ROMA, domenica, 5 aprile 2009 (ZENIT.org).- L’eugenetica, nella storia recente, ha assunto il volto di Hitler e dei campi di sterminio, ed è dunque normale che qualsiasi medico non tolleri che un suo atto sia descritto come eugenetico. Ma tant’è: dal momento in cui io stabilisco a priori delle caratteristiche indesiderabili ed opero in modo da eliminare i portatori di queste caratteristiche o fare in modo che i portatori (eventualmente sani) non abbiano figli, sto compiendo un atto in perfetta linea con la definizione galtoniana di eugenetica.
Personalità di spicco come il dott. Carlo Bellieni hanno parlato di handifobia, neologismo che indica la paura dell’handicap(pato), di ciò che non può essere controllato, dominato, calcolato. Padre John Flynn, LC, ha parlato di “screening estetico” per indicare la (maniacale) ricerca della perfezione del nascituro eliminando chi perfetto non è. La strada che troppo spesso viene intrapresa, dunque, è quella della selezione eugenetica piuttosto che quella, più faticosa ma anche più arricchente, della ricerca delle cause (e possibilmente di cure) per determinate patologie.
Le considerazioni da fare sono almeno tre: una sulla effettiva validità di un “elenco” di caratteristiche (in)desiderabili, una seconda sull’eliminazione dei “non-adatti”, una terza sul numero degli aborti.
Un atlante di patologia medica?
I problemi che si pongono nello stilare un simile elenco sono almeno due: chi lo può/deve fare e quale sia la sua eventuale validità. Chi è in grado di stilare un ipotetico elenco di caratteristiche (in)desiderabili? Se è la scienza si rischia di cadere nel quadro scientista che abbiamo definito poco sopra. Ma anche quando non fosse questo il caso: è lecito chiedere alla medicina di accollarsi questo tipo di responsabilità? Potremmo, allora, ipotizzare che sia la società a definire delle “linee guida” di una corretta “qualità di vita”, e concretamente gli organi di governo di uno Stato o quelli sovrannazionali. Al di là di ogni tipo di sopruso (governi totalitari oppure la “tirannide della democrazia”, per cui comanda a tutti gli effetti chi ha almeno un voto in più degli altri), non si rischia di cadere in una mentalità di “Stato etico” per cui a decidere il bene o il male è un Parlamento?
Quale, poi, la possibile validità nel tempo di un siffatto elenco? Patologie che cent’anni fa erano altamente mortali oggi sono totalmente debellate o quantomeno sono curabili o gestibili. Dobbiamo dunque prevedere una revisione costante di questo elenco: ma a che ritmi? Ma vi è un’ulteriore obiezione, molto più radicale: stabilito, ad esempio, che la spina bifida sia una patologia sufficientemente invalidante da giustificare un eventuale ricorso all’aborto, chi mai finanzierà nuove ricerche per sconfiggere questa malattia?
L’eliminazione dei non-adatti
Arriviamo, dunque, al nocciolo delle nostre considerazioni. Vi sono, in questo momento storico, pressioni notevoli affinché i “non-adatti” (cioè i portatori di caratteristiche non desiderabili) siano eliminati. Come abbiamo notato è un errore innanzitutto epistemologico: si fa cioè coincidere il malato con la malattia e per debellare questa si elimina quello. E questo è il primo fattore di pressione. Vi sono poi fattori di tipo economico (o meglio, di allocazione delle risorse sanitarie): il costo di un aborto è certamente minore rispetto all’assistenza (a volte realmente complessa) di un bambino con determinate patologie. Ma anche fattori “sociali”: il nucleo famigliare si è estremamente modificato nel corso degli ultimi decenni. L’esito (sancito anche dalla Legge 194/78: il padre non è necessariamente coinvolto nella scelta abortiva) è che la famiglia (o, peggio, la donna) si trova da sola a dover portare il peso di una gravidanza problematica. È evidentemente molto più pesante l’ipotesi di doversi sobbarcare totalmente il peso di un bambino Down piuttosto che non il poter condividere questa responsabilità con amici e parenti in maniera fattiva.
