Ernesto “Che” Guevara

Nel doppio film di Steven Soderbergh

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ROMA, sabato, 27 giugno 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo di padre Virgilio Fantuzzi S.I., apparso sulla rivista “La Civiltà Cattolica”.

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Presentata nel 2008 a Cannes nella durata complessiva di oltre 4 ore, esce nelle sale del circuito normale in due distinti film di poco più di due ore l’uno (Che-L’argentino e Che-Guerriglia) l’epopea cinematografica che Steven Soderbergh ha dedicato a una delle figure emblematiche della storia del XX secolo: Ernesto «Che» Guevara (1).

Nel 1952 il generale Fulgencio Batista aveva assunto il potere a Cuba con un colpo di Stato. Nonostante la sua dittatura fosse sostenuta da un esercito di 40.000 uomini, un giovane avvocato di nome Fidel Castro incitò il popolo alla rivolta attaccando la base militare della Moncada il 26 luglio 1953. L’attacco fallì e Castro trascorse due anni in prigione prima di essere esiliato in Messico. Nel frattempo, un giovane medico argentino di nome Ernesto Guevara aveva cominciato a svolgere attività politica in Guatemala. Nel 1954, quando il Governo di Jacobo Árbenz, liberamente eletto, viene rovesciato nel corso di un’azione militare, Guevara fugge in Messico dove, grazie ad alcuni contatti presi in Guatemala, raggiunge un gruppo di esiliati cubani.

Il 13 luglio 1955 ha luogo un evento privato che risulterà determinante nella storia della rivoluzione cubana. In un appartamento di Città del Messico, Guevara viene presentato a Raul Castro, fratello minore di Fidel. Guevara si arruola in una operazione di guerriglia che ha lo scopo di rovesciare il dittatore cubano. I compagni di lotta ribattezzano il giovane ribelle col nomignolo «Che», per la sua abitudine di intercalare tra le frasi questa breve parola, corrispondente pressapoco al nostro «cioè». Il 26 novembre 1956, Fidel Castro salpa per Cuba con 80 ribelli. Soltanto 12 sopravviveranno all’impresa. Uno di loro è il «Che», il quale si è unito al gruppo come medico di bordo. Il «Che» impara presto l’arte della guerriglia e si rivela indispensabile come combattente, diventando il beniamino dei compagni e del popolo cubano.

Queste sono le premesse della vicenda esposta nei due film che Soderbergh dedica alla vita del medico argentino diventato rivoluzionario, come dice lui stesso, «per amore dell’umanità, della giustizia e della verità». L’ampio affresco nel quale la pellicola si dipana mette in evidenza tre momenti cruciali della biografia del «Che»: la guerriglia cubana (novembre 1956 – gennaio 1959) che sfocia nella presa di potere sull’isola da parte di Fidel Castro; l’intervento del «Che» nella sede delle Nazioni Unite a New York (dicembre 1964); la guerriglia in Bolivia (novembre 1966 – ottobre 1967) che si conclude con la cattura e la morte del «Che».

«Che – L’argentino»

Il primo dei due film, L’argentino, segue la fase ascendente del percorso del «Che» a partire dell’incontro con Fidel Castro a Città del Messico, seguito dalla partenza per Cuba e da due anni di guerriglia nella foresta della Sierra Maestra prima di conquistare l’Avana e di mettere fine al potere del dittatore Batista. Evitando di descrivere l’ingresso trionfale delle truppe rivoluzionarie nella capitale, il film si chiude con la partenza dei rivoltosi per l’Avana dalla piccola città di Santa Clara, dove la sorte della rivoluzione è decisa con la resa delle forze armate del dittatore.

Il racconto cinematografico non segue la cronologia dei fatti, ma intreccia scene di azione, riprese a colori sulla Sierra Maestra e nelle strade di Santa Clara, dove si combatte casa per casa, con immagini in bianco e nero di un’intervista rilasciata dal «Che» a una giornalista dopo la conquista del potere e con quelle, anch’esse in bianco e nero, nelle quali Guevara interviene all’assemblea delle Nazioni Unite, per denunciare a chiare lettere l’imperialismo nord-americano e per dire il disprezzo che prova nei confronti del servilismo con il quale gli Stati satelliti dell’America Meridionale assecondano gli interessi della potenza yankee.

