29 aprile, Giornata del Martirio del clero polacco

Intervista esclusiva con un Vescovo sopravvissuto al lager

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VARSAVIA, giovedì 29 aprile 2004 (ZENIT.org).- Per ricordare i tanti che perirono nel campo di concentramento nazista di Dachau, la Chiesa polacca ha proclamato il 29 aprile “Giornata del Martirio del Clero Polacco durante la seconda guerra mondiale”.

A Dachau una persona uccisa su tre era di nazionalità polacca. Il regime nazista voleva eliminare fisicamente le elite della Polonia occupata (intellighenzia, ufficiali, clero) e ridurre la popolazione a pura manodopera di basso costo.

Il campo di Dachau, dove venivano portati i sacerdoti polacchi, divenne, quindi, anche il luogo principale del loro martirio. Qui furono uccisi 861 sacerdoti tra cui Michal Kozal vescovo ausiliare di Wroclaw (beatificato da Giovanni Paolo II il 10 giugno del 1987) e Wladyslaw Goral, vescovo di Lublino.

All’inizio della seconda guerra mondiale i sacerdoti diocesani polacchi erano 10.017: circa il 20% di loro morì nelle prigioni e nei campi di concentramento nazisti, tra cui 5 vescovi, e l’altro 30% subì vessazioni di vario tipo. In questo modo alla fine della guerra la Polonia si trovò con il clero attivo dimezzato.

Oggi, sono pochissimi i sacerdoti sopravvissuti all’inferno di Dachau. Tra loro c’è mons. Kazimierz Majdanski, arcivescovo emerito di Stettino-Kamien. Majdanski, allora alunno del seminario di Wloclawek, fu arrestato il 7 novembre 1939 insieme con altri alunni e professori del seminario. Fu rinchiuso nel campo di concentramento di Sachsenhausen prima e Dachau dopo.

A Dachau fu sottoposto a criminali esperimenti pseudoscientifici (se è sopravvissuto lo si può ritenere un vero miracolo). Dopo la guerra fu ordinato sacerdote a Parigi e mandato a continuare gli studi a Friburgo in Svizzera.

Quando ritornò in Polonia lavorò come vicerettore del seminario, vescovo ausiliare di Wroclawek e arcivescovo di Stettino-Kamien.

Partecipò ai lavori del Concilio Vaticano II e nel 1975 fondò l’Istituto degli Studi sulla Famiglia a Lomianki, progetto allora pioneristico, se si pensa che Papa Paolo VI, solo nel 1973, decise di costituire uno speciale “Comitato per la famiglia” al servizio della Santa Sede, con l’incarico di studiare i problemi spirituali, morali e sociali della famiglia, in una visione pastorale.

In occasione della Giornata del Martirio del Clero Polacco durante la seconda guerra mondiale, Vladimir Redzioch, ha chiesto all’arcivescovo Majdanski di dare una testimonianza di quei tragici anni.

Eccellenza, come mai fu arrestato dalla Gestapo subito all’inizio della guerra?

Mons. Majdanski: Fui arrestato, d’altronde come altri alunni e professori del seminario, perché portavo la tonaca. I tedeschi che ci hanno arrestati non chiedevano le nostre generalità (lo fecero dopo in prigione). Allora si può dire che fui arrestato come prete cattolico.

Come fu la vita nel campo di concentramento di Dachau?

Mons. Majdanski: All’ingresso del campo si trovava la scritta: “Arbeit macht frei” (Il lavoro rende liberi). Ma in verità il lavoro disumano al freddo d’inverno e caldo d’estate, con insufficienti razioni di cibo, con percosse e umiliazioni doveva servire a distruggere l’uomo.

Alla fine quando la persona non era più in grado di lavorare veniva spedita con i cosiddetti “trasporti degli invalidi” alle camere a gas. Nelle intenzioni di chi costruì i campi di concentramento i prigionieri dovevano uscire dal campo con il fumo del forno crematorio.

Lei si trovava tra i prigionieri che furono sottoposti agli esperimenti medici.

Mons. Majdanski: Si. A Dachau un certo prof. Schilling faceva pseudoesperimenti medici. In pratica, si sperimentava sui prigionieri la reazione dell’uomo alle varie sostanze che ci venivano iniettate.

Prima di andare a sottopormi agli esperimenti avevo chiesto al mio professore del seminario di informare i miei parenti della mia morte e gli avevo lasciato il mio “tesoro”, 2 fette di pane vecchio.

Se sono sopravvissuto è un vero miracolo. Purtroppo, padre Jozef Kocot, il mio compagno di stanza, un insegnante di filosofia nel seminario, moriva in silenzio soffrendo in modo indescrivibile.

Che cosa era per voi sacerdoti il campo di concentramento?

Mons. Majdanski: Pensavamo che erano tornati i tempi di Nerone e Diocleziano, i tempi dell’odio verso il Cristianesimo e tutto quello che il Cristianesimo rappresentava. Il campo di concentramento era l’incarnazione della civiltà della morte: non a caso sulle uniformi dei tedeschi si trovarono i teschi!

I nostri carnefici tedeschi bestemmiavano Dio, denigravano la Chiesa e ci chiamavano i “cani di Roma”. Ci volevano costringere ad oltraggiare la croce e il rosario. In fin dei conti per loro eravamo soltanto numeri ad eliminare.

Ci rimaneva l’alleanza con Dio, la preghiera recitata di nascosto, la confessione fatta di nascosto. Ci mancava tanto la santa Eucaristia. In questa “macchina di morte” i sacerdoti erano chiamati al sacrificio della vita, ad essere fedeli fino alla morte.

Padre Stefan Frelichowski insieme a padre Boleslaw Burian crearono una specie di alleanza i cui membri si impegnavano a sopportare in modo più consono con lo spirito del Vangelo tutte le umiliazioni e le sofferenze del campo, e a rendere conto di tutto ciò alla Madonna alle 21 di ogni sera.

P. Frelichowski, quando scoppiò l’epidemia di tifo, si è offerto volontario per servire gli ammalati. Morì dando la vita per gli altri, come san Massimiliano Kolbe (beatificato dal Papa).

Ha visto morire tanti compagni?

Mons. Majdanski: La metà dei sacerdoti polacchi imprigionati a Dachau morirono. Ho visto morire tanti sacerdoti in modo eroico. Tutti loro furono fedeli a Cristo che diceva ai suoi discepoli: “Sarete i miei testimoni”. Morivano da sacerdoti cattolici e da patrioti polacchi.

Certi potevano salvarsi ma nessuno è sceso a patti: nel 1942 le autorità del campo offrivano ai sacerdoti polacchi la possibilità di un trattamento speciale, a condizione di dichiarare la propria appartenenza alla nazione tedesca. Nessuno si fece avanti.

Quando al padre Dominik Jedrzejewski, in seguito a qualche intervento presso le autorità tedesche, offrirono la liberà a condizione di rinunciare a svolgere le funzioni sacerdotali, serenamente rispose “no”. E morì.

Il martirio del clero polacco durante l’inferno nazista fu una pagina gloriosa della storia della Chiesa e della Polonia. Peccato che su di essa sia sceso un velo di silenzio.

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ZENIT Staff

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