Questi (ed altri) fattori sono evidentemente estrinseci rispetto alla decisione della donna di ricorrere all’aborto, ma non per questo sono ininfluenti. Anzi: è evidente che la volontà della madre verrà condizionata già a partire dal modo con cui il medico prospetterà la diagnosi (ricordiamolo: a volte può anche essere sbagliata…) alla madre. Se a questo si aggiungono i fattori che abbiamo descritto poco sopra, ci si può lecitamente interrogare sulla veridicità del consenso che la madre fornisce all’atto abortivo.
Dati e considerazioni finali
Fonti ufficiali come l’Organizzazione Mondiale della Sanità parlano di circa 40 milioni di aborti all’anno, mentre altre fonti arrivano ad ipotizzarne 60 o 80 milioni. In Italia dal maggio 1978 al 2005 (ultimi dati ufficiali) ci sono stati 4.623.886 aborti, una media di più di 171.000 all’anno. Se è vero che, in termini assoluti, il numero di aborti è diminuito (il “picco” degli anni 1982 e 1983 di 235.000 aborti all’anno è sceso fino a 135.000), è altrettanto vero che, contestualmente, sono diminuite le nascite. Prendendo in mano gli annuari ISTAT e facendo un po’ di calcoli si nota come il rapporto tra aborti e nascite sia grossomodo costante, attestandosi a circa un aborto ogni 4 nati.
Se ci si spinge un po’ oltre, si possono fare alcune considerazioni di carattere sociale. Innanzitutto: la legge 194/78 è in vigore da quasi trent’anni. Sebbene l’età media del primo figlio si sia innalzata parecchio in questo periodo, è lecito ritenere che di questi quattro milioni e mezzo di non-nati una parte oggi sarebbero mamme e papà. Siamo, se mi si passa l’espressione, alla seconda generazione di non-nati. E allora nasce spontanea la domanda: quale sarebbe il volto dell’Italia con 65 milioni di abitanti invece che i 60 attuali? I “catastrofisti” rispondano pure che ci sarebbero ancora meno posti di lavoro, che si starebbe ancora più stretti, che le spese sanitarie sarebbero alle stelle e così via. Chi la pensa così ritiene che un essere umano, una persona, non sia una ricchezza ma un costo, non sia un bene ma un male, non sia un sollievo ma un peso. Io ritengo che cinque milioni di esseri umani un più, oltre ad essere una ricchezza insostituibile di per sé, siano un ottimo volano per molti comparti della vita pubblica.
La scuola, ad esempio, forse non dovrebbe più fronteggiare il problema dell’esubero degli insegnanti, perché ci sarebbero mediamente 170 mila alunni all’anno in più. Il mondo del lavoro, poi, potrebbe avere un altro beneficio sia dall’arrivo di nuove forze (ricordiamo che il sistema previdenziale italiano si basa sui contributi pagati dal lavoratore attivo…) sia, più banalmente, dalla presenza di nuovi consumatori. Certo, non sarebbero solo rose e fiori: ma questo è il rischio che l’umanità (anzi, ogni genitore) ha corso dal suo inizio, da quando ha iniziato il suo cammino nella storia e che sempre continuerà a correre finchè deciderà di mettere al mondo un figlio. In questo la posizione cristiana si rivela, ancora una volta, la più realista. Il fatto che ogni figlio (sia esso sano piuttosto che malato) sia considerato come dono di Dio ricorda al genitore che quel figlio non è suo: non può disporne come meglio crede anche se, nei fatti, ciò è “tecnicamente” possibile.
Questa indisponibilità radicale, che fa da contraltare alla assoluta debolezza del bambino, è la radice della responsabilità dell’essere genitore: non vi possono essere caratteristiche fisiche e/o psichiche che spostino di un solo millimetro questo stato di cose stabilito dalla natura o, più semplicemente, da Dio.
———–
*Leonardo M. Macrobio insegna alla Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum
[La prima parte dell’art
icolo è stata pubblicata il 29 marzo]