Caritas Christi urget nos

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ROMA, lunedì, 15 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervista a mons. Giuseppe Merisi, Presidente di Caritas Italiana, apparsa sul sesto numero di “Paulus” (dicembre 2008), dedicato a “Paolo come esempio di carità pastorale”.

 

 

 

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di Paolo Pegoraro

 

L’amore non ha le mani pulite: lo ricordava spesso don Luigi Di Liegro, primo direttore della Caritas di Roma, nel 1979. La Caritas era nata otto anni prima per volere di papa Paolo VI, come frutto consapevole del Concilio Vaticano II che desiderava condividere «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini del nostro tempo, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono» (GS 1). Quale organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana, tuttava, la Caritas non è una semplice associazione di volontariato né una riduzione sociologica del più ampio dramma dell’uomo sempre bisognoso se lontano da Cristo. Il primo articolo dello Statuto la definisce infatti «testimonianza della carità nella comunità ecclesiale italiana, in forme consone ai tempi e ai bisogni, in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace». Le sue funzioni sono prevalentemente pedagogiche e pastorali: sensibilizza alla carità e alla solidarietà, coordina iniziative e servizi d’ispirazione cristiana, educa e promuove la formazione degli operatori sociali. Come? Con i Centri d’ascolto, con gli Osservatori povertà e risorse, il Laboratorio per la promozione, le analisi sull’immigrazione, la promozione di politiche sociali che non escludano alcuno, proposte formative specifiche per il servizio civile, l’organizzazione e il coordinamento di interventi d’emergenza in Italia e all’estero… e soprattutto i tanti Centri parrocchiali. Alla presidenza della Caritas Italiana c’è monsignor Giuseppe Merisi, formatosi nella diocesi di Milano, che di pastoralità ha un’esperienza ampia.

Eccellenza, in concomitanza con l’Anno Paolino la sua diocesi – Lodi – celebra i 1600 anni dalla morte del suo primo vescovo, san Bassiano. Cosa accomuna questi due pastori della Chiesa?

«Effettivamente la nostra diocesi di Lodi celebra quest’anno il XVI centenario della morte del primo vescovo di Lodi, san Bassiano, morto nel 409 nell’attuale “Lodi Vecchio” dove la sua memoria è custodita nell’antichissima Basilica dei XII Apostoli. La diocesi distingue la memoria di san Bassiano anche con un’assai proficua “Peregrinatio Sancti Bassiani”, che raggiungerà quasi tutte le parrocchie della diocesi. San Paolo e san Bassiano hanno in comune, oltre alla coerenza della testimonianza della fede, anche l’impegno per la diffusione del vangelo: san Paolo a partire da piccole comunità da lui fondate, san Bassiano nel contesto di più estese comunità, che però non raggiungevano la totalità del territorio per la presenza di ampie zone non ancora evangelizzate, come del resto avveniva nella vicina diocesi di sant’Ambrogio».

«Se non ho la carità… sono un cembalo che tintinna… non sono nulla… niente mi giova» (1Cor 13,1-3). Qual è stato il contributo di san Paolo alla formazione della dottrina sociale della Chiesa?

«Credo, tutti crediamo, che il primo fondamentale contributo di san Paolo e del “corpus” paolino sia racchiuso proprio nel vangelo dell’amore, di cui il capitolo 13 della Prima lettera ai Corinti rappresenta un’esemplare testimonianza. Dire che l’amore rappresenta la via “più sublime” (1Cor 12,31) significa sottoporre tutte le nostre azioni, tutti i nostri sentimenti, al vaglio severo dell’amore e della gratuità, a partire dal dono di Grazia che ci fa capaci di amare. Non si può parlare di relazione con gli altri, di famiglia, di amicizia, di vita sociale, di Bene comune, di poveri, se non a partire dalla voglia di dedizione e di solidarietà, che per noi può nascere solo dall’amore per il bene vero delle persone con cui viviamo.

