C'è chi all'ONU considera la fertilità fattore di povertà

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di Alessandra Nucci*

ROMA, lunedì, 6 aprile 2009 (ZENIT.org).- La riunione annuale della Commissione ONU su Popolazione e Sviluppo si è svolta, in questo XV anniversario della Conferenza del Cairo, con gli stati del mondo più che mai divisi: da una parte  chi considera la popolazione una benedizione, e ritiene prioritario costruire scuole, ospedali, e lottare contro la povertà; dall’altra chi la popolazione la considera un peso, da alleggerire limitando la fertilità delle donne e rendendo universali i “diritti sessuali e riproduttivi”, ivi compreso l’aborto “sicuro”.

È quanto scrive C-FAM, benemerita associazione che si è assunta da anni il compito di contrastare le strategie messe in atto dalle lobby de-nataliste presso le istituzioni internazionali, i cui effetti a distanza ricadono su tutto il mondo. La divisione è stata netta, riferisce C-FAM, al punto che si è temuto perfino di non riuscire a redigere un documento condiviso.

Alla fine però al blocco de-natalista, capitanato dall’Unione europea e dal Canada, non è riuscito il tentativo di far ridefinire i “diritti riproduttivi” in modo tale da includere l’aborto, nonostante il nuovo presidente americano Obama avesse portato dalla loro parte anche il peso e l’influenza degli Stati Uniti.

Sono prevalse in questo contrasto le forze pro-vita, a cui il vessillo della Santa Sede, che all’ONU ha la qualifica di Osservatore Permanente, ha dato sempre il coraggio di sfidare le grandi potenze nonostante il potere di ricatto insito negli organismi finanziari internazionali.

Interessante notare che la coalizione pro-“scelta” (nessuno alle Nazioni Unite, fa notare C-FAM, usa apertamente la parola “aborto”) ha dichiarato, come sempre, di parlare a nome delle donne, proclamando l’esistenza di loro “unmet needs”, ovvero “bisogni non soddisfatti”, in riferimento alla pianificazione familiare nei paesi meno sviluppati.

“I dati sulla prevalenza contraccettiva – recitava il documento della Divisione delle Nazioni Unite sulla popolazione (UNPD), presentato alla vigilia della convocazione della Commissione – confermano che l’uso di moderni metodi contraccettivi fra le donne nei paesi meno sviluppati rimane bassa, con appena il 24 per cento delle donne… che usano metodi moderni”.

Automatica quindi l’attribuzione del “bisogno insoddisfatto” di pianificazione familiare, inclusivi di contraccezione e aborto, a tutto il restante 76 per cento, contando quindi anche le donne che i figli li vogliono, oppure non hanno un’intensa attività sessuale, non tollerano gli effetti collaterali della contraccezione, o serbano obiezioni di tipo etico e religioso.

Il documento, intitolato “Cosa occorre per accelerare il declino nella fertilità dei paesi meno sviluppati?” parte dall’assunto maltusiano che ci sia una relazione fra prolificità femminile e povertà, nesso che la storia si è incaricata sempre di smentire: basti pensare che nel XX secolo la popolazione mondiale si è quadruplicata, mentre il Pil globale pro-capite è quintuplicato.

E la popolazione, fa notare Lant Princhett, economista di Harvard e poi economista senior alla banca Mondiale, citato da C-FAM, dipende dal desiderio della gente di avere figli, non da programmi statali.

La vicenda dimostra ancora una volta la facilità con cui si attribuiscono strumentalmente alle donne, come categoria, esigenze e desideri che in realtà riflettono la volontà solamente di una parte di esse.

Il meccanismo scatta, talvolta anche in maniera contraddittoria, ogniqualvolta si intavola il discorso dell’uguaglianza. Un esempio recente è l’ingiunzione dell’Unione europea all’Italia di alzare l’età pensionabile delle donne da 60 a 65 anni per uniformarla a quella degli uomini. Si è tentato di dire che anche questo corrisponderebbe a un diritto delle donne, e che la discriminazione sarebbe a danno loro e non degli uomini.

L’assunto naturalmente sarebbe che tutti vogliono lavorare, e fuori casa, il più a lungo possibile.

Lo stesso principio sta alla base della spinta ad uniformare gli orari lavorativi, additando le statistiche che rilevano quante donne lavorano part-time come prova di una evidente discriminazione a loro danno, anziché una conquista sindacale fortemente voluta dalle donne stesse per tutelare la maternità e la famiglia. </p>

Il disancoramento delle rivendicazioni politiche dai desideri reali delle donne si riscontra ogni volta che si tasta il polso dell’uguaglianza uomo/donna senza considerare il fattore maternità/famiglia, oppure considerando tale fattore solo come un peso da spartirsi e mai come una legittima aspirazione.

Viceversa, secondo molti studi la minore retribuzione o il “soffitto di vetro” che frena la carriera delle donne riflettono quasi sempre le scelte diverse effettuate da una maggioranza di donne, che preferiscono dedicare più tempo alla famiglia oppure scelgono un lavoro congeniale, anche a scapito dello stipendio.

Interpretare queste scelte come frutto di condizionamenti di cui le donne stesse – anche se colte – non sarebbero consapevoli, e da cui avrebbero massimamente bisogno di essere salvate (“coscientizzate”), si risolve in un atteggiamento di chiaro stampo paternalistico, anche quando ad assumerlo fossero altre donne.

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*Alessandra Nucci, già docente e giornalista, è direttrice del periodico cattolico “Una Voce Grida” e autrice del libro “La donna ad una dimensione. Femminismo antagonista ed egemonia culturale”, che ha vinto Il fiorino d’oro per la saggistica Premio Firenze nel 2007.

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ZENIT Staff

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