GERUSALEMME, lunedì, 20 aprile 2008 (ZENIT.org).- Un mese prima della visita di Papa Benedetto XVI in Terra Santa, il Patriarca latino di Gerusalemme, Sua Beatitudine Fouad Twal, offre alla Custodia Francescana di Terra Santa nuove chiavi di lettura di questo pellegrinaggio.
Beatitudine, il pellegrinaggio di Papa Benedetto XVI sopraggiunge in un momento difficile per il paese. E sono stati gli stessi cristiani palestinesi ad esprimere, più di tutti, il loro scetticismo, o meglio, la loro incomprensione per questa scelta. Che cosa potete dir loro?
È vero che la comunità cristiana locale, palestinese, ha espresso e ci ha manifestato il suo disappunto, i suoi interrogativi e i suoi timori. Ed essendo venuti a conoscenza, prima di loro, del progetto di Sua Santità, ci siamo anche noi interrogati sull’opportunità di questo viaggio. Il fatto che il Santo Padre venga in un momento difficile, in una regione difficile, a incontrare un popolo estremamente sensibile, ci ha fatto riflettere. Ci siamo consultati con gli organizzatori, con lo stesso Santo Padre, e, qui a Gerusalemme, con i nostri fratelli vescovi dell’Assemblea degli Ordinari Cattolici di Terra Santa, i quali presentavano le stesse inquietudini della comunità cristiana locale. Ma, in seguito al nostro scambio, avendo constatato che il programma del pellegrinaggio era ben bilanciato, nei suoi momenti dedicati alla Giordania, alla Palestina e a Israele, abbiamo finito per riconoscere che questo viaggio non poteva che essere un bene, una benedizione per tutti.
Le ansie – o direi anche le angosce – che avete menzionato sono, per certi versi, legittime, ma vorrei sottolineare il fatto che sono state, e in molti casi lo sono ancora, vissute in prima persona dagli arabi cristiani che vivono nei Territori e a Gerusalemme. La realtà dei cristiani israeliani e, a fortiori, quella dei cristiani giordani, è totalmente diversa: loro vedono la visita del Papa sotto tutt’altra luce. In una diocesi che vive realtà a tal punto diverse, noi dobbiamo sforzarci di avere una visione più ampia di questa visita, e considerarla in tutte le sue dimensioni: quella politica, quella sociale, quella umana e quella religiosa. Ma è innegabile che questi tre punti permangano: il Santo Padre verrà in un momento difficile – soprattutto dopo la guerra di Gaza -, in una regione difficile, per render visita a una popolazione molto sensibile.
Ebrei, cristiani e musulmani: sono tutti “sensibili”?
Sì, ciascuno ha la propria sensibilità, il proprio punto di vista, e in questo momento tutti si preparano ad accaparrarsi la parte migliore della torta che questa visita rappresenta…
Qual è la motivazione profonda della venuta del Santo Padre in questo momento? Si potrebbe dire che abbia scelto il momento peggiore?
No, no. Dopo la sua elezione pontificale, Papa Benedetto XVI ha sempre manifestato il desiderio di venire in Terra Santa, come pellegrino. La nostra assemblea dei vescovi l’ha invitato, io l’ho personalmente invitato, ed egli ha anche ricevuto l’invito di diverse autorità giordane, israeliane e palestinesi. Inoltre, sono mesi che si sta preparando questo viaggio: nel frattempo è scoppiata la guerra a Gaza, e il termometro del conflitto è di nuovo schizzato. Che fare allora? Aspettare un momento migliore? Ma questa regione non è mai in pace! Attendere che la questione palestinese sia risolta? Ho paura che anche i prossimi due o tre pontefici passeranno, senza che essa sia completamente risolta.
È la solita storia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto… Alcuni dicono: “La situazione è difficile, quindi meglio che non venga”; altri, invece: “La situazione è difficile, quindi speriamo che venga”. Ed è questa la nostra posizione. In questi tempi difficili, io mi auguro che il Santo Padre venga ad aiutarci a superare, a guardare più lontano.
