Lo scorso 30 ottobre, presso la sala congressi della Fondazione Santa Lucia, a Roma, numerosi spettatori hanno assistito attoniti alla proiezione del film Il cuore dell’assassino. Pellicola che si snoda attorno alla straordinaria storia di un fanatico indù che, dopo aver ucciso brutalmente suor Rani Maria Vattalil, missionaria francescana in India, viene perdonato dalla famiglia della religiosa e persino accolto in casa come un figlio o un fratello. A margine della proiezione, ZENIT ha avuto modo di rivolgere qualche domanda alla regista Catherine McGilvray, presente in sala insieme a padre Swami Sadanand, il sacerdote che ha seguito spiritualmente il giovane omicida dopo l’arresto, e suor Selmy Paul, sorella della religiosa assassinata.

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Avete trovato difficoltà nel girare questo film?

Sicuramente noi abbiamo dovuto procedere con delicatezza; ci siamo concentrati sull’aspetto positivo e spirituale di questa storia perché addentrarci sull’aspetto dei mandanti di questo omicidio, tutt’ora liberi, avrebbe potuto creare problemi alle consorelle che vivono lì. Abbiamo dovuto osservare una certa discrezione per non turbare un equilibrio già precario. La realizzazione ha richiesto 3 viaggi in India in 4 anni. La sensazione di pericolo che ho avuto nel 2009 come occidentale e come cristiana ospitata dalle suore in convento, ora è migliorata. La popolazione ha capito, grazie a Suor Rani e alla scuola a lei intitolata, che in realtà i missionari e le missionarie non sono lì per convertire a forza, come era stato fatto credere dai potenti locali per sfruttare l’ignoranza. I missionari sono lì per aiutare, per dare un’educazione ai bambini, stanno svolgendo un lavoro utile per la comunità.

Quando ha letto questa storia, cosa le ha dato una forza in più per affrontare questo viaggio?

Ho sentito la necessità di raccontare una storia che per una volta, invece di farci vedere solo gli aspetti negativi dello scontro, della vendetta e del sangue, raccontasse come è possibile rovesciare l’odio in amore. È una possibilità umana, e i protagonisti di questa storia ne sono la prova vivente.

Secondo lei in che modo un non credente può far proprio questo messaggio?

Questo film è stato visto finora da credenti e non credenti. Il messaggio spirituale è assolutamente valido anche per chi non ha una sua fede, ma magari ha fede nell’umanità, nella sua parte più nobile. Come raccontava padre Shamy (durante la conferenza a margine della proiezione del film, ndr), se un cane abbaia gli altri cani abbaiano. L’uomo ha la possibilità di scegliere, di non reagire all’offesa, alla provocazione e alla crudeltà rovesciando la propria reazione naturale in una risposta più alta. E questo vale per tutti! È chiaro che chi ha fede è “avvantaggiato” perché la forza la chiede a Dio, chi non crede la forza la deve trovare nella sua fede in un’umanità più alta, positiva e rispettosa della vita degli altri. Questo film può aiutare a capire che si può perdonare, cominciando magari da quelle tante piccole cose quotidiane che ci sembrano imperdonabili ma non lo sono.