Da quando Papa Francesco è salito al soglio pontificio le parole più ricorrenti da lui utilizzate sono state misericordia e tenerezza, richiamandole in ogni suo gesto e atteggiamento: più volte le ripete in occasione della celebrazione di inizio del Pontificato avvenuta nella solennità di San Giuseppe, ossia il 19 marzo, e di nuovo le troviamo in altre omelie e discorsi.

Papa Francesco si è così presentato fin da subito come un Papa buono, sorridente e capace di muovere le coscienze verso un rinnovato desiderio di Cristo e della Chiesa. Anche il mondo laico ne è sembrato positivamente scosso, tanto da costruire attorno a questo nuovo Papa una pubblicistica positiva e serena, talvolta però allusiva a una presunta contrapposizione con una “chiesa” non interessata e addirittura ostile a questa tenerezza.

In effetti in ciò che Papa Francesco ha espresso finora possiamo notare due poli tematici, probabilmente elusi dalla grande stampa: da una parte misericordia e tenerezza, dall'altra verità e libertà. Esaminiamoli entrambi.

Il Dio misericordioso al quale fin da subito papa Francesco si è appellato è quel Signore che vive la relazione con il suo popolo in una forte partecipazione affettiva che sgorga dalle sue “viscere di tenerezza” (cf. 1Re 3,26; Is. 54,7; ebr. rahamim, rehem): se in lui cogliamo la grandezza di una misericordia che permane traboccante dall'atto creativo fino al costato aperto di Cristo, e continua nelle pieghe della storia a elargire la sua bontà sulla totalità dei viventi, questo amore misericordioso deve divenire riflesso nel credente come tenerezza.

Santa Teresina di Lisieux nella Storia di un'anima rimproverava i cristiani di non capire questa dimensione dell'amore di Gesù: «Gesù è assetato, non incontra se non ingrati e indifferenti tra i discepoli del mondo e, tra i suoi stessi discepoli, trova pochi cuori i quali si abbandonino a lui senza riserve e capiscano la tenerezza del suo amore infinito».

Tra i credenti la tenerezza alimenta la dimensione affettiva e soprattutto orizzontale, nasce ed è coltivata nel sentirsi fratelli, accomunati dalla stessa creaturalità, capaci delle stesse colpe ma salvati dallo stesso sangue. Non c'è misericordia cristiana se non viene espressa nella dimensione della tenerezza: infatti questa dice, esplicita, dimostra quanto il cuore sia davvero convertito all’amore misericordioso, quanto abbia davvero assaporato la misericordia del Padre, così gratuita che investe la totalità della persona umana.

La tenerezza è la controprova dell'amore, che quando è vissuto in profondità trasfigura l’atteggiamento verso se stessi, verso gli altri e verso Dio. Che amore sarebbe quello verso il povero, verso il sofferente, verso il fratello, verso i parenti, verso il coniuge se non ci fosse la tenerezza? Anche l'amore più sincero, più onesto se non si comunica e non produce nel credente un atteggiamento di accoglienza e cura di se stesso e del prossimo, può diventare un amore contrastivo, faticoso da cogliere e persino di scarsa testimonianza. La misericordia deve farsi cura e custodia di ogni cosa, dalla grande alla piccola; nulla può tralasciare perché sa che anche il germoglio più piccolo può diventare un grappolo... 

Papa Francesco sembra invitare i cristiani a fare questa verifica. La tenerezza che ci troviamo a vivere racconta molto della nostra fede: ci dice quanto ci stiamo abbandonando all'amore di Dio, quanto per questo desideriamo ridare amore; la tenerezza dice in che misura l'amore ci ha scavato fino a produrre in noi atteggiamenti di apertura e com-passione per l'altro, ci dice quante barriere mettiamo ad un amore che vuole far fiorire tutto il nostro essere personale e relazionale.

