Dal paradigma verde, all’ecologia umana

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ROMA, giovedì, 17 luglio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Dottrina Sociale e Bene Comune l’intervento del professor Emanuele Cirillo, docente di Chimica e Fisica e docente al Master di Scienze Ambientali dell’Università Europea di Roma.

 

 

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La preoccupazione per lo stato di salute della Terra è attualmente una cosa sentita dalla società e dalla politica, anche grazie al risalto che ne viene dato dai mezzi di comunicazione. E’ stato l’ambientalismo che, dagli anni ‘70 in poi, ha avuto sempre più spazio diventando un vero e proprio movimento culturale. Anche la Chiesa è da tempo interessata a questo dibattito e ne è riconoscibile il suo caratteristico contributo. Questo ampio consenso, ha permesso alle tematiche verdi, di trovare un lasciapassare automatico nella comunicazione, nell’azione dei governi e nel sentire comune dell’opinione pubblica.

In questo senso discriminare tra le varie proposte del variegato mondo ambientalista non è sempre facile. Gli aspetti scientifici talvolta si sommano e confondono con le ideologie, la divulgazione tende alla semplificazione eccessiva e molti parlano di ambiente, spesso partendo da idee e presupposti opposti e controversi. Questo perché, anche se appare scontato e condiviso, il patrimonio della sensibilità ambientalista può essere valutato senza lasciare che ogni proposta sia accettata acriticamente. Se è vero e risaputo che tale sensibilità è stata utile per affermare l’esigenza di curare la natura, non è sempre noto quali siano le diverse estrazioni culturali ed antropologiche da cui partono molti promotori verdi e le implicazioni che possono derivarne.

In tal senso quindi, la questione si concentra non tanto sull’ecologia in quanto scienza o sui particolari contributi disciplinari e tecnici, per investigare dal punto di vista bio-chimico-fisico l’ecosistema, ma su di un piano antropologico e culturale di principio. Si potrebbe partire da una domanda: che ruolo ha l’uomo rispetto alla natura? Infatti il nodo fondamentale che viene proposto spesso è che l’attività dell’uomo, con la tecnologia e l’industrializzazione ha rotto gli equilibri della biosfera, di quando egli viveva in armonia con tutti i gli altri viventi secondo una forma di mitologia del “buon selvaggio”. Secondo quest’ottica si evidenzia uno schema circolare: lo sviluppo determina l’alterazione della natura a favore del benessere umano; tale benessere si evidenzia nell’aumento della popolazione, che provocherà una nuova richiesta di sviluppo e così via, alimentando sempre più la compromissione delle risorse naturali e l’inquinamento.

A questo “paradigma verde” in genere viene data come soluzione, l’intervento restrittivo sulle attività umane ed in particolare è interessante notare come la maggior parte dell’attenzione di documenti e studi fatti da associazioni e gruppi, riportino tutta la questione all’esigenza di determinare una decrescita della popolazione umana. Si legge dal sito internet dell’associazione Vhemt (Voluntary Human Extinction Movement): “la speranza che si presenta come alternativa all’estinzione di milioni di specie vegetali ed animali è l’estinzione volontaria di una sola specie: l’homo sapiens… la nostra estinzione…”. Quindi nei casi più aspri la concezione dell’uomo è senza mezzi termini, quella di un parassita che mette a repentaglio la vita degli altri viventi, l’uomo “cancro del pianeta”.

Ora se questa impostazione può sembrare solo un’isolata estremizzazione dell’ecologismo radicale, può essere opportuno considerare da dove attingono le idee che alimentano molti settori dell’universo ambientalista e riscontrare l’esistenza di una radice comune per molti di essi. Tra la fine del XIII e l’inizio del XIX secolo, si presenta una nuova teoria nell’ambito economico. Thomas Robert Malthus pastore anglicano, pone le basi di una nuova dottrina economica che valuta la crescita della popolazione secondo un andamento esponenziale e quella delle risorse secondo un andamento di tipo lineare. Questo significa che al passare del tempo mentre le risorse aumentano sempre con lo stesso ritmo, la popolazione umana cresce sempre più rapidamente, anno dopo anno. Conseguenza di ciò sarebbe una penuria di risorse per la popolazione. Come risolvere il problema? Limitando la crescita umana attraverso dei “freni preventivi” (ad esempio ritardando i matrimoni) e attraverso dei “freni repressivi”, lasciando cioè che guerre e carestia facciano il loro corso.

