“Crocifisso con Cristo” – Paolo e la Sindone

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ROMA, martedì, 7 aprile 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito una riflessione su san Paolo e la Sindone pubblicata sul decimo numero della rivista “Paulus” (aprile 2009), dedicato al tema “Paolo educatore alla libertà”.

 

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Possediamo nel Lenzuolo sindonico un’impressionante immagine di ciò che Cristo ha subito nel suo corpo per la salvezza del mondo. Ma dalle Lettere paoline sappiamo che anche l’Apostolo è stato associato alle sofferenze del suo Signore. Basti una breve rassegna di citazioni. Ai cristiani di Corinto san Paolo scrive: «Io ritenni di non sapere altro se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione» (1Cor 2,1-3). Agli stessi fedeli: «Ritengo che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte» (1Cor 4,9). E ancora: «…la tribolazione che c’è capitata in Asia ci ha colpito oltre misura, di là delle nostre forze, sì da dubitare anche della vita. Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte» (2Cor 1,8-9). Più oltre: «Siamo tribolati da ogni parte, perseguitati, colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù» (2Cor 4,8-10). «Da quando siamo giunti in Macedonia, la nostra carne non ha avuto sollievo alcuno, ma da ogni parte siamo tribolati» (2Cor 7,5). Di più ancora, nella lunga elencazione delle sofferenze patite in 2Corinzi 11,23-28: «Sono ministri di Cristo [i miei persecutori]? io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte». Infine, l’identificazione con il Crocifisso stesso, scrivendo ai Galati: «Sono stato crocifisso con Cristo» (Gal 2,20).

Corpo fisico e corpo mistico

In modo sorprendente, nella Lettera ai Colossesi, Paolo afferma: «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi, e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). La vocazione stessa di san Paolo comprende, quindi, una parte di tribolazioni, come d’altra parte aveva detto il Signore stesso ad Anania: «Egli è per me uno strumento eletto […] e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9,15-16). Paolo avverte che quel Cristo dal volto sfigurato dalla sofferenza è così perché porta su di sé la sofferenza del mondo. E non può, allora, che fare propria la sua passione in un orientamento di amore e di offerta generosa. La passione di Cristo, applicata alla vita di ciascun credente, d’altra parte, implica che le sofferenze – patrimonio di ogni uomo, credente o no – vengano vissute non come una maledizione da consumarsi nella propria solitudine esistenziale, ma accettate per amore, condivise nella comunione con il proprio Signore. Talvolta addirittura accolte con gioia. Lo conferma anche san Pietro, che invita tutti i cristiani a rallegrarsi quando hanno parte alle sofferenze di Cristo (cfr. 1Pt 3,13). Tutto questo acquista senso e produce fecondità nella prospettiva della risurrezione: «Certa è questa parola: se moriamo con lui, vivremo anche con lui» (2Tm 2,11). La comunione nelle sofferenze è un anticipo della comunione nella vita piena. Così Paolo, tanto nell’esempio della sua testimonianza, quanto nell’elaborazione del suo pensiero (che da questa esperienza nasce e su di essa si fonda), ci dimostra che il cristianesimo è possibile solo nella misura in cui si attinge al mistero della Pasqua. È in questo evento, infatti, che la ragione e la fede possono conoscere Gesù Cristo nella sua interezza divino-umana. Paolo non si attarda a darci il ritratto fisico di Gesù – egli, d’altra parte, non ha conosciuto Cristo “secondo la carne” (2Cor 5,16) – né a redigere una cronaca dei fatti. Gli preme scendere nelle profondità del mistero di un Dio crocifisso, reso “spettacolo” dell’amore agli occhi del mondo e davanti agli angeli (cfr. 1Cor 4,9). Mistero dell’amore che trionfa sulla morte. Mistero di quel corpo crocifisso e risorto, ora vivo e reale nell’umanità redenta, nel corpo mistico che è la Chiesa, corpo che soffre e continuamente risorge. Per mezzo dello Spirito Santo (Rm 1,4; 8,9), egli unisce intimamente a sé i suoi fedeli, generando una creatura nuova (cfr. Gal 6,14-15), un corpo nuovo. Un corpo mistico: con quest’espressione intendiamo l’unione strettissima tra Cristo e i fedeli sul piano “verticale”, di tutti i fedeli tra loro sul piano “orizzontale”. In questo corpo la vita di Cristo si diffonde nei credenti, che attraverso i sacramenti si uniscono in modo reale al Crocifisso risorto. Per questo la Chiesa, nata dal costato di Cristo, è mandata ad annunciare il suo Signore crocifisso. Infatti, «senza effusione del sangue, non c’è remissione di peccato» (Eb 9,22): solo nelle sue piaghe gloriose siamo guariti, redenti, salvati.