Rispondendo alle domande dei giornalisti americani, il «Che» precisa le proprie intenzioni: dar vita a una rivoluzione permanente il cui scopo consiste nell’abbattere il capitalismo. Parole che acquistano forza dal loro sovrapporsi alle immagini dei successi che la guerriglia non cessa di mietere sul terreno, mentre il movimento che sta per condurre Castro al potere assume nelle parole del «Che» una portata che varca i confini dell’isola caraibica. L’attacco che Guevara (interpretato con impressionante verosimiglianza da Benicio Del Toro) lancia al sistema capitalistico, parlando dalla tribuna delle Nazioni Unite, rappresenta una sfida dichiarata alla quale il sistema risponderà, al termine del secondo film, con l’eliminazione fisica di colui che ha osato alzare la voce per dire parole tanto pesanti nel più autorevole dei consessi internazionali.

«Che – Guerriglia»

Il secondo film, Guerriglia, inizia senza un raccordo diretto con il finale del film precedente. Sullo schermo di un televisore di vecchio tipo appare il volto di Fidel Castro che legge la lettera con la quale Guevara si dimette dagli incarichi ufficiali ricoperti fino a quel momento nel Governo cubano per essere libero di riprendere la lotta rivoluzionaria in un altro Paese. Si tratta di una trasmissione, ovviamente in bianco e nero, diffusa a suo tempo dalla televisione cubana. Dall’immagine del televisore, inquadrato di sghimbescio, si passa a quelle dell’arrivo di Guevara sotto mentite spoglie a La Paz. Sono trascorsi otto anni dalla presa de l’Avana.

Il racconto riprende con l’organizzazione da parte del «Che» della guerriglia in terra boliviana. Ma questa volta siamo sul versante opposto rispetto a quello che nel film precedente aveva guidato i rivoluzionari di successo in successo, anche se in mezzo a comprensibili difficoltà. I guerriglieri vengono abbandonati a poco a poco da coloro che avevano promesso il loro appoggio e, prima di tutto, dal partito comunista boliviano, i cui dirigenti non condividono la strategia del «Che». A differenza di quanto accadeva a Cuba, i contadini non accettano di solidarizzare con i rivoltosi. L’ignoranza impedisce loro di capire quale sia lo scopo della lotta intrapresa dai ribelli. Nel film precedente, consapevole di questo problema, Guevara aveva insistito sulla necessità di dare ai contadini un’istruzione di base. «Un popolo senza istruzione — aveva detto — è facile preda delle menzogne diffuse dalla propaganda controrivoluzionaria».

Guerriglia si conclude con la cattura di un uomo malato, alla testa di una manciata di guerriglieri ridotti allo stremo, immersi in un ambiente inospitale, costretti a misurarsi con un nemico di gran lunga superiore in uomini e mezzi. Il dittatore Barrientos non ha nessuna intenzione di ripetere l’errore compiuto da Batista, il quale, avendo avuto in suo potere Fidel Castro, se lo era lasciato fuggire di mano. L’esecuzione sommaria del «Che» è la conseguenza di una sconfitta annunciata. Nel ricostruire la morte di Guevara, Soderbergh assume il punto di vista del morente. La macchina da presa è rivolta verso terra. Si vedono i piedi di chi si muove nella stanza. Uno spiraglio di luce entra dalla porta. L’immagine diventa progressivamente flou. Lo schermo si fa nero con il sopraggiungere della morte.