Anche gli altri princìpi della Dottrina sociale della Chiesa come la promozione del Bene comune, la difesa della vita e della dignità di ogni persona, la solidarietà, la sussidiarietà, nascono e trovano fondamento nell’amore e nella dedizione gratuita. Per la verità nelle lettere di san Paolo troviamo anche altri riferimenti ai princìpi che oggi noi chiamiamo della Dottrina sociale della Chiesa, come ad esempio nelle parole dell’Apostolo sul tema dell’uguaglianza, del rispetto per gli altri, della colletta per i poveri, del rispetto per l’autorità civile, ovviamente in rapporto a quella che oggi diremmo la sua legittimità. Interessante anche sul tema dei diritti e dei doveri il suo appello alla cittadinanza. Tutto sta se si coglie il riferimento essenziale e costitutivo all’Amore e alla Pasqua di Gesù».

Paolo ci ricorda che la gratitudine per i beni spirituali ricevuti si concretizza in un andare incontro alle necessità materiali dei fratelli nel bisogno (Rm 15,25-27). Di quale solidarietà sono chiamati a dare testimonianza i cristiani?

«Come si diceva, non si può parlare di amore, di grazia, di vita secondo lo Spirito, se non si collega la riflessione e la preghiera con l’impegno fattivo a favore degli altri, che dice attenzione nei confronti di tutti e amore preferenziale per i poveri, nel caso per i poveri di Gerusalemme. L’insegnamento è valido anche per noi, oggi, in un contesto in cui non è sempre facile il discernimento che aiuti a definire la povertà e l’ultimità, le nuove povertà e le antiche povertà. Di sicuro però possiamo dire anche noi che, se i poveri li abbiamo sempre con noi, in noi avremo sempre l’urgenza di verificare la consistenza della vita spirituale in rapporto all’amore per il Signore e per i fratelli».

La recente Giornata mondiale di lotta alla povertà, intitolata Ripartire dai poveri, ha voluto rispondere all’interrogativo posto nella Giornata 2007: Rassegnarsi alla povertà? Quali le conclusioni?

«Non ci si può mai rassegnare alla povertà, cioè alla presenza accanto a noi di gente che soffre per molti motivi, compreso quello della mancanza di beni materiali e di sussistenza, come anche di beni immateriali pur necessari per vivere una vita buona. Non si tratta di immaginare scenari irrealizzabili come quello della perfetta uguaglianza, ma di educare la gente nelle comunità cristiane e distintamente nella società civile, perché tutti sentano la responsabilità dell’impegno di solidarietà nei confronti di chi soffre, “scendendo da cavallo”, e se del caso, creando condizioni anche di carattere sociale in cui tutta la comunità si senta chiamata a lottare contro la povertà, promuovendo migliori condizioni di vita per tutti. Senza rinunciare mai alla condizione di libertà civile in cui la nostra società fortunatamente si trova».

Oggi, in piena crisi economica, tornano attuali le parole «ho imparato a essere povero e ho imparato a essere ricco» (Fil 4,12). Paolo è anche un modello di libertà nei confronti del denaro?

«Paolo testimonia la sua disponibilità a vivere in ogni condizione sociale, nella povertà come nell’abbondanza, ricordando che ciò gli è possibile per il dono di grazia che ha ricevuto. Credo che l’insegnamento che la testimonianza paolina fa arrivare fino a noi riguardi proprio il primato di ciò che viene dall’Alto, che ci aiuta ad abbassarci verso coloro che soffrono e hanno bisogno di amicizia, di beni materiali, di giustizia, di condivisione e di solidarietà. È solo l’amore che ci può fare capaci di considerare la nostra condizione personale come secondaria rispetto al bene degli altri, per cercare di aiutare il nostro prossimo in tutte le maniere consentite dalla nostra vocazione, senza dimenticare mai la necessità di conoscere e studiare l’eff
ettiva condizione in cui vive la gente del nostro tempo».

Nel messaggio per la 95a Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, papa Benedetto ha meditato su san Paolo «migrante per vocazione». Le migrazioni sono il fenomeno planetario più consistente del nostro secolo: come si pone la Caritas?

