Una psicologia per l’ammissione dei seminaristi solo come integrazione

di monsignor Gino Oliosi*

ROMA, mercoledì, 10 dicembre 2008 (ZENIT.org).- La Congregazione per l’Educazione Cattolica ha presentato il 30 ottobre 2008 gli “Orientamenti per l’utilizzo delle competenze psicologiche nell’ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio”.

Più volte il Magistero post – conciliare ha accennato sull’opportunità, ma solo opportunità, di fare uso, in occasioni particolari, delle competenze psicologiche nel discernimento dell’autenticità della vocazione sacerdotale, prima dell’eventuale ordinazione.

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Nel presentarlo il prefetto della Congregazione card. Zenon Grocholewski ha precisato che “il documento non intende risolvere questioni teoriche che riguardano i rapporti tra psicologia, teologia e spiritualità, e nemmeno addentrarsi nel campo delle diverse scuole psicologiche, ma si limita ad offrire un contributo di ordine pratico”

Ha anche precisato che “il ricorso agli esperti nelle scienze psicologiche non può che essere soltanto ausiliare”, ossia utile solo “in alcuni casi” per dare il parere circa la diagnosi, o circa l’eventuale terapia, o il sostegno psicologico allo sviluppo delle qualità umane richieste dall’esercizio del ministero (n. 5). In altre parole, si deve ricorrere a loro solo “nei casi eccezionali che presentano particolari difficoltà” (n. 5).

In ogni modo, risulta chiaro l’utilizzo delle competenze psicologiche non deve essere una pratica obbligatoria né ordinaria nell’ammissione o nella formazione dei candidati al sacerdozio. In questo senso, il suo ruolo è di integrazione, non di sostituzione, sia nel discernimento iniziale, sia nella formazione successiva di un ethos, di un vissuto conseguente ad un dono. La vocazione sacerdotale è innanzitutto un dono soprannaturale per la chiamata, attraverso il celibato, ad “una tenera fraternità sacramentale” (Presbiterorum ordinis, n. 8) del sacramento dell’ordine, da cui consegue tutta la fecondità di carità pastorale.

Altra direttiva importante è che “L’ausilio delle scienze psicologiche deve integrarsi nel quadro della globale formazione del candidato, così da non ostacolare, ma da assicurare in modo particolare la salvaguardia del valore irrinunciabile dell’accompagnamento spirituale, il cui compito è di mantenere orientato il candidato alla verità del ministero ordinato, secondo la visione della Chiesa” (n. 6 d). Di conseguenza tali esperti “non possono far parte dell’équipe dei formatori” (n. 6).

Il documento, con tutte le precise direttive per mantenerlo “soltanto ausiliare”, ossia utile solo “in alcuni casi”, non fondamento del discernimento della vocazione ma descrizione della modalità con cui rispondere, può costituire un apporto nella descrizione dei problemi psichici dell’anima umana di un candidato in fase di maturazione. Ma quello che non si può disattendere, per avere degli esperti adeguati, è come coniugare tra loro psicologia, filosofia, teologia e spiritualità, nel pieno rispetto dei loro metodi propri, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme cioè una antropologia adeguata.

E questa unità è un compito, una urgenza che sta davanti a noi, anzi un’avventura affascinante nella quale merita spendersi ma non è un dato sufficientemente raggiunto, come il documento riconosce affermando di non intendere risolvere il problema dei rapporti tra psicologia, teologia e spiritualità. In gran parte l’attuale impostazione delle scienze psicologiche si muove nella pretesa di abbracciare con le loro conoscenze tutta la realtà della psiche umana.

E qui entra la tentazione di lasciare l’ultima parola, per il discernimento, non al confronto con il Direttore spirituale ma a psicologi e psicanalisti. E rimane ancora aperto il problema di come allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprendola alla grandi questioni del vero e del bello perché l’uomo non sia considerato un semplice prodotto della natura, come tale non realmente libero e di per sé suscettibile di essere trattato solo psicologicamente, capovolgendo la centralità di ogni io nel proprio e altrui essere dono del Donatore divino e quindi della sua libertà anche da condizionamenti psicologici.

