Discorso del Cardinal Ruini per la fine della fase diocesana della causa di beatificazione di Karol Wojtyla

ROMA, lunedì, 2 aprile 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo lunedì dal Cardinale Vicario Camillo Ruini, in occasione della solenne cerimonia, tenutasi nella Basilica di San Giovanni in Laterano, a conclusione della fase diocesana del processo di beatificazione e canonizzazione del Servo di Dio Giovanni Paolo II.

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TRIBUNALE DIOCESANO DEL VICARIATO DI ROMA 2 Aprile 2007

CAUSA DI BEATIFICAZIONE E CANONIZZAZIONE
Sessione di chiusura dell’Inchiesta diocesana
sulla vita, le virtù e la fama di santità
del Servo di Dio
GIOVANNI PAOLO II
(al secolo Karol Wojtyla)

Sommo Pontefice

Nella sessione di apertura di questa fase diocesana della Causa di Beatificazione e Canonizzazione del Servo di Dio Karol Wojtyla-Giovanni Paolo II ho tracciato un breve profilo della sua vita. Ora, nella sessione di chiusura che ha luogo nel secondo anniversario della sua morte, con animo commosso e grato a Dio, oso proporre una piccola riflessione, quasi una meditazione, sulla sua figura spirituale, senza ledere in alcun modo il segreto a cui come Ufficiali della Causa siamo tenuti, ma attingendo a quelle fonti che sono a disposizione di tutti.

All’inizio, al centro e al vertice di un tale ritratto non può non stare il rapporto personale di Karol Wojtyla con Dio: un rapporto che appare già forte, intimo e profondo negli anni della sua fanciullezza e che poi non ha cessato di crescere, di irrobustirsi e produrre frutti in tutte le dimensioni della sua vita. Siamo, qui, in presenza del Mistero: anzitutto il mistero dell’amore di predilezione con cui Dio Padre ha amato questo ragazzo polacco, lo ha unito a sé e lo ha mantenuto in questa unione, non risparmiandogli le prove della vita, anzi, associandolo sempre di nuovo alla croce del proprio Figlio, ma anche donandogli il coraggio di amare questa croce e l’intelligenza spirituale per scorgere attraverso di essa il proprio volto di Padre. Nella certezza di essere amato da Dio e nella gioia di corrispondere a questo amore Karol Wojtyla ha trovato il senso, l’unità e lo scopo della propria vita. Tutti coloro che lo hanno conosciuto, da vicino o anche solo da lontano, sono stati colpiti infatti dalla ricchezza della sua umanità, dalla sua piena realizzazione come uomo, ma ancor più illuminante e significativo è il fatto che tale pienezza di umanità coincide, alla fine, con questo suo rapporto con Dio, in altre parole con la sua santità.

Scomponendo, in certo senso, questa unità nei molteplici aspetti che la costituiscono, emerge in primo luogo quell’autentico dono e gusto e gioia della preghiera, che Karol Wojtyla ha avuto fin da fanciullo e a cui è rimasto sempre fedele, fino alle ore della sua agonia. Questa preghiera aveva, per così dire, due dimensioni. In primo luogo quella del tempo riservato esclusivamente alla preghiera stessa, cominciando dall’inizio della giornata con l’adorazione del mattino, le lodi e la meditazione, e poi la S. Messa – per lui “in modo assoluto il centro della vita e di ogni giornata” – come ci testimonia il suo segretario, ora Cardinale Stanislao Dziwisz, nel libro Una vita con Karol, di cui mi sia consentito raccomandare a tutti la lettura. E ancora la preghiera in cappella subito dopo il pranzo, a cui tante volte ho potuto partecipare, e più a lungo dopo il riposo pomeridiano, la recita quotidiana dell’intero Rosario – preghiera che egli prediligeva -, la lettura continuata della Sacra Scrittura, ogni giovedì l’ora santa, ogni venerdì la Via Crucis e soprattutto il raccoglimento, anzi l’abbandono totale in cui Karol Wojtyla si immergeva quando pregava.

