di padre Angelo del Favero*
ROMA, domenica, 19 aprile 2008 (ZENIT.org).- “La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei giudei, venne Gesù, stette in mezzo a loro e disse: 'Pace a voi!'. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: 'Pace a voi!. Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi'. Detto questo, soffiò e disse loro: 'Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati'” (Gv 20,19-23).
Mentre le donne, di buon mattino, si precipitano al sepolcro timorose di non riuscire ad ungere il corpo del Signore, i discepoli, sopraggiunta ormai la sera, sono ancora rifugiati in casa “per timore dei giudei”.
Ma la precisazione “mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli”, non vuole indicare solamente le loro coordinate esterne.
Dalla sera dell’arresto di Gesù nel Getsemani, la loro stessa coscienza li teneva prigionieri del rimorso e dell’angoscia per la sorte del Maestro che aveva previsto: “mi lascerete solo” (Gv 16,32). Queste porte interiori, dolorosamente opprimenti per un lacerante senso di colpa, avrebbe potuto riaprirle solo Lui: ma Gesù era morto.
I discepoli si trovavano così in una doppia disperazione: dispersi come pecore disilluse per la fine ignominiosa del Pastore (“noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele...” – Lc 24,21), subivano anche il tormento del ricordo di avere pavidamente abbandonato Gesù (“allora tutti lo abbandonarono e fuggirono” – Mc 14,50).
Questo tradimento irreparabile della sua dolce amicizia li faceva sentire responsabili non solo della sua morte, ma anche dell’apparente fallimento della predicazione del Regno di Dio che Egli era venuto ad annunciare: “Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti” (Gv 20,9).
Chi può immaginare lo stato d’animo dei discepoli mentre spuntava l’alba della Risurrezione? Il Cenacolo dove si trovavano era diventato per loro come il Getsemani per Gesù, di cui continuavano a ricordare con struggimento i gesti e le parole, in particolare la parabola del figlio minore che abbandona la casa paterna: “Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio...” (Lc 15,18-19). Sì, amaramente pentiti, ora sapevano di non essere migliori di colui che si era meritato le carrube dei porci.
Ed era ben giusto che, come Gesù fu reso perfetto nell’umanità assunta mediante la sofferenza della Passione, così sperimentassero per primi il bisogno della Misericordia divina coloro che ne sarebbero diventati i ministri dispensatori.
Furono dunque anzitutto gli undici a comprendere che “Il mistero pasquale è il vertice di questa rivelazione ed attuazione della misericordia, che è capace di giustificare l’uomo, di ristabilire la giustizia nel senso di quell’ordine salvifico che Dio dal principio aveva voluto nell’uomo e mediante l’uomo, nel mondo” (Enciclica “Dives in Misericordia”, n. 7).
I discepoli gioirono al vedere all’improvviso il Signore in mezzo a loro, ma se ritrovarono la pace perduta non fu solamente per questo, bensì per il fatto che furono assolti dal gravissimo peccato commesso: il tradimento dell’amicizia del Figlio di Dio (Salmo 55/54, 14-15).
E in realtà essi furono i primi destinatari di quell’Indulgenza plenaria che la Chiesa avrebbe concesso duemila anni dopo, per volontà del Risorto, nella seconda Domenica di Pasqua, Festa della Divina Misericordia.
Il testo del Decreto pubblicato dalla Penitenzeria Apostolica il 29 giugno 2002, sembra in effetti essere stato scritto alla luce di Gv 20,19-23: “Per far sì che i fedeli vivano con intensa pietà questa celebrazione, lo stesso Sommo Pontefice ha stabilito che la predetta Domenica sia arricchita dell’Indulgenza plenaria, come più sotto sarà indicato, affinché i fedeli possano ricevere più largamente il dono della consolazione dello Spirito Santo e così alimentare una crescente carità verso Dio e verso il prossimo, e, ottenuto essi stessi il perdono di Dio, siano a loro volta indotti a perdonare prontamente i fratelli.”
Ma torniamo ancora al Cenacolo e cerchiamo di penetrare più a fondo lo stato d’animo dei discepoli a partire dal rapporto che li legava a Gesù: riconosceremo una sorprendente somiglianza con la situazione morale della mamma che ha abortito. Simile, infatti, appare il profondo e vitale legame di appartenenza reciproca nell’amore: quello tra Gesù e i suoi discepoli e quello di una mamma con il suo bambino.
Un giorno Pietro aveva detto con gioia al Signore: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito” (Mc 10,28)..: per i discepoli una simile firma in bianco fu l’inizio di un’appartenenza singolarissima, unica; un vincolo indissolubile posto alle radici della loro persona, un patto di fedeltà dentro un’avventura meravigliosa: “Chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre” (Mc 3,35). Giorno dopo giorno, mese dopo mese, si era formato nel loro cuore un legame “di sangue”, simile a quello che lega due sposi fra loro e questi ai loro figli, specialmente la madre.
