Dal caso Englaro alle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (III)

ROMA, domenica, 7 giugno 2009 (ZENIT.org).- La vicenda di Eluana Englaro e la discussione in Parlamento per una legge di fine vita suscitano ogni giorno nuove domande. Per la rubrica di Bioetica ne abbiamo raccolte un certo numero, chiedendo al professor Lucio Romano di rispondere.

Il prof. Romano è dirigente ginecologo nel Dipartimento di Scienze Ostetrico Ginecologiche, Urologiche e Medicina della Riproduzione dell’Università di Napoli “Federico II” e docente di Ostetricia al Corso di Laurea Specialistica in Scienze Ostetriche. E’ inoltre docente di Bioetica ai corsi di laurea dell’Università Cattolica del Sacro Cuore presso l’A.O. S. Carlo di Potenza e alla Facoltà di Bioetica e al Master in Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma. E’ vicepresidente del Movimento per la Vita Italiano e componente del Consiglio Esecutivo nazionale dell’Associazione “Scienza & Vita”. Fa parte del Comitato Scientifico della rivista “I Quaderni di Scienza & Vita” ed è autore, insieme a Maria Luisa Di Pietro, Maurizio P. Faggioni e Marina Casini, del volume “Dall’aborto chimico alla contraccezione d’emergenza” (Edizioni ART, Roma 2008).

Le prime due parti dell’articolo sono state pubblicate il 24 maggio e il 31 maggio.

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La vita umana è disponibile?

Analizzando il quesito sotto il profilo giuridico, possiamo dire che il principio di indisponibilità della vita umana è già codificato nel diritto dello Stato. Ricordiamo, ad esempio: art 579 c.p. (omicidio del consenziente), art 580 c.p. (istigazione o aiuto al suicidio), art 5 c.c. (atti di disposizione del proprio corpo). Comunque il principio della indisponibilità del proprio corpo, quindi della propria vita, è ampiamente richiamato in diverse altre leggi e norme. Nella legge che regolamenta la donazione e il trapianto degli organi, è rigoroso l’accertamento di morte né tantomeno è consentita una morte volontaria al fine, per quanto nobile, di donare. Così per quanto attiene la prevenzione dell’infortunistica sul lavoro o la prevenzione degli incidenti stradali, attraverso la messa in essere di procedure ben precise sempre al fine della salvaguardia della vita umana. Ovvero riconoscimento della tutela della vita umana e della sua indisponibilità. Valore laico, possiamo pertanto affermare. Oppure, detto in altri termini, non esiste un diritto alla morte e lo Stato non riconosce alcun diritto di libertà alla morte.

Ma per alcuni pazienti con grave disabilità la vita potrebbe essere percepita come “non degna di essere vissuta”.

Ritengo estremamente pericoloso identificare tout court la vita percepita di “scarsa qualità” come “vita non degna”. Sia per quanto attiene gli aspetti giuridici che etici ed assistenziali. La questione è antropologica. Tutti gli esseri umani hanno pari dignità, che è valore innato (ontologico) e non meramente acquisito. Non è lo stato di benessere o di malattia che condizione il riconoscimento della dignità umana. Dignità, quindi come “condizione di nobiltà morale in cui l’uomo è posto dal suo grado, dalle sue intrinseche qualità, dalla sua stessa natura di uomo, e insieme il rispetto che per tale condizione gli è dovuto e che egli deve a se stesso”. Certo, alcune condizioni patologiche e disabilità comportano una percezione soggettiva ed oggettiva di gravi difficoltà relazionali, comunque di normale vita quotidiana anche per quanto attiene i bisogni più elementari.

Ciò non significa, però, disconoscere l’intrinseca dignità dell’essere uomo che, invece, deve essere riconosciuta e pertanto affermata e tutelata con opportuni e proporzionati interventi assistenziali e di “cura”. Altrimenti si ratificherebbe la cultura della “vita di qualità”, vale a dire ratifica dell’eutanasia attiva ed omissiva per una vita percepita appunto come non degna. Ciò vanificherebbe, ad esempio, la portata culturale, etico ed assistenziale delle cure palliative delle quali necessita una maggiore diffusione e precisa normazione. La dignità designa la preziosità dell’uomo ed esige rispetto assoluto. La società che declina la dignità come mera funzione della qualità percepita, attribuita o meno, mina e trasforma i fondamenti del vivere democratico per il bene comune.

Sull’influenza di una cultura sociale impostata su di una morale indifferente, acutamente osserva Maria Luisa Di Pietro: “[…] è pur sempre la società a stabilire, fissare le condizioni a partire dalle quali la vita umana sia ‘degna’, giustificando come meritevole (o no) di attenzione la percezione che il singolo ha della propria esistenza”. Detto in altri termini, prevarrebbe il volere del più forte (società) sul più debole.

