ROMA, venerdì, 18 agosto 2006 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. – predicatore della Casa Pontificia – alla liturgia di domenica prossima, XX del tempo ordinario.
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IL MIO SANGUE E’ VERA BEVANDA
XX Domenica del Tempo Ordinario (B)
Proverbi 9, 1-6; Efesini 5, 15-20; Giovanni 6, 51-59
“In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui”.
Il brano evangelico continua la lettura del capitolo VI di Giovanni. L’elemento nuovo è che al discorso sul pane Gesù aggiunge quello sul vino, all’immagine del cibo quella della bevanda, al dono della sua carne quello del suo sangue. Il simbolismo eucaristico raggiunge il suo culmine e la sua completezza.
Abbiamo detto, la settimana scorsa, che per capire l’Eucaristia è essenziale partire dai segni scelti da Gesù. Il pane è segno di nutrimento, di comunione tra coloro che lo mangiano insieme; attraverso di esso giunge sull’altare e viene santificato tutto il lavoro umano. Ci poniamo la stessa domanda per il sangue. Cosa significa e cosa evoca per noi la parola sangue? Evoca in primo luogo tutta la sofferenza che c’è nel mondo. Se dunque nel segno del pane giunge sull’altare il lavoro dell’uomo, nel segno del vino vi giunge anche tutto il dolore umano; vi giunge per essere santificato e ricevere un senso e una speranza di riscatto grazie al sangue dell’Agnello immacolato, cui è unito come le gocce d’acqua mescolate al vino nel calice.
Ma perché, per significare il suo sangue, Gesù ha scelto proprio il vino? Solo per l’affinità del colore? Cosa rappresenta il vino per gli uomini? Rappresenta la gioia, la festa; non rappresenta tanto l’utile (come il pane) quanto il dilettevole. Non è fatto solo per bere, ma anche per brindare. Gesù moltiplica i pani per la necessità della gente, ma a Cana moltiplica il vino per la gioia dei commensali. La Scrittura dice che “il vino allieta il cuore dell’uomo e il pane sostiene il suo vigore” (Sal 104, 15).
Se Gesù avesse scelto, per l’Eucaristia, pane e acqua, avrebbe indicato solo la santificazione della sofferenza (“pane e acqua” sono infatti sinonimo di digiuno, di austerità e di penitenza). Scegliendo pane e vino, ha voluto indicare anche la santificazione della gioia. Come sarebbe bello se imparassimo a vivere anche le gioie della vita, eucaristicamente, cioè con rendimento di grazie a Dio. La presenza e lo sguardo di Dio non offuscano le nostre gioie oneste, al contrario le amplificano.
Ma il vino, oltre che gioia, evoca anche un problema grave. Nella seconda lettura ascoltiamo questo ammonimento dell’Apostolo: “Non ubriacatevi di vino, il quale porta alla sfrenatezza, ma siate ricolmi dello Spirito”. Suggerisce di combattere l’ebbrezza da vino con “la sobria ebbrezza dello Spirito”, un’ebbrezza con un’altra.
Oggi ci sono tante iniziative di recupero per le persone con problemi di alcolismo. Esse cercano di utilizzare tutti i mezzi suggeriti dalla scienza o dalla psicologia. Non si può che incoraggiarle e sostenerle. Chi crede non dovrebbe però trascurare anche i mezzi spirituali, che sono la preghiera, i sacramenti e la parola di Dio. Nell’opera I racconti di un pellegrino russo si legge questa storia vera. Un soldato schiavo dell’alcool e minacciato di licenziamento va da un santo monaco a chiedergli cosa deve fare per vincere il suo vizio. Questi gli ordina di leggere ogni sera, prima di coricarsi, un capitolo del vangelo. Lui si procura un vangelo e comincia a farlo con diligenza. Dopo un po’ però torna desolato dal monaco a dirgli: “Padre, io sono troppo ignorante e non capisco niente di quello che leggo! Datemi qualcos’altro da fare”. Lui risponde: “Continua solamente a leggere. Tu non capisci, ma i demoni capiscono e tremano”. Lui fece così e fu liberato dal suo vizio. Perché non provare?