Il Papa renderà visita a tutte le Chiese, a tutte le popolazioni che abitano la Terra Santa, per incoraggiarci a rimanere fedeli alla nostra missione, alla nostra fede e al nostro senso di appartenenza a questa Terra. E non dimentichiamo che viene in pellegrinaggio. Immaginate le conseguenze negative per l’industria dei pellegrinaggi, che per noi è vitale, se il Papa stesso avesse paura di venire come pellegrino! Cosa avremmo detto a tutti quei turisti e pellegrini che avrebbero annullato la loro visita? Come avremmo potuto incoraggiarli ancora a venire?
Un ultimo punto: vi ricordo che il Santo Padre ha 82 anni e che ha manifestato il desiderio di venire come pellegrino in Terra Santa. Un pellegrinaggio sovrapposto a un viaggio apostolico è qualcosa di molto faticoso: oggi il Santo Padre ha la forza per affrontarlo.
Ma i pellegrini e i turisti non devono fare discorsi davanti alle autorità civili…
È vero, ma i cristiani del mondo intero che seguiranno il pellegrinaggio del Pontefice non fanno tutta quest’analisi politica. La maggior parte di loro si limiterà a dire: “Se non ha paura il Papa, perché dovremmo averne noi?”
Al Papa pellegrino, i cristiani locali dicono “Ahlan wa sahlan!”, “Benvenuto!”. Le loro inquietudini risiedono semplicemente nella domanda: “Che cosa dirà?”, o meglio “Che cosa gli si farà dire?”
In effetti, Beatitudine, la stampa israeliana e internazionale interpreta questo viaggio soprattutto come una volontà di riappacificare i rapporti tra la Chiesa e il mondo ebraico, in particolar modo dopo l’affare Williamson. Ciò che inquieta i palestinesi è il profitto che ne può trarre Israele, come Stato…
Lo capisco, e so ciascuna delle parti cercherà di approfittare al massimo di questa visita, tanto in Giordania quanto in Israele, in Palestina, e anche nella Chiesa locale. Ragione in più perché ognuno di noi sia il più possibile preparato.
Israele farà il possibile per presentare il proprio Paese sotto la luce migliore. Lo capisco, è un loro diritto.
Non sta a noi denunciare o criticare ciò che fanno gli altri. A noi sta il compito di fare in modo che la visita sia il più pastorale possibile, e di fare in modo che i nostri cristiani abbiano la possibilità di vedere il Santo Padre, di pregare con lui e di ascoltare il suo messaggio di pace e di giustizia per tutti. Se consideriamo tutti i messaggi che la Santa Sede ha pubblicato in riferimento alla Terra Santa, all’Iraq e al Medio Oriente, ci troviamo di fronte a un capitale immenso di discorsi di sostegno, di interventi ricchi di umanità, di spirito cristiano e di giustizia. Non ho dubbi che, durante la sua visita in Terra Santa, il Santo Padre proseguirà in questa direzione. A noi, Chiesa locale, rimane da vegliare sull’equilibrio del programma: i siti da visitare, le persone da incontrare, i discorsi da pronunciare. Sta a noi “dare una mano al Santo Padre”. Lui è continuamente tenuto informato circa la nostra situazione, nei suoi aspetti positivi così come in quelli negativi. Conosce le nostre paure, le nostre ansie, ma anche le nostre speranze, e la nostra gioia di riceverlo, in stretta collaborazione con tutte le Autorità civili.
Il Nunzio apostolico ha detto che questo viaggio non sarà politico, ma che se ne potrebbe dare una lettura politica…
In questo paese, è impensabile lasciar da parte la dimensione politica. Il Nunzio ha ragione quando insiste nel dire che si tratta prima di tutto di un pellegrinaggio. Ma non lo nascondiamo: c’è anche una dimensione politica evidentissima. Ogni giorno, ogni gesto, ogni incontro e ogni visita, tutto avrà una connotazione politica. Qui si respira politica, il nostro ossigeno è la politica. Quel che è grave, è che tutti fanno della politica, senza lasciare questo compito a chi di dovere: ai politici e al parlamento; ciascuno aggiunge il suo granellino di sale, e questo non aiuta. Non si può negare, dunque, che anche questo pellegrinaggio abbia una portata politica rilevante.