L’altra dimensione della sua preghiera si esprimeva nella straordinaria facilità con cui egli univa questa al lavoro, così che il lavoro stesso non soltanto era offerto al Signore ma era penetrato e attraversato dalla preghiera. Due testimonianze di ciò sono il tavoloinginocchiatoio su cui studiava e scriveva nella cappella dell’episcopio di Cracovia e i brani di preghiera con cui iniziava e numerava le pagine dei suoi manoscritti. La preghiera di Karol Wojtyla-Giovanni Paolo II, così profonda e intimamente personale, era al tempo stesso totalmente ecclesiale, legata alla tradizione e alla pietà della Chiesa. La abitavano infatti anzitutto le tre divine Persone del Padre ricco di misericordia, del Figlio incarnato, crocifisso e risorto, dello Spirito santificatore e vivificante, ma anche e in maniera pervasiva Maria, la Madre a cui egli è davvero totalmente appartenuto, icona della Chiesa e guida nel pellegrinaggio della fede. E con Maria Giuseppe, che egli mai separava da Maria e da Gesù e di cui era felice di portare, dopo quello di Karol, il nome. Abitava inoltre la sua preghiera quella miriade di persone, di ogni nazione e condizione, che a lui si sono rivolte per ottenere l’aiuto di Dio, la salute fisica o spirituale propria e dei congiunti: perciò il Papa teneva nel cassetto dell’inginocchiatoio le suppliche che gli giungevano, per presentarle personalmente al Signore.

Una seconda componente essenziale della personalità di Karol Wojtyla, che scaturiva anch’essa dal suo intimo rapporto con Dio, è stata quella della libertà: una straordinaria libertà interiore, che si esprimeva in molte direzioni. Cominciando per così dire “dal basso”, cioè dal rapporto con i beni materiali, egli sempre, anche da Papa, è stato uomo di concreta e radicale povertà. Viveva poveramente, in modo spontaneo e senza sforzo, sembrava non avere bisogno di nulla, era totalmente distaccato dal denaro e dalle cose. Ma egli era distaccato e libero anche da se stesso, non cercava il proprio successo o una sua autonoma realizzazione: questa libertà probabilmente l’aveva conquistata negli anni giovanili, quando accolse la chiamata al sacerdozio superando l’attrazione che esercitava su di lui un’altra vocazione, quella per il teatro, l’arte, le lettere.

Proprio la libertà da se stesso lo ha reso grandemente libero anche nei confronti degli altri. Era pronto all’ascolto, e anche ad accettare la critica, prediligeva la collaborazione e rispettava la libertà dei suoi collaboratori, ma poi sapeva essere autonomo nelle decisioni definitive, e soprattutto non rinunciava a prendere posizioni difficili e “scomode” per timore delle reazioni delle autorità ostili alla Chiesa, negli anni del suo ministero in Polonia, o dell’incomprensione e dell’ostilità dell’opinione pubblica predominante, negli anni del Pontificato. Le sue scelte, infatti, non erano mai dettate da altra sollecitudine che da quella per il Vangelo e per il bene dell’uomo, “via della Chiesa”. La grande parola “Non abbiate paura!”, con cui ha aperto il suo Pontificato, nasceva anche da questa libertà interiore, nutrita di fede, ed è stata, nel concreto della storia, una parola contagiosa, che ha liberato la Polonia, e non soltanto la Polonia, dalla paura e dalla sudditanza, politica, culturale, spirituale.

Quella medesima unione con Dio e libertà interiore che ha reso Karol Wojtyla distaccato dai beni di questo mondo gli ha anche dato una grandissima capacità di apprezzarli e di godere delle bellezze della natura e dell’arte, del calore delle amicizie come degli ardimenti del pensiero e delle fatiche e delle conquiste dello sport. Ha contributo dunque a fare di lui un uomo completo e pienamente realizzato. In lui, in certo senso, è stata plasticamente confermata la verità del principio teologico che la grazia non sostituisce e non distrugge, ma presuppone, purifica, perfeziona e porta a compimento la natura.