Emblematico è che la stessa Corte costituzionale tedesco-occidentale, nella sentenza del 25 febbraio 1975, pone “il singolo uomo, nella sua dignità, al centro di tutte le sue norme” e afferma che “a fondamento di questa concezione è l’idea che l’uomo nell’ordine della creazione possiede un valore proprio e autonomo che esige costantemente il rispetto incondizionato della vita di ogni singolo, anche della vita di colui che può sembrare socialmente senza valore”. Si evince il nefasto retaggio delle ignominie risalenti alla seconda guerra mondiale, quando vite ritenute non degne subirono le più efferate violenze fino alla scientifica soppressione di massa. Potremmo altresì dire che dignità e diritti fondamentali spesso non si pongono sullo stesso piano.

Significativo quanto riportato nel Dizionario dei Diritti umani: “Dignità e diritti fondamentali della persona non si pongono sullo stesso piano: mentre i secondi possono essere limitati, regolati e (in alcuni casi) anche essere temporaneamente sospesi; la prima rappresenta un valore assoluto che non può essere in alcun caso intaccato. Il valore della dignità umana rappresenta quindi un minimum invulnerabile: una barriera che non si può oltrepassare”.

Tuttavia, nella visione giusnaturalista la dignità innata è fonte di diritti umani, appunto, fondamentali. Per dirla con Kant, “mentre le cose hanno un prezzo, gli uomini hanno una dignità”, quindi ogni essere umano non ha prezzo perché la dignità è valore incommensurabile del l’uomo.

La vicenda Englaro è indicativa di un cambiamento culturale?

Certo. La morte di Eluana Englaro ha significato la negazione del “diritto fonda mentale ed universale” alla vita (art. 3, Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo), così del diritto di “cura” verso i più gravi disabili (art. 25, Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità). Inoltre il vulnus arrecato alla relazione medico-paziente è rilevante. Si tende a ridurre l’azione del medico a mera esecuzione di una volontà, derubricando dall’atto medico il fondamento ineludibile della tutela e protezione del paziente senza alcun ricorso né a qualsiasi forma di eutanasia né di accanimento terapeutico. Emerge altresì il tentativo di contrattualizzare il rapporto medico-paziente, non più “relazione di cura.” Inoltre, dopo la vicenda Englaro, si tende quasi ad attribuire ai tribunali un potere legislativo sul modello del common law, non corrispondente alla tradizione giuridica italiana del civil law. Attraverso l’analisi critica del contesto storico, si evince il passaggio nella società occidentale contemporanea da un’eutanasia “totalitaria” ad un’eutanasia “liberale”, che pone nella “sacralità dell’autonomia decisionale” la ragione principale a favore delle scelte eutanasiche.

Quale prospettiva culturale dovrebbe essere sostenuta?

La prospettiva può essere desunta dal Manifesto “Liberi per vivere”, presentato dall’Associazione Scienza & Vita, dal Forum delle Famiglie, da Retinopera e sottoscritta da una molteplicità di altre associazioni, movimenti e gruppi. Lo scopo è di lanciare un’opera di coscientizzazione culturale. Come richiama il Manifesto, “l’uomo è per la vita. Tutto in noi spinge verso la vita, condizione indispensabile per amare, sperare e godere della libertà. Il dramma della sofferenza e la paura della morte non possono oscurare questa evidenza.

Chi sta male, infatti, chiede soprattutto di non essere lasciato solo, di essere curato e accudito con benevolenza, di essere amato fino alla fine. Anche in situazioni drammatiche, chiedere la morte è sempre l’espressione di un bisogno estremo d’amore; solo uno s guardo parziale può interpretare il disagio dei malati e dei disabili come un rifiuto della vita. Persino nelle condizioni più gravi ciò che la persona trasmette in termini affettivi, simbolici, spirituali ha una straordinaria importanza e tocca le corde più profonde del cuore umano.

Certo, la possibilità di levar la mano contro di sé, di rinunciare intenzionalmente a vivere, c’è sempre stata nella storia dell’umanità; ma in nessun popolo è esistita la pretesa che questa tragica possibilità fosse elevata al rango di diritto, di un ‘diritto di morire’, che il singolo potesse rivendicare come proprio nei confronti della società. La persona umana, del resto, si sviluppa in una fitta rete di relazioni personali che contribuiscono a costruire la sua identità unica e la sua irripetibile biografi a. Troncare tale rete è un’ingiustizia verso
tutti e un danno per tutti. Teorizzare la morte come ‘diritto di libertà’ finisce inevitabilmente per ferire la libertà degli altri e ancor più il senso della comunità umana.

Per chi crede, poi, la vita è un dono di Dio che precede ogni altro suo dono e supera l’esistenza umana; come tale non è disponibile, e va custodito fino alla fine. Esistono malattie inguaribili, ma non esistono malattie incurabili: la condivisione della fragilità restituisce a chi soffre la fiducia e il coraggio a chi si prende cura dei sofferenti. La vera libertà per tutti, credenti e non credenti, è quella di scegliere a favore della vita, perché solo così è possibile costruire il vero bene delle persone e della società.