Possiamo allora attenderci dei passi in avanti
, a livello politico? E/o dei passi in avanti nelle relazioni tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele?
La Santa Sede ha sempre fatto il primo passo, ha sempre preso l’iniziativa del dialogo e dell’incontro. E ora, in questo periodo, malgrado gli interrogativi e le paure, il Santo Padre ha il coraggio di fare il primo passo, nella speranza di poter migliorare i rapporti tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele. Nella speranza inoltre, che Israele, in quest’occasione favorevole, faccia almeno un gesto di cortesia per far avanzare il processo di pace.
Quanto a questo famoso accordo, sempre in discussione, per regolare le relazioni tra la Santa Sede e Israele, ci saranno dei progressi, a dar credito agli esperti.
Tutti i comunicati, da 5 anni a questa parte, annunciano dei progressi, ma nulla si conclude…
È vero, ma in questo campo, così come nel campo del processo di pace, le cose avanzano anche se questi sviluppi non vengono sbandierati sulla pubblica piazza. Se fosse necessario, alcuni non esiterebbero a “guastare la cucina” diplomatica, e ci complicherebbero la vita. Per me, in questo periodo ricco di incontri e di dialogo, la parola chiave è “fiducia”. Ma è anche vero che bisognerebbe fare dei gesti coraggiosi, che pongano davvero le basi per un rapporto di fiducia. È innegabile che la fiducia reciproca manchi.
Come già fece Giovanni Paolo II, che definì gli ebrei “i nostri fratelli maggiori nella fede”, Papa Benedetto XVI metterà certamente in risalto il legame naturale dei cristiani con l’ebraismo. Ma, dal momento che qui tutto viene politicizzato, questo rischia di essere interpretato come un appoggio a Israele in quanto Stato. Non si rischia così di mettere i cristiani in difficoltà, qui come in tutto il Medio Oriente?
È difficile trovare il giusto equilibrio, e mantenerlo; detto ciò, più il Vaticano sarà amico d’Israele, più potrà sfruttare questa amicizia per far avanzare la pace e la giustizia. Se le tensioni tra la Chiesa cattolica universale e Israele permangono, ci rimettiamo tutti quanti, cristiani e arabi. Al contrario, se Israele guardasse con fiducia alla Santa Sede, si potrebbe, sulla base di questo rapporto amicale, parlare di verità, di giustizia e di pace. Infatti, soltanto con il linguaggio dell’amicizia si possono pronunciare parole che, per bocca di un nemico, si rifiuterebbero di ascoltare.
Essere amici, e parlare come tali, non può che giovare ad ognuna delle parti: all’amico, a Israele, e a tutti. Spero sinceramente che l’amicizia tra la Santa Sede e Israele sia reciproca.
Vorrei attirare la vostra attenzione sul fatto che la Santa Sede intrattiene già delle relazioni diplomatiche con quasi tutti i paesi arabi, e che tali relazioni sono buone. La lettura dei discorsi degli ambasciatori arabi presso la Santa Sede mostra che essi hanno bisogno della Chiesa: non solo del Vaticano, ma della Chiesa in ogni parte del mondo in cui essa si trova. È necessario avere questa visione globale per comprendere la situazione della Santa Sede, questo piccolo Stato sostenuto da tutto il mondo cattolico, e non limitarsi a vedere le cose solo da un unico punto di vista, che può deformare la visione intera.
Più la Santa Sede è in rapporto di amicizia con Israele, più potrà intervenire in favore di tutti gli abitanti della Terra Santa: ebrei, musulmani e cristiani. È il nostro più grande desiderio.
[Intervista raccolta da Marie-Armelle Beaulieu]