La Sindone, duplice specchio

Perché Gesù ci ha lasciato la sua immagine sulla Sindone? Il Crocifisso, lì impresso con orme di sangue, testimonia che «Cristo è lo stesso, ieri, oggi e nei secoli» (Eb 13,8). Sacrificato sulla croce, «Gesù resta per sempre e possiede un sacerdozio che non tramonta mai» (7,24) quale «mediatore di una nuova Alleanza» (8,6) che ci procura «una redenzione eterna» (9,11). Cristo continua quest’oggi il suo ministero di redenzione e la Sindone ne è testimonianza. Lo “spettacolo” che essa ci offre è giudicato dalla sapienza del mondo come superstizione o mistificazione (cfr. 1Cor 1,22-24), ma è salvezza per chi è chiamato a condividere la sua sofferenza in questo Corpo mistico. Colui che soffre è il Cristo, reso perfetto dalla sua esperienza di sofferenza (Eb 5,8-9), dallo stato d’animo con cui l’ha affrontata e accolta: «Egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà». Non è la sofferenza in se stessa a produrre qualcosa di buono né la si può umanamente desiderare; al contrario, la sofferenza è entrata nel mondo a causa del peccato (Sap 2,24). Ma proprio per questo la redenzione dal peccato non può eludere il dramma del dolore: la sofferenza – vissuta dal Figlio di Dio in completa obbedienza, abbandono fiducioso e continua preghiera al proprio Padre – non è più un’assurdità o uno scandalo metafisico, ma un misterioso strumento di grazia e di riscatto. Perciò Giovanni Paolo II, contemplando a Torino questa reliquia benedetta il 24 maggio 1998, poté affermare che «la Sindone è specchio del Vangelo» e allo stesso tempo che in essa «si riflette l’immagine della sofferenza umana».

Cirillo di Gerusalemme così esortava quanti si stavano accostando alla fede cristiana: «Noi dobbiamo impararlo: tutto ciò che il Cristo ha subito, Lui l’ha sopportato per noi e per la nostra salvezza, realmente e non in apparenza; e noi allora diventiamo partecipi delle sue sofferenze» (Catechesi Mistagogiche II, 7). E Paolo, prima di lui: «Se, infatti, siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione» (Rm 6,5). Il corpus paulinum è talmente pervaso e unificato dall’esperienza della morte/risurrezione, che costituisce un’unica fonte vitale con la parola di Cristo per l’oggi della Chiesa. L’immagine sindonica e la narrazione evangelica e paolina ci rimandano all’identica e sobria verità, quasi che l’Apostolo – e con lui ogni cristiano che «perde la vita a causa del Vangelo» (Mc 8,35) – fosse rispecchiato in questo lenzuolo. Lo sguardo credente contempla nella Sindone di Torino la memoria e l’immagine viva del volto crocifisso e glorioso di Cristo. E in essa si riconosce, in essa scorge la sua identità più profonda, a cui lo chiama – da sempre – il suo battesimo.

Nicola Summo

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ZENIT Staff

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