La rivoluzione è un colpo di dadi

Malgrado l’aspetto spettacolare, che gli fa assumere, soprattutto nella prima parte, cadenze da western, il lavoro di Soderbergh conferisce alla lotta delle idee un peso superiore a quello riservato alla lotta dei corpi. Lo si nota in particolare nel confronto (o, meglio, nel contrasto) tra i due film. La lotta vittoriosa de L’argentino potrebbe concludersi con una sorta di normalizzazione. All’inizio di Guerriglia lo spettatore
non può evitare di chiedersi perché un uomo che avrebbe potuto godersi gli agi, il potere e gli onori, conquistati con grandi sacrifici, decide di tornare nella clandestinità e riprendere una lotta dagli esiti incerti. La risposta è in ciò che i due film, con il loro reciproco accostamento, non dimostrano, ma si limitano a mostrare.

La rivolta in Bolivia fallisce come avrebbe potuto fallire quella a Cuba. Quando si tratta di impegnarsi in una rivoluzione, nulla può essere dato per scontato in partenza. Il vero rivoluzionario, come ripete il «Che» ai suoi uomini, trionfa o muore. La rivoluzione è un colpo di dadi. Eppure, più che nella vittoria della rivoluzione cubana, il destino del «Che» si compie nella sconfitta di quella boliviana. Il cammino inesorabile che lo conduce verso la morte contiene in sé la constatazione che anche se un uomo può essere catturato, umiliato e ucciso, le sue idee non muoiono necessariamente con lui. Ci sono casi nei quali le idee «risorgono» ancora più forti dopo la tragica fine di chi le ha professate.

Nell’ultimo colloquio notturno con il militare che monta la guardia accanto a lui, Guevara dice di non avere fede in Dio, ma negli uomini. Pur con questa precisazione, la sua adesione alla rivoluzione assume una dimensione di carattere religioso, quella di un uomo che si sacrifica per gli altri e in questo modo riesce a dare un senso alla propria vita. Egli non è più il condottiero che galvanizzava gli uomini nella marcia verso l’Avana, ma un uomo malato, braccato, abbandonato da tutti. Da dove gli viene, in circostanze così penose, la forza di cui ha bisogno per mantenersi fedele alle sue idee sino alla fine? L’uomo catturato e assassinato vince con la sua debolezza la forza di coloro che lo uccidono. In questo modo egli diventa l’emblema di una giustizia sociale per conseguire la quale nessun sacrificio è troppo grande.

Il film non si chiude con l’immagine «soggettiva» della morte del «Che» sopra indicata, né con quella dell’elicottero che si leva in volo, sullo sfondo di un cielo luminoso, per trasportare il suo cadavere nel luogo dove sarà esposto alla vista dei giornalisti, ma su quella (già vista all’inizio della prima parte) con un Guevara giovane e imberbe, imbarcato sulla nave che lo trasporta assieme ai compagni di lotta dal Messico verso Cuba. Con questo ritorno al punto di partenza si chiude il cerchio di un’esistenza che a buon diritto può essere definita leggendaria.

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A cinquant’anni di distanza dalla rivoluzione cubana, oggi si può dire che le idee del «Che» e la sua strategia di lotta non sono più in auge come lo erano alcuni decenni fa, anche perché la storia le ha dimostrate fallimentari. Eppure, la figura di quest’uomo  ha esercitato un indubbio fascino sui suoi contemporanei e sui giovani delle generazioni successive. Soderbergh si ripropone di farla conoscere con questa pellicola di ampio respiro, il cui protagonista è visto con simpatia, ma anche con quel distacco che consente allo spettatore di farsi un’idea sufficientemente obiettiva dei fatti accaduti, delle circostanze che li hanno determinati e dei problemi soggiacenti, tuttora aperti, sui quali film come questi hanno il merito di richiamare l’attenzione.

1 La sceneggiatura dei due film, scritta da Soderbergh in collaborazione con Peter Buchman, si basa fondamentalmente su due libri di Ernesto «Che» Guevara: Diario della rivoluzione cubana e Diario in Bolivia, la cui traduzione italiana è stata pubblicata rispettivamente da Newton Compton (2002) e da Feltrinelli (2005).

© La Civiltà Cattolica 2009 II 483-487           quaderno 3815

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ZENIT Staff

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