Romano Guardini ci aiuta a comprendere: “Quando Gesù trova uno nel quale vive la volontà di Dio, s’infiamma. La volontà del Padre è per lui, nello spirito, ciò che è il sangue nella vita naturale. Non appena io mi imbatto in uno in cui scorre il sangue della mia stessa famiglia, si desta in me il sentimento che egli mi appartenga. Egli è legato a me da un’unione anteriore a quanto altrimenti mi vincoli ad un uomo. Ora, la volontà di Dio è per Gesù sangue vitale del suo spirito. Se incontra un’anima, nella quale codesta volontà operi, le si sente unito più del legame che, secondo natura, è generato da tutte le parentele di sangue” (Il Signore, p. 140-141).
Abbandonando Gesù al suo destino, i discepoli lo hanno mortalmente tradito, anche se per paura e non per malizia come Giuda.
Schiacciati dal peso del peccato commesso, smarrita ogni fiducia nella vita e psicologicamente distrutti, essi sono perciò tentati di abbandonarsi alla tentazione della disperazione. Anche a loro si applicano queste parole di Gesù a santa Faustina: “Anche se un’anima fosse in decomposizione come un cadavere ed umanamente non ci fosse alcuna possibilità di risurrezione e tutto fosse perduto, non sarebbe così per Dio: un miracolo della Divina Misericordia risusciterà quest’anima in tutta la sua pienezza. Infelici coloro che non approfittano di questo miracolo! Lo invocherete invano quando sarà troppo tardi!” (Diario, Q V, pag. 476). Come non pensare a Giuda?
L’accostamento tra il turbamento dei discepoli e quello della mamma che ha abortito, non sembra essere ingiustificato, se consideriamo non solamente la somiglianza nei due casi di un atto il cui peso morale è lasciare che l’altro muoia, ma anche e soprattutto se si pensa all’essenza stessa della Misericordia divina, nel cui abbraccio paterno e fedele accade ogni nostro tradimento di figli.
La Divina Misericordia, infatti, come rivela Gesù a suor Faustina, è l’equivalente divino delle viscere materne, perciò tutto ciò che accade nel grembo di una mamma, in bene e in male, commuove il cuore di Dio.
Ecco le consolanti parole di Gesù a suor Faustina: “Scrivi: tutto ciò che esiste è racchiuso nelle viscere della mia misericordia più profondamente di un bimbo nel grembo materno. Quanto dolorosamente mi ferisce la diffidenza verso la mia bontà! I peccati di sfiducia sono quelli che mi feriscono nella maniera più dolorosa” (Diario, Q III, p. 374).
Tale doloroso peccato di sfiducia è oggi rappresentato dalla pretesa dell’apostolo Tommaso: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo” (Gv 20,25). Di che cosa sono segno, infatti, i chiodi e il fianco aperto di Cristo se non di quella Misericordia divina di cui è scritto: “Dalle sue piaghe siete stati guariti” (1 Pt 2,24)?
Ma proprio nel giorno di Pasqua, Gesù risorto, accogliendo la richiesta di Tommaso di toccare le sua piaghe, rivela che “la croce è il più profondo chinarsi della Divinità sull’uomo e su ciò che l’uomo – specialmente nei momenti difficili e dolorosi – chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco dell’eterno amore sulle ferite più dolorose dell’esistenza terrena dell’uomo (Enciclica “Dives in Misericordia”, n. 8).
Ha scritto splendidamente il cardinal Martini: “Giona rinfaccia a Dio di essere clemente, longanime e di grande amore, che si lascia impietosire. Dio deve quasi difendersi da questa accusa, perché la sua misericordia è qualcosa di incomprensibile, di viscerale, di avvolgente, di assoluto; è il fondamento stesso della nostra vita e della nostra libertà.
Infatti uno può vivere e amare solo se è accettato così com’è, senza condizioni: è allora che si sente libero.
Dio ci ama in questo modo. L’unica misura del suo amore smisurato è il bisogno della persona amata; il povero, l’infelice, il peccatore, il perduto, sono amati persino più degli altri.
Come una madre che ama il figlio perché è suo figlio, e se è disgraziato lo ama ancora di più sapendo che potrà diventare più buono nella misura in cui è amato.
Dio, che ci è più padre di nostro padre e più madre di nostra madre, che ci ha tessuto nel grembo materno, fa della misericordia la realtà che ci contiene, dall’alto e dal basso, dall’oriente e dall’occidente. Nella sua misericordia noi siamo ciò che siamo e la nostra miseria diventa il recipiente e la misura su cui si riversa la sua misericordia” (in “Dizionario spirituale”, pp. 103-104).
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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.