Ecco perché [come affermato dall’allora Card. Ratzinger al Sinodo del 1990] il c. 220 del CIC afferma “Non è lecito ad alcuno… violare il diritto che ogni persona ha di difendere la propria intimità”, non solo intellettiva, volitiva ma anche psicologica. E come gli orientamenti richiamano, a nessuno, neppure ai superiori diocesani o religiosi, è lecito entrare nell’intimità psicologica o morale d’una persona, senza averne avuto il previo, esplicito, informato e soprattutto assolutamente libero consenso

Ecco perché vengono considerate illecite tutte le pratiche psicologico-proiettive e d’altro tipo, usate con i candidati alla vita sacerdotale e religiosa in occasione dell’ammissione e della permanenza in seminari e noviziati, se manca il previo e libero consenso dell’interessato, che non può essere estorto in alcun modo.

Altra attenzione, in conseguenza del can. 220, riguarda il mantenimento del segreto, al quale sono tenuti lo psicologo o lo psicanalista, dopo aver esplorato, con il consenso dell’interessato, l’intimità psicologica o morale di una persona. In questo senso va considerata illecita l’esibizione o la conservazione di schede e schedari riguardanti l’intimità d’una persona, perché ciascuno deve restare il solo depositario dei segreti della propria intimità, di cui deve poter decidere sempre liberamente.

Eventualmente l’esaminatore, con il consenso dell’esaminando, può conservare per il periodo dell’esame o della cura annotazioni redatte in forma che, se casualmente dovessero pervenire in mano d’una terza persona, questa non potrebbe risalire all’esaminato. Tutto questo perché nell’antropologia cristiana adeguata ogni io è persona unica e irripetibile nel proprio essere dono del Donatore divino, unitariamente in relazione con Dio, con se stessa, con gli altri.

Aiuto della psicologia

In rapporto al dono soprannaturale, cui ci si sente chiamati da Cristo, per una “tenera fraternità sacramentale” il compito della psicologia è in rapporto all’ethos o responsabilità di una possibile risposta per un vissuto fraterno cioè un’attenzione ai sentimenti e motivazioni, di cuore – mente – volontà, dei sensi interni ed esterni, di affettività e sessualità perché il futuro presbitero, “innamorato dell’Eterno (del Dio dal volto umano attraverso questa tenera fraternità sacramentale), è proteso all’autentica e integrale valorizzazione dell’uomo e a vivere sempre la ricchezza della propria affettività nel dono di sé…” (2d).

Qui può esserci l’ambito in cui può avvenire anche un utile, anche se non necessario, intervento psicologico. A livello di vissuto come può innamorarsi di Dio dal volto umano attraverso una “tenera fraternità sacramentale”, di un amore pastorale gratuito, un cuore che non è disponibile a leggersi e a scrutarsi, a lasciarsi amare e amare senza paura, o scoprire in sé quei raggiri e inganni che coprono spesso il non amore?

Il documento parla di “quel mirabile e impegnativo intreccio delle dinamiche umane e spirituali nella vocazione”; e aggiunge che “è dovere della Chiesa fornire ai candidati un’efficace integrazione delle dimensioni umane e morali, alla luce della dimensione spirituale” (2f).

Ma cosa si intende per dimensione spirituale? Solo la constatazione conoscitiva di quello che uno è nella propria modalità psicologica o quello che può divenire attraverso una totale apertura all’incontro con la Persona di Gesù Cristo risorto nell’Eucaristia, nella Penitenza, in vissuti fraterni di comunione ecclesiale autorevolmente guidata cioè con il tocco sacramentale della Persona di Cristo Risorto che ricrea anche ciò che non è psicologicamente perfetto?

Intervento dello psicologo

L’intervento dello psicologo è possibile “nei casi eccezionali che presentano particolari difficoltà… sia prima dell’ammissione al seminario sia durante il cammino formativo” (5f), con finalità diagnostico-terapeutiche. Questa è l’indicazione normativa che sembra mutare nel contesto e nel seguito.