L’autentico amore di Dio è inseparabile dall’amore per il prossimo e dalla passione per la sua salvezza. Perciò un uomo che ha amato Dio con l’intensità di Giovanni Paolo II non poteva non essere un testimone esemplare della dedizione per i fratelli. La sua vita davvero trabocca di tali testimonianze, a cominciare da quella qualifica di ragazzo “buonissimo” che Padre Kazimierz Figlewicz attribuì a Karol chierichetto a Wadowice e dalle ripetute visite che questi, all’età di dodici anni, fece a un sacerdote ricoverato in ospedale. Da prete, ma poi ugualmente da Vescovo e da Papa, egli si è per così dire “concentrato” nell’attenzione alla persona e ai suoi problemi. Sono semplicemente innumerevoli i suoi interventi nello spirito cristiano della carità, che “è dapprima semplicement
e la risposta a ciò che, in una determinata situazione, costituisce la necessità immediata” (Deus caritas est, 31). In concreto questi interventi riguardavano il soccorso materiale ai poveri e ai bisognosi dedicando loro le offerte ricevute da altri, ma anche donando a una famiglia bisognosa la coperta del proprio letto, come attesta una donna polacca in una lettera del giugno 1967. Si aggiungono la grande attenzione e premura per gli ammalati, fatta di continue visite oltre che della preghiera per loro, e tutte le altre forme di sollecitudine per le varie difficoltà della gente. In realtà il suo cuore era per i poveri, i piccoli e i sofferenti, e questo spiega la profonda affinità spirituale che egli sentiva nei confronti di Madre Teresa di Calcutta.

Ma la stessa carità cristiana animava Karol Wojtyla nell’offrire a tutti in primo luogo Gesù Cristo, pane della vita e Redentore dell’uomo. Egli era un “comunicatore spontaneo” del Vangelo, a tutti e in ogni circostanza, perché viveva e quindi trasmetteva quella che il Cardinale Dziwisz nel suo libro ha definito “freschezza evangelica”. Perciò, quando le sue responsabilità pastorali si dilatarono al mondo intero, egli lanciò il grande programma della “nuova evangelizzazione” e si dedicò personalmente per primo alla sua realizzazione, attraverso i continui viaggi missionari. In particolare ha cercato, senza mai stancarsi di dare nuova linfa alla fede cristiana nell’Europa gravata dalla secolarizzazione ed ha fatto scaturire dal proprio cuore quella formidabile “invenzione” evangelizzatrice che sono le Giornate Mondiali della Gioventù, espressione universale del suo amore di predilezione per i giovani.

In realtà, dietro il vigore inesausto della sua testimonianza alla verità di Cristo stava la saldezza rocciosa della sua fede: era la fede semplice di un fanciullo e al tempo stesso la fede di un grande uomo di cultura, ben consapevole delle sfide di oggi, era soprattutto la fede di un uomo che in certo senso ha già visto il Signore, ha avuto esperienza diretta della presenza misteriosa e salvifica di Dio nel proprio spirito e nella propria vita, e perciò, alla fine, non può essere scosso o reso incerto dal dubbio, ma sente prepotente dentro di sé il bisogno e il dovere di offrire e di trasmettere a tutti la verità che salva. Con questo atteggiamento Giovanni Paolo II ha potuto, in anni non facili, confermare la Chiesa intera nella fede.

La medesima sintesi di fede in Cristo e di amore e passione per l’uomo lo ha spinto a farsi carico della difesa e della promozione della dignità e dei diritti, in una parola del bene autentico e concreto, degli uomini e dei popoli, opponendosi con un coraggio che non ha conosciuto ostacoli alle molteplici “minacce” che pesano sull’umanità del nostro tempo (cfr Redemptor hominis, 15-16). La sua lotta per la liberazione dal totalitarismo comunista, la rivendicazione intransigente della giustizia per i popoli della fame, l’impegno strenuo per la pace nel mondo – e perché le religioni siano promotrici di pace e non di intolleranza e di violenza – sono apparsi ad osservatori superficiali come in reciproco contrasto, ma in realtà hanno qui la loro comune sorgente. Identico è lo spirito con il quale egli ha condotto la grande battaglia per la vita umana, contro l’aborto e ogni altra sua negazione, e per la famiglia, contro tutte le spinte che tendono a disgregarla. Entrambe queste battaglie egli le ha percepite e vissute non, come spesso è stato detto, quasi fossero una violazione dei diritti delle donne, ma al contrario come affermazione e difesa dell’autentica dignità e del genio proprio delle donne: se mi è consentito un ricordo personale, ho viva memoria della forza improvvisa con cui Giovanni Paolo II reagì a una mia frase che gli era sembrata ricondurre il diffondersi dell’aborto principalmente a una responsabilità e colpa delle donne.