La posizione che l’autore esprime nella sua trattazione è senza compromessi. Nel suo “Saggio sul principio della popolazione” si legge: “Ogni bambino nato in soprannumero rispetto all’occorrente per mantenere la popolazione al livello necessario deve inevitabilmente perire, a meno che per lui non sia fatto posto dalla morte degli adulti … Pertanto dovremmo facilitare, invece di sforzarci stupidamente e vanamente di impedire, il modo in cui la natura produce questa mortalità; e se temiamo le visite troppo frequenti degli orrori della fame, dobbiamo incoraggiare assiduamente le altre forme di distruzione che noi costringiamo la natura ad usare… Invece di raccomandare ai poveri l’igiene, dobbiamo incoraggiare il contrario. Nelle città occorre fare le strade più strette, affollare più persone nelle case, agevolando il ritorno della peste. In campagna occorre costruire i villaggi dove l’acqua ristagna, facilitando gli insediamenti in tutte le zone palustri e malsane. Ma soprattutto occorre deplorare i rimedi specifici alla diffusione delle malattie e scoraggiare quella persone benevole, ma tratte decisamente in inganno, che ritengono di rendere un servizio all’umanità ostacolando il decorso della estirpazione completa dei disordini particolari”.

Quanto una simile posizione è rispettosa dei diritti umani? Quanto è discriminatoria verso i più deboli? Anche se siamo abituati a vedere il movimento ambientalista come benemerito per la difesa della natura e anche se sicuramente tanti militanti sono seriamente ben intenzionati a lavorare per una giusta causa, è da notare come gran parte della cultura ambientalista si ispira in vario modo a questo modello. In tal senso si fa riferimento all’ambientalismo neomalthusiano. Se si giunge ad ipotizzare la scomparsa dell’uomo in favore delle altre specie significa che al di la di qualsiasi disquisizione tecnico-scientifica, tesa ad evidenziare particolari problemi di risorse e degrado ambientale, vi è una impostazione antropologica e culturale che arriva a denigrare l’essere umano nella sua totalità non riconoscendone quella specificità che lo contraddistingue tra i viventi.

Secondo la cultura dei diritti umani e secondo la visione della sacralità del progetto divino, che si cela in ogni essere umano, questa valutazione dell’uomo diventa stridente. Sembrerebbe quasi porsi una scelta tra i valori della persona umana e la pur giusta causa dell’ambiente. Ma c’è un’alternativa a questo dualismo? Possiamo ammettere un’ambientalismo che sia più rispettoso della concezione umana? Due spunti di riflessione ci vengono in aiuto. Il primo è l’autorevole contributo della Dottrina sociale della Chiesa che ha inquadrato i termini dell’ecologia umana. E’ un punto di vista sorprendente ed apparentemente paradossale in quanto pone l’attenzione non tanto sul particolare problema ambientale da risolvere ma sulla concezione generale della vicenda, a partire proprio dalla valutazione della persona umana, come responsabile amministratore del Creato.

Il punto di partenza è quindi l’uomo. Non più uomo-parassita ma uomo-risorsa. Al paradigma verde si sostituisce il un nuovo modello riassumibile in tre punti: riconoscimento della dignità umana, della famiglia e dello sviluppo. C’è bisogno forse allo stato attuale non tanto di denigrare l’essere umano quanto piuttosto trovare del
le soluzioni adeguate che partano dal riconoscimento del valore di ogni singolo essere umano. Infatti chi tra i viventi è cosciente dei problemi ecologici se non l’uomo? Così come egli può rovinare ed inquinare può anche costruire e disinquinare. Così come può andare contro quello che è il progetto di Dio per il Creato, così può invece rendersi co-autore e gestore saggio di quanto lo circonda. Non più quindi una contrapposizione ma una saggia integrazione tra uomo e natura. Uomini e donne chiamati, tra l’altro, non ad una esperienza individuale rispetto al Creato ma ad una dimensione sociale, che vive attraverso la costituzione della famiglia e l’apertura di essa alla società intera, in un disegno di condivisione e comunione della casa comune che è la Terra.

 

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ZENIT Staff

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