«Credo che molto opportunamente il papa c’inviti a riflettere su san Paolo, sulla sua peregrinazione in tante parti del mondo allora conosciuto per l’annuncio del vangelo, perché “conquistato” da Cristo. Effettivamente le migrazioni moderne hanno varia origine, per elezione o per costrizione; dobbiamo offrire a tutti aiuto e condivisione, sapendo per altro che le migrazioni rappresentano un problema sociale di non facile soluzione. Io credo che il tema della migrazione moderna vada rapportato, e si sarebbe dovuto farlo in passato specie dopo il 1989, con il tema della globalizzazione che – come tutti sappiamo – andrebbe governata con maggiore impegno in un mondo in cui pure la solidarietà andrebbe globalizzata. La Caritas, come ogni altra agenzia che voglia raccordare carità e formazione, non può che chiedere riflessione e studio competente, progettualità che riguardi almeno tutta l’Europa con le sue Istituzioni, in dialogo con i Paesi del Mediterraneo e quelli del Mondo Orientale. E indicazioni operative che raccordino politica, società civile, accoglienza e legalità. La Caritas con le altre realtà ecclesiali e di volontariato si mette volentieri a disposizione per aiutare la positiva soluzione dell’ordinarietà e dell’emergenza, sempre in spirito di dialogo, con tutti e con tutte le buone ragioni, nella naturale distinzione di ruoli e di competenze rispetto alle Istituzioni degli Stati, dell’Europa, delle Nazioni Unite».

Lei è anche delegato Cei presso la Commissione degli Episcopati della Comunità Europea. Da dove vengono le perplessità espresse sul Patto europeo per l’immigrazione e il diritto?

«Direi, innanzitutto, che occorre mettersi nel cammino dell’Europa, come in quello dell’Italia, con gli atteggiamenti evocati dal cardinale Bagnasco nella prolusione del recente Consiglio permanente della Cei, con gli atteggiamenti cioè del realismo e della speranza. La gente, in Italia come in Europa, vive i sentimenti un po’ contraddittori dell’accoglienza e dell’insicurezza, ed è comprensibile che le Istituzioni pubbliche se ne facciano carico. Tocca a noi operare e testimoniare perché la solidarietà aiuti a vincere la paura, nel realismo di chi vive in questo mondo e in questo mondo opera perché il cammino della gente vada verso il bene e il bene di tutti. I vescovi europei hanno manifestato perplessità dentro un contesto di dialogo che la stessa Commissione europea aveva proposto e promosso nel cosiddetto “Piano D” (dialogo – dibattito – democrazia). Del resto, la Chiesa, e in essa la Caritas con le altre Aggregazioni di solidarietà, non può non rappresentare quell’istanza di “advocacy” di cui la conoscenza delle situazioni la rende capace».

Come Presidente della commissione CEI per la pastorale della salute e della carità, che spunti le offre san Paolo in relazione al mistero della sofferenza umana?

«San Paolo ci aiuta a capire il mistero della sofferenza umana innanzitutto con la sua personale testimonianza di uomo e di apostolo, che ha sperimentato tutte le sofferenze fino al martirio di Roma. Ha conosciuto l’abbandono e l’isolamento, la contestazione, il dissenso, come anche la persecuzione e la condanna, le battiture e le flagellazioni, il successo e l’insuccesso. E tutto nel contesto di una vita segnata dalla risposta alla chiamata del Signore e dalla fedeltà alla sua Parola, sapendo che l’annuncio del vangelo rappresenta l’obiettivo massimo di una vita umana spesa bene proprio perché fedele e coerente. Anche il messaggio della Cei per la prossima Giornata nazionale della Vita pone l’accento sul mistero della sofferenza da accogliere e da offrire per il bene vero dell’intera umanità».

La Chiesa gestisce, solo per fare un esempio, oltre 60.000 asili per 5,8 milioni di bambini e 90.000 scuole elementari per 28 milioni di alunni. L’elenco delle opere di carità che coordina è sterminato. Esiste al mondo qualche altra istituzione che si prodiga altrettanto per gli ultimi?

«Non so se esistono altre Istituzioni che si prodigano altrettanto per gli altri. Mi auguro di sì. Certo le scuole cattoliche, come gli ospedali cattolici, come i centri di ascolto della Caritas, come i centri culturali di ispirazione cristiana, come le stesse comunità parrocchiali e tutte le istituzioni assistenziali che sono nate dalla carità cristiana, dicono che il messaggio evangelico, oggi come in passato, viene accolto e testimoniato nei confronti di tutti coloro che hanno bisogno di accoglienza, di solidarietà, di verità. Noi ci auguriamo che anche dalle altre Realtà religiose e culturali possano emergere, come di fatto emergono, opere capaci di promuovere il Bene comune, che non può non partire dall’attenzione nei confronti dei poveri, degli ultimi e degli emarginati».

 

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ZENIT Staff

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