Per questo sentiamo di dover dire con chiarezza tre grandi sì alla vita, alla medicina palliativa, ad accrescere e umanizzare l’assistenza ai malati e agli anziani, e tre grandi no all’eutanasia, all’accanimento terapeutico, all’abbandono di chi è più fragile. Come cittadini sappiamo che la nostra Costituzione difende i diritti umani non già come principi astratti, ma come il presupposto concreto della nostra vita che è nello stesso tempo fisica e psichica, privata e pubblica. Mai come oggi la civiltà si misura dalla cura che, senza differenze tra persone, viene riservata a quanti sono anziani, malati o non autosufficienti. Occorre in ogni modo evitare di aggiungere pena a pena, ma anche insicurezza ad insicurezza. Chiediamo che le persone più deboli siano efficacemente aiutate a vivere e non a morire per falsa pietà. Solo amando la vita di ciascuno fino alla fine c’è speranza di futuro per tutti.

Eppure si vuole diffondere una cultura a favore del c.d. testamento biologico.

Definiamo che cos’è il testamento biologico. E’ un documento o un modulo mediante il quale si esprime la propria volontà (ora per allora) circa i trattamenti sanitari e circa il morire, per il tempo in cui non si sarà in grado di intendere e di volere. Si evincono rilevanti problemi etici, comunque irrisolvibili da qualunque e possibile legge per quanto equilibrata sia, e che possono sintetizzarsi nelle seguenti criticità insite al testamento biologico e non solo: astrattezza , attualità, vincolatività, ruolo del fiduciario. In particolare: astrattezza de l testamento biologico rispetto alla situazione reale di malattia in cui dovrebbero essere applicato con deficit d’attualità delle dichiarazioni sia per quanto riguarda il quadro clinico che le possibilità diagnostiche e terapeutiche; profilo giuridico del “fiduciario” chiamato ad agire secondo le istruzioni contenute nel testamento biologico e nell’esclusivo interesse della persona incapace; contraddizioni tra testamento biologico, diritto positivo, norme della buona pratica clinica e della deontologia medica; sospensione di alimentazione e idratazione artificiale considerata come semplice sospensione di terapia; carattere vincolante o semplicemente orientativo del testamento biologico per il personale sanitario; testamento biologico come burocratica accelerazione del morire; assolutizzazione dell’autonomia del paziente; riduzione del medico a mero esecutore della volontà anticipatamente espressa dal paziente.

Non possono essere dettagliatamente approfondite le vari criticità richiamate, ma risulta significativo quanto già pubblicato nel 2004 sull’autorevole rivista dell’Hastings Center (“a nonpartisan research institution dedicated to bioethics“) e dal titolo “Enough. The failur e of the living will“: “In pursuit of the dream that patients’ exercise of auto nomy could extend beyond their span of competence, living wills have passed from controversy to conventional wisdom, to widely promoted policy. But the policy h as not produced results, and should be abandoned

Quali prospettive per una legge sulle DAT?

Ci sarebbe molto da dibattere in termini sia di bioetica che di biogiuridica e di biopolitica, per dare una risposta compiuta. Necessita molta attenzione e riflessione per evitare che si creino presupposti legislativi di derive antropologiche, assistenziali, giuridiche, etiche e sociali che introducano, de facto, l’eutanasia omissiva e la frattura della relazione medico-paziente. Il problema è prima di tutto antropologico, ancor prima che scientifico, giuridico e legislativo.

Non necessitano fuorvianti e strumentali demagogie, né integralismi laicisti. Si richiede, piuttosto, una rigorosa laicità che riconosca all’uomo, ad ogni uomo , la sua naturale ed intrinseca dignità. Pertanto obiettivo di una legge, e compito non facile, in merito alle DAT deve essere quello di contemperare il rispetto della libertà della persona con la tutela della dignità di ogni uomo e del val ore dell’inviolabilità della vita, così di ribadire il no all’eutanasia, al suicidio assistito, all’abbandono terapeutico, all’accanimento terapeutico.

In sintesi, quali principi per una tutela della vita umana che sia rispettosa d ella sua intrinseca dignità in un contesto sociale di “indifferenza morale”?

Con estrema sintesi: proporzionalità/ordinarietà dei trattamenti; appropriato giudizio dell’autonomia del paziente; dovere di garanzia da parte del medico; tute la della relazione di cura medico-paziente secondo beneficialità nella fiducia; accompagnamento al morente con le cure palliative.

Vorrei concludere con John Donne: “Nessun uomo è un’isola; nessun uomo sta solo. Ogni uomo è una gioia per me; il dolore di ogni uomo è il mio dolore. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro, perciò io difenderò ogni uomo come mio fratello; ogni uomo come mio amico.”

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ZENIT Staff

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