CITTA’ DEL VATICANO, lunedì, 2 aprile 2007 (ZENIT.org).- Nel richiamare gli anni trascorsi al fianco del fondatore dell’Opus Dei, san Josemaría Escrivá, e di Giovanni Paolo II, il Cardinale Julián Herranz ha detto di ricordarli come due “ribelli”.
Julián Herranz Casado (Baena, 1930), Presidente della Commissione Disciplinare della Curia Romana e Presidente emerito del Pontificio Consiglio Pontificio per i Testi legislativi, ha commentato a ZENIT il suo recente libro “En las afueras de Jericó: recuerdos de los años con san Josemaría y Juan Pablo II”, edito da Rialp (www.rialp.com).
In questo volume, il porporato rivive non solo gli anni con il fondatore dell’Opus Dei, Josemaría Escrivá, ma anche il lavoro svolto presso la Santa Sede al servizio di Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Nell’intervista rilasciata presso il suo studio, il Cardinale ripercorre i suoi ricordi e si sofferma sulla cosiddetta “crisi postconciliare”, affermando che ciò che viene identificata come una dicotomia “Vangelo-Legge” è in realtà “una contrapposizione demagogica che alcuni fanno tra spirito pastorale e ordinamento canonico”.
Ventidue anni al fianco di una persona come Josemaría Escrivá sono tanti. Era cosciente che Escrivá non era solo un fondatore ma anche un santo?
Cardinale Herranz: Sì, perché erano inseparabili quelle due dimensioni della sua personalità: il Signore lo ha “utilizzato” per fondare l’Opus Dei proprio perché era un contemplativo, un innamorato di Cristo, un santo.
Dalla contemplazione della santissima umanità di Cristo, dell’amore di Dio incarnato, san Josemaría “risaliva” – così diceva – al continuo rapporto filiale con il Padre e lo Spirito Santo, che ci insegna a camminare con i piedi per terra e lo sguardo al cielo.
In un appunto personale scrivevo anni fa a Gerusalemme: “Da un arbusto cresciuto lungo il cammino di Gerico ho tagliato un piccolo ramo, per toccare con esso l’urna dove riposano a Roma le amatissime reliquie dell’uomo che è stato lo strumento di cui Dio si è servito perché la mia anima nelle tenebre acclamasse a Dio, lo incontrasse alla fine, si innamorasse di Lui e lo seguisse”.
“Mi duole la Chiesa”, diceva Escrivá nel decennio 1965-1975. A cosa si riferiva?
Cardinale Herranz: Si riferiva alla cosiddetta “crisi postconciliare”, alla terribile situazione paradossale per cui, appena conclusa l’opera dello Spirito Santo di arricchimento della Chiesa con il Magistero del Vaticano II, nascevano interpretazioni erronee sul Concilio, che portavano molte persone a situazioni estremamente tristi e dolorose.
Per esempio: il desiderio di applicare la fede lasciando Dio ai margini e realizzando una riduzione temporalistica del messaggio evangelico della salvezza; una reimpostazione dell’identità sacerdotale che ha portato molti a laicizzare il proprio stile di vita ed ha comportato una emorragia di defezioni sacerdotali e religiose; uno sperimentalismo liturgico anarchico e dissacrante, con una progressiva banalizzazione della santissima Eucaristia, etc.
San Josemaría ha condiviso, strettamente unito a Paolo VI, l’intimo dolore di quel Papa per questa situazione.
Lei ha dedicato la sua vita al servizio della Santa Sede, principalmente in un ambito non sempre conosciuto né apprezzato come quello della legge. Legge, tribunali, diritto canonico… cosa significano nella vita della Chiesa?
Cardinale Herranz: Significano amore a Cristo e alla Chiesa, al popolo di Dio.
La Costituzione “Lumen gentium” del Vaticano II ricorda che Cristo ha fondato la Chiesa come comunione spirituale di fede, speranza e amore, e allo stesso tempo come società terrena dotata di organismi gerarchici e di leggi che stabiliscono i diritti e doveri di tutti i fedeli.
Sono leggi dirette al fine stesso della Chiesa: la diffusione del messaggio di Cristo nel mondo e la salvezza eterna dei fedeli.
La struttura sociale è al servizio della grazia e della comunione.
Per questo non ha senso una contrapposizione demagogica che alcuni fanno tra Vangelo e Legge o tra spirito pastorale e ordinamento canonico.
Lei ha lavorato nel corso dell’intero pontificato di Paolo VI alla preparazione della nuova legislazione ecclesiastica. Cosa direbbe, personalmente, di Paolo VI?
Cardinale Herranz: Che è stato un Papa santo, di virtù cristiane e sacerdotali eroiche, che ha diretto saggiamente e condotto a felice conclusione il Concilio Vaticano II, in mezzo a tensioni dottrinali acute e dolorose.
Ho ammirato la sua grande prudenza pastorale, il suo amore sacrificato a Cristo e il suo amore appassionato per una Chiesa che – pur rimanendo fedele alle esigenze del Vangelo – intrattenesse un dialogo fecondo con la società moderna. Per questo a maggio del 1992 ho scritto a Giovanni Paolo II, sollecitando l’avvio della causa di beatificazione.
Per ventisette anni ha lavorato con Giovanni Paolo II, il “suo” Papa, se mi consente l’espressione. Quale ricordo affiora con maggiore intensità, tra tutti quelli che riguardano questo Pontefice?
Cardinale Herranz: La forza con cui, nell’omelia di canonizzazione di san Josemaría, ha detto alla moltitudine dei fedeli che lo ascoltavano a Roma e nel mondo: “Egli continua a ricordarvi la necessità di non lasciarvi intimorire dinanzi a una cultura materialistica, che minaccia di dissolvere l’identità più autentica dei discepoli di Cristo”.
In quel momento ho visto identificati nella mia anima i due grandi ribelli che sono stati Wojtyla ed Escrivá.
Il Papa, tenace difensore della dignità della persona umana, di fronte all’utopia totalitaristica della “giustizia senza libertà” e all’utopia agnostica della “libertà senza verità”, e il fondatore che predicava la ribellione spirituale contro ciò che chiamava la “triplice onda” anticristiana e antiumana: l’onda “rossa” del materialismo marxista, l’onda “nera” del neopaganesimo rivestito di laicità, e l’onda “verde” del pansessualismo animalesco.
Siamo sotto il pontificato di Benedetto XVI. Lei prevede cambiamenti significativi nel modo di intendere l’ambito concreto della disciplina ecclesiastica?
Cardinale Herranz: Probabilmente nel campo della promozione vocazionale e della disciplina del clero, in base al noto principio pastorale secondo cui “per essere di più occorre essere migliori”.
E anche nel campo del governo ecclesiastico, più dinamico e apostolico, per arrestare la crescente “dittatura del relativismo” con una vigorosa nuova evangelizzazione.