tempo, ha prevenuto che la crisi avesse minato in modo ancora più grave la consapevolezza dell’identità intrinseca del prete.
Il trovare il bilancio fra la sua identità intrinseca e quella estrinseca in un dato contesto sociale e culturale rimarrà sempre una sfida per il prete. Lui è e rimane pure un essere umano. Senza la Chiesa, senza la sua Tradizione e senza il suo magistero, guidati dalla Spirito Santo, molti elementi del depositum fidei non sarebbero stati chiariti e perfino sarebbero stati perduti. Da questa prospettiva si deve considerare anche il Concilio Vaticano II.
Il mantenere la continuità riguardante la identità del prete è essenziale, sia per il modo in cui i preti vivono il loro sacerdozio, che per il modo in cui i nostri seminaristi saranno formati e per il modo in cui diamo corpo alla pastorale vocazionale. Riguardo all’ultima bisogna evitare tentativi di svegliare vocazioni sacerdotali, fissando l’attenzione sulla identità estrinseca, uno sbaglio evaso troppo poco nel passato. Riguardo alla formazione sacerdotale bisogna sapere quali preti vogliamo avere. Non vorrei sottostimare la importanza della identità estrinseca di preti, connessa al fatto che loro, pur “in un certo modo segregati in seno al popolo di Dio,” non rimangono “separati da questo stesso popolo o da qualsiasi uomo,” con cui vivono e per cui lavarono in una data epoca e cultura (Prebyterorum Ordinis n. 3). Tuttavia, intendiamo formare futuri preti in primo luogo in base alla identità sacerdotale intrinseca. I preti sono quotidianamente esposti alla pressione, alle tensioni e ai delusi connessi alla proclamazione del Vangelo nella nostra società poco aperta alla fede cristiana. Perciò c’è dopo l’ordinazione per i preti sempre la seduzione di far prevalere la identità estrinseca sopra quella intrinseca. Per prevenire una discontinuità personale nel vivere la identità sacerdotale intrinseca devono curare il più possibile il loro rapporto con Cristo Sacerdote, Maestro e Pastore, mediante la preghiera, la lettura della Parola di Dio e i sacramenti, soprattutto la celebrazione quotidiana dell’eucaristia (Presbyterorum Ordinis n. 13). In Gesù, infatti, a cui i preti sono stati configurati mediante il sacramento d’ordine, si radica l’identità del prete, come ha formulato in modo conciso Giovanni Paolo II nella sua Esortazione Apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis:
“La vita e il ministero del sacerdote sono continuazione della vita e dell’azione dello stesso Cristo. Questa è la nostra identità, la nostra vera dignità, la sorgente della nostra gioia, la certezza della nostra vita” (n. 18).
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[1] H. Boelaars, G. de Gier, J. van der Hoeven, A. Lutterman, C. Moonen, A.C. Ramselaar, J.N. van Rosmalen, G. Smit, F. Thijsen, J.J.M. van der Ven, J. Vermeulen, Onrust in de zielzorg, Utrecht/Brussel: Het Spectrum, 1949. [2] J. van der Hoeven, J.N. van Rosmalen, “Clericaal traditionalisme,” in: Onrust in de zielzorg, op. cit., p. 31. [3] Il beato Titus Brandsma ha osservato questo nel suo discorso inaugurale, tenuto quando è diventato rettore-magnifico della Università cattolica di Nimega nel 1932, v. H. Nota, Titus Brandsma onder ons, Bolsward: Stichting Archief- en Documentatiecentrum voor R.K. Friesland, 2003, p. 81; Alphons Ariëns, un prete dell’arcidiocesi di Utrecht e fondatore del movimento degli operai cattolici in Olanda osservava i primi segni negli anni venti, v. H. Lohman, Portret van een priester. Het leven van Alphons Ariëns in woord en beeld, Hilversum: Gooi en Sticht, 1980, pp. 169-171. [4] A.C. Ramselaar, “Priesterlijke heiligheid,” in: Onrust in de zielzorg, op. cit., pp. 197-212. [5] I.Fr. Görres, “Brief über die Kirche,” Frankfurter Hefte (1946), quotato da A.C. Ramselaar, “Crisis in de zielzorg,” in: Onrust in de zielzorg, op.cit., pp. 209-210.