Va chiarito ovviamente qualche dettaglio. Dapprima che la tenerezza non è una sorta di “tenerume” privo di contorni e incapace di scegliere il bene quando la vita impone scelte e tagli anche dolorosi. La tenerezza non è l'atteggiamento di chi si lascia sconfiggere e vive da sconfitto; al contrario, è l'atteggiamento cristiano per eccellenza, quello di chi conosce cosa significa combattere il male, dentro e fuori di sé, ma su questa malvagità lascia trionfare sempre Cristo, nostra infinita dolcezza. La tenerezza è l'atteggiamento del combattente consapevole che combattere è molto duro, ma che si può combattere perché in Cristo la battaglia è già vinta. Così anche con il volto di Dio rivelato da Cristo entra in un rapporto di confidenziale tenerezza, imparando ad aspettare i suoi silenzi e la sua parola e apprendendo a gioire della semplicità e immediatezza della sua presenza.

La tenerezza così diviene un habitus, un vestito che l'anima sceglie di indossare per incontrare più pienamente Dio, prima di tutto; poi per guardare alle proprie bellezze e ai propri limiti, per incontrare l'altro nelle sue ricchezze e nelle sue spigolature, per costruire il mondo e farlo fiorire. San Tommaso d’Aquino spiegava chiaramente che l'habitus non è un’azione ripetitiva, ma è una modalità creativa e sempre nuova di vivere una virtù e renderla piena. La tenerezza è l'habitus più proprio dell'amore, non è un fatto morale ma qualcosa che modella l'immediatezza delle azioni perché le dispone ad un amore ordinato fino a rendere questo amore capace delle vette più alte: per questo va continuamente esercitata ed appresa. 

Non si deve però pensare a questa dimensione come meramente relazionale: il fine della tenerezza non è la “riuscita” del nostro rapporto con l'altro, chiunque esso sia e in un modo qualunque. Il fine della tenerezza è la pienezza del rapporto con Dio, con noi stessi e con l'altro valutata e realizzata “secondo la misura di Dio”, e non sulla misura di noi stessi e delle nostre idee. Questa pienezza scaturisce da una tensione continua che costringe le relazioni cristiane a un confronto costante nella prospettiva della verità, evitando il rischio di accomodamenti il cui risultato sarebbe al massimo quello di un buon consorzio umano. È dunque Dio baricentro e punto-limite di ogni sistema relazionale costruito sulla tenerezza.

Veniamo così al secondo lemma del nostro ragionare: la verità e la pace. 

Dunque non c'è pace senza verità, proprio come non è da confondersi la tenerezza con un vago sentimentalismo. Se la possibilità di esperire la misericordia e la tenerezza possono essere realmente feconde solo se radicate nell'incontro profondo con il Signore, che “è Via, Verità e Vita”, così la pace è duratura e fruttuosa se cerca la verità e gode della libertà. Una verità che non è statica e che sa confrontarsi con le circostanze del proprio tempo trovando le giuste modalità per comunicarsi al mondo. Di conseguenza la pace richiede che sia garantito ad ogni uomo e donna il diritto e dovere di cercare la verità, ossia la libertà religiosa, spesso confusa con la libertà di culto e quindi ridotta a scelta personale senza nessuna ripercussione sociale.

La pace è il coraggio di quella misericordia che non teme aperture e confronti perché si radica nella Verità più profonda che è Cristo Signore: per questo la Chiesa diviene capace di portare la verità di Gesù a chiunque e suscitare conversioni. L'esperienza di Gesù che salva, così come è scaturigine dell'esperienza ecclesiale, partecipa ogni cristiano a quella serenità che nulla fa temere. Sicut mater, scriveva san Francesco a frate Leone, colui chiamato “pecorella di Dio” e che chiedeva una guida: Francesco dispone e accoglie, e scegliendo la povertà sotto ogni punto di vista, esteriore e interiore, unisce custodia e governo, tenerezza e decisione, maternità e paternità. 

Pensare la misericordia così intrisa di tenerezza porta il pensiero a guadagnare quell'umiltà con cui il Poverello di Assisi conquistò il mondo. Il pensiero debole ha perso se stesso tentando di sconfiggere il pensiero forte. Che si guadagni ora quel pensiero umile che sappia unire Verità e Vit a per far correre il Vangelo sulle vie del mondo. Grazie, papa Francesco.

[Cfr. Flavia Marcacci, Tenerezza nella verità per un pensiero umile, in Italia francescana 88 (2013), p. 20-23.]