Ho già accennato al carattere profondamente ecclesiale della preghiera e della spiritualità di Karol Wojtyla: anche in tutta la sua opera di cristiano e di Pastore l’amore per la Chiesa è stato una dimensione essenziale ed “interna” del suo rapporto con Dio in Gesù Cristo. Già nei modi e nei metodi con cui egli agiva il carattere “ecclesiale”, non politico e non mondano, doveva emergere nella forma più nitida: fu questa una sua preoccupazione costante e un decisivo criterio di comportamento. I suoi viaggi apostolici come le visite alle parrocchie romane, sono stai inseparabilmente, opera di evangelizzazione e atto di amore e di servizio per la Chiesa che vive nelle diverse parti del mondo. Egli ha portato nel proprio cuore e vissuto nella preghiera, prima ancora di esprimerla nel magistero e nel governo, la sollecitudine per l’unità interna della Chiesa e per la radice profonda di questa unità, che si ritrova nella sua unione con Cristo, nella conversione e nella santità effettiva dei suoi membri.

Il Cardinale Dziwisz riporta nel suo libro una frase di Giovanni Paolo II:

“L’ecumenismo è la volontà di Cristo, ut unum sint, che tutti siano uno. E la volontà del Concilio Vaticano II. E questo è il mio programma, indipendentemente dalle difficoltà, dai malintesi e a volte dalle offese”. Posso dire di aver sentito anch’io, non una sola volta, parole pressoché identiche sulla sua bocca. N ella dedizione alla causa ecumenica, come nella richiesta di perdono per i peccati dei figli della Chiesa, si esprime quella volontà, mite ma fermissima, di conformarsi a Cristo, di seguire Lui solo e di percorrere quella “via” che è Cristo stesso, che è stata per Karol Wojtyla la scelta della vita e il nutrimento dello spirito.

Ho parlato finora del rapporto straordinariamente profondo che egli ha avuto con il suo unico Signore, della sua grande libertà e della sua capacità senza limiti di amare e di donarsi. Ora dobbiamo raccoglierci su quell’aspetto della sua vita che è diventato evidente negli ultimi anni ma che in realtà è stato presente fin da quando, bambino, egli ha perduto la mamma e poco dopo il fratello e poi ancora molto giovane, il padre, ed ha vissuto la tragedia della guerra e dell’oppressione, sperimentando anche il dolore fisico quando fu investito da un camion tedesco e ferito abbastanza gravemente. Ricordiamo tutti con emozione il modo in cui la sofferenza irruppe di nuovo nella sua vita il 13 maggio 1981. Impregnato di fiducia nel Dio che guida la storia e di abbandono fìliale a Maria Santissima, Giovanni Paolo II ha portato sempre con sé la certezza che quel colpo non era stato mortale solo per l’intercessione di Maria e l’intervento dell’Onnipotente. Ma poi è iniziato, con la malattia, un lungo e ininterrotto martirio, che il Cardinale Dziwisz ci consente di rivivere passo per passo, e per così dire dal di dentro, nelle pagine finali del suo libro.

Il Papa ha sofferto nella carne e ha sofferto nello spirito, vedendosi sempre più spesso obbligato a ridurre gli impegni legati alla sua missione: sono anch’io testimone del dispiacere che gli ha procurato il dover interrompere, quando le aveva quasi portate a termine, le visite alle 333 parrocchie romane. Egli sopportava però la malattia e il dolore fisico con grande serenità e pazienza, con autentica virilità cristiana, continuando tenacemente ad adempiere il più possibile ai propri compiti, senza far pesare sugli altri i suoi malanni. Certo, dei segni di impazienza affioravano, ma non per il dolore quanto piuttosto per l’angustia e la limitazione che gli procurava l’insufficienza motoria, con la crescente necessità di essere trasportato. In realtà Karol Wojtyla aveva imparato a fare spazio alla sofferenza e alla croce non solo dalla propria esperienza di vita ma anche, e più profondamente, dalla sua stessa spiritualità, dal rapporto personale intessuto con Dio. Il suo testamento iniziava con le parole “Desidero seguirti” e volendo, come scelta di fondo, seguire il Signore, egli aveva compreso e interiorizzato che bisogna accettare tutto quello che Dio dispone per noi: è questa la certezza che traluce già dalla Lette
ra Apostolica Salvifici Doloris.

