I sacerdoti devono aiutare a vivere la novità della grazia

Prima predica di Quaresima di padre Cantalamessa al Papa e alla Curia

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ROMA, venerdì, 5 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il compito dei sacerdoti è quello di aiutare i fedeli a vivere la novità della grazia, che contraddistingue il cristianesimo da tutte le altre religioni. E’ quanto ha affermato questo venerdì nella sua prima predica di Quaresima padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., predicatore della Casa Pontificia.

Con la predica tenuta nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico, alla presenza di Benedetto XVI e dei membri della Curia romana, padre Cantalamessa ha iniziato le sue meditazioni in preparazione alla Pasqua di quest’anno incentrate sul tema “Dispensatori dei misteri di Dio. Il sacerdote, ministro della Parola e dei sacramenti”, in continuità con la riflessione sul ministero episcopale e presbiterale iniziata in Avvento.

Riflettendo alla luce di 1 Corinzi 4, 1 (“Ognuno ci consideri come servitori di Cristo e amministratori dei misteri di Dio”) il predicatore della Casa Pontificia ha messo in luce i due compiti essenziali del sacerdote del nuovo Testamento: l’annuncio del Vangelo e l’amministrazione dei sacramenti corrispondenti ai due significati della parola misteri, come verità rivelate e segni efficaci della grazia.

“Per molti secoli – ha osservato – la funzione del sacerdote è stata ridotta quasi esclusivamente al suo ruolo di liturgo e di sacrificatore: ‘offrire sacrifici e perdonare i peccati’. È stato il Concilio Vaticano II a rimettere in evidenza, accanto alla funzione cultuale, quella di evangelizzatore”.

Approfondendo poi la novità sostanziale del ministero della nuova Alleanza rispetto a quello dell’antica, il cappuccino ha richiamato l’opposizione tra lettera e Spirito di cui parlava l’Apostolo Paolo, dove “la lettera è […] la legge mosaica scritta su tavole di pietra e, per estensione ogni legge positiva esteriore all’uomo; mentre lo Spirito è la legge interiore, scritta sui cuori”.

E questa legge nuova, o dello Spirito, da cui si sprigiona “la vita nuova” “non è, in senso stretto, quella promulgata da Gesù sul monte delle beatitudini, ma quella da lui incisa nei cuori a Pentecoste”.

Da questo punto di vista, ha detto, “gli apostoli sono la prova vivente di ciò”, perché pur avendo ascoltato “dalla viva voce di Cristo tutti i precetti evangelici” è solo con la Pentecoste che “li vediamo completamente dimentichi di sé e intenti solo a proclamare ‘le grandi opere di Dio’”.

Questa legge nuova, ha poi continuato, “agisce attraverso l’amore” che altro non è che “l’amore con cui Dio ama noi e con cui, contemporaneamente, fa sì che noi amiamo lui e il prossimo”.

In questo senso l’amore “crea nel cristiano un dinamismo che lo spinge a fare tutto ciò che Dio vuole, spontaneamente, perché ha fatto propria la volontà di Dio e ama tutto ciò che Dio ama”.

Il dovere scaturisce quindi dal dono d’amore, e il decalogo e i precetti evangelici sono il “compimento” della legge che Gesù ha donato all’uomo. Ecco quindi che l’obbedienza diventa “la prova che si vive sotto la grazia”.

Padre Cantalamessa ha poi analizzato l’attualità del pensiero di San Paolo e Sant’Agostino secondo i quali “per salvarsi non basta la natura, il libero arbitrio e la guida della legge, occorre la grazia, cioè occorre Cristo”, che “è esattamente ciò che distingue oggi il cristianesimo da ogni altra religione”.

“Le forme sono cambiante, ma la sostanza è la stessa – ha osservato il cappuccino –. ‘Opera della legge’, o opera dell’uomo, è ogni pratica umana, quando da essa si fa dipendere la propria salvezza, sia, questa, concepita come comunione con Dio, o come comunione con se stessi e sintonia con le energie dell’universo. Il presupposto è lo stesso: Dio non si dona, lo si conquista!”.

“Ogni religione umana o filosofia religiosa – ha quindi affermato – comincia con il dire all’uomo quello che deve fare per salvarsi: i doveri, le opere, siano esse opere ascetiche esteriori o cammini speculativi verso il proprio io interiore, il Tutto o il Nulla”.

Al contrario, ha continuato, “il cristianesimo non comincia dicendo all’uomo quello che deve fare, ma quello che Dio ha fatto per lui. Gesù non cominciò a predicare dicendo: ‘Convertitevi e credete al vangelo affinché il Regno venga a voi’; cominciò dicendo: ‘Il regno di Dio è venuto tra voi: convertitevi e credete al vangelo’”.

“Non prima la conversione, poi la salvezza, ma prima la salvezza e poi la conversione”, ha sottolineato.

Non stupisce, ha quindi osservato, che al giorno d’oggi l’uomo moderno sembra nutrire un “istintivo rifiuto” e “una difficoltà ad ammettere l’idea di grazia”. Salvarsi “per grazia”, ha detto, “significa riconoscere la dipendenza da qualcuno e questo risulta la cosa più difficile”.

“Il rifiuto del cristianesimo – ha evidenziato ancora –, in atto a certi livelli della nostra cultura occidentale, quando non è rifiuto della Chiesa e dei cristiani, è rifiuto della grazia”.

Da qui il compito dei sacerdoti di “aiutare i fratelli a vivere la novità della grazia, che è come dire la novità di Cristo”, o meglio predicare “Cristo crocifisso”.

Questo, ha però precisato, “non significa parlare sempre e solo del Cristo del kerygma o del Cristo del dogma, cioè trasformare le prediche in lezioni di cristologia. Significa piuttosto ‘ricapitolare tutto in Cristo’ (Ef 1,10), fondare ogni dovere su di lui, far servire ogni cosa allo scopo di portare gli uomini alla ‘sublime conoscenza di Cristo Gesù Signore’” (Fil 3, 8).

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ZENIT Staff

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