Finalità ultima dell’intervento dello psicologo, infatti, è considerato non solo nell’indicare l’esigenza di superare eventuali ferite
psicologiche del soggetto ma “la sempre più stabile e profonda interiorizzazione dello stile di vita del Buon Pastore” (5f) , o – nella fase del discernimento iniziale – la possibilità di “delineare un cammino formativo personalizzato secondo le specifiche esigenze del candidato” (8e), mentre – in quella successiva – l’aiuto dello psicologo può “sostenere il candidato verso un più sicuro possesso delle virtù umane e morali; può fornire al candidato una più profonda conoscenza della propria personalità e può contribuire a superare, o a rendere meno rigide, le resistenze psichiche alle proposte formative” (9°).

Ora queste specificazioni rischiano di fatto di divenire un obiettivo normale di ogni cammino di ciascun candidato al sacerdozio e quindi di vedere la psicologia oltre i “casi eccezionali che presentano particolari difficoltà”, oltre una finalità esclusivamente diagnostica (= per discernere i casi dubbi) o terapeutica (= per guarire le patologie) ma di acquisire un senso pure pedagogico-formativo solo a livello conoscitivo, senza il taglio sacramentale dell’incontro con Cristo. Quindi il testo rischia di proporre, almeno in prospettiva, un’interpretazione non solo eccezionale, utile ma non necessaria, contrariamente a quanto affermato all’inizio.

Esperto psicologo e preparazione dei formatori

Il testo afferma chiaramente, nella linea tradizionale, che l’esperto psicologo cui ricorrere in alcuni casi non faccia parte dell’équipe dei formatori (6°). Però, poi, raccomanda che “ogni formatore abbia la sensibilità e la preparazione psicologica adeguate per essere in grado, per quanto possibile, di percepire le reali motivazioni del candidato, di discernere gli ostacoli nell’integrazione tra maturità umana e cristiana e le eventuali psicopatologie. Egli deve ponderare accuratamente con molta prudenza la storia del candidato” (4b).

E qui è facile ricondurre la competenza psicologica all’interno del gruppo dei formatori, come addirittura modo normale d’esercitare il ruolo del formatore, per cogliere non solo la modalità psicologica ma il contenuto delle reali motivazioni del giovane (sovente inconsce), scoprire ciò che ne ostacola il processo d’integrazione personale, e persino le psicopatologie. Difatti – continua il testo – “ogni formatore va preparato, anche con adeguati corsi specifici, alla più profonda comprensione della persona umana e delle esigenze della sua formazione”, anche “con esperti in scienze psicologiche” (4c).

Anche qui se non si allargano gli spazi della nostra razionalità per riaprirla alle grandi questioni nella ricerca del vero, del bene, di Dio (non per innamorarsi di qualsiasi Eterno ma di quel Dio che possiede un volto umano e che incontro nella via umana di vissuti di comunione ecclesiale autorevolmente guidata, con il quale tutto è possibile, anche correggere modalità psicologiche non adeguate) e su questo cammino coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze psicologiche, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità di una antropologia cristiana adeguata che le tiene insieme, l’utilizzo delle attuali competenze psicologiche nell’ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio possono provocare grandi rischi.

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* Monsignor Gino Oliosi è canonico, esorcista e penitenziere della diocesi Verona. Ex docente di filosofia e teologia, ha all’attivo numerosissime pubblicazioni sulla spiritualità diocesana, sul sacerdozio ministeriale e comune dei fedeli, sul rapporto fra Scrittura, Tradizione e Magistero. Tiene frequenti rubriche su “Radio Pace”. Tra i suoi ultimi libri figura “Alla scuola di Benedetto XVI” (edizioni Fede & Cultura).  Il commento è stato pubblicato anche da “Cultura cattolica” (www.culturacattolica.it).

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ZENIT Staff

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