Da molto tempo egli si preparava al passo conclusivo della sua vita terrena. Aveva cominciato a scrivere il testamento durante gli esercizi spirituali del marzo 1979 e lo aggiornò più volte, sempre durante gli esercizi: era l’occasione per rinnovare la sua prontezza a presentarsi al Signore. Nella preghiera, diventavano sempre più sue le parole dell’Apostolo Paolo: “sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai parimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). Quando la fine si avvicinò e la prova si fece più dura, con l’operazione alla trachea per evitare nuove crisi di soffocamento, appena svegliatosi dall’anestesia scrisse su un foglio queste parole: “Cosa mi hanno fatto! Ma … totus tuus“. Anche nel dolore profondo di non poter più disporre di quella voce che egli aveva tanto usato come veicolo della parola del Signore, rinnovava il suo abbandono totale nelle mani di Maria. E quando, nella mattina di Pasqua, gli mancò la voce per benedire dalla finestra la folla di Piazza San Pietro, sussurrò a Mons. Stanislao: “Sarebbe forse meglio che muoia, se non posso compiere la missione affidatami”, ma subito aggiunse: “Sia fatta la tua volontà … Totus tuus‘.

Nel giorno della morte il Papa, come aveva fatto per tutta la vita, volle nutrirsi della parola di Dio e chiese che gli venisse letto il Vangelo di Giovanni: la lettura si protrasse fino al capitolo nono. E anche quel giorno recitò, con l’aiuto dei presenti, tutte le preghiere quotidiane: fece l’adorazione, la meditazione e anticipò perfino l’Ufficio delle letture della domenica. A un certo punto disse con voce debolissima a Suor Tobiana Sobotka, suo vero angelo custode, “Lasciatemi andare dal Signore”. Poi entrò in coma e nella sua stanza fu celebrata la Messa prefestiva della domenica della Divina Misericordia. Mons. Stanislao riuscì ancora a dargli, come Viatico, alcune gocce del Sangue di Cristo.

Proprio con il riferimento alla Divina Misericordia, e ad un’altra suora polacca, Faustina Kowalska, interlocutrice e araldo di Gesù Misericordioso, da Giovanni Paolo II proclamata Beata e poi Santa, è giusto terminare questo piccolissimo ricordo spirituale del nostro tanto amato Padre e Papa. La Divina Misericordia, infatti, è stata al centro della sua spiritualità e della sua vita: da Lei ha imparato a vincere il male con il bene (cfr Rom 12,21), in Lei ha visto il limite invalicabile che Dio ha posto al male e da Lei ha ricavato quella speranza certa che lo ha sostenuto in tutta la sua vita.

Concludo con un grande grazie a Mons. Gianfranco Bella e a tutto il personale del Tribunale Diocesano, come anche al Postulatore Mons. Slawomir Oder, per aver padroneggiato e portato a termine in soli ventuno mesi dal 28 giugno 2005 a oggi, un’impresa di così grande portata. Aggiungo un grazie vivissimo alla Chiesa sorella di Cracovia e al suo Tribunale Diocesano, per la parte ivi svolta con ammirevole profondità e rapidità. Grazie inoltre alla Commissione storica che ha affiancato il lavoro del Tribunale. Si è trattato, in effetti, di un’impresa estremamente impegnativa, per la molteplicità delle persone e degli eventi il loro spessore e complessità, l’abbondanza e la ricchezza delle testimonianze. Ma mi permetto di dire che è stata anche un’impresa stimolante ed entusiasmante, perché dal contatto con Karol Wojtyla è emerso e continua ad emergere un fiume di stimoli a vivere il Vangelo: in questo senso oserei affermare che il nostro lavoro di questi ventun mesi è stato perfino facile, della facilità delle imprese che portano gioia.

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ZENIT Staff

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