CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 3 marzo 2006 (ZENIT.org).- Il 2 marzo 2006, nell’Aula della Benedizione del Palazzo Apostolico Vaticano, Benedetto XVI ha incontrato il Clero della Diocesi di Roma per il tradizionale appuntamento di inizio Quaresima.
Di seguito riportiamo il testo improvvisato - in due tempi - dal Papa in risposta alle considerazioni dei sacerdoti romani intervenuti.
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Parlo subito, altrimenti il mio monologo diventa troppo lungo, se aspetto che si concludano tutti gli interventi. Vorrei innanzitutto esprimere la mia gioia di essere qui con voi, cari Sacerdoti di Roma. È una gioia reale: quella di vedere tanti buoni pastori a servizio del «Buon Pastore» qui, nella prima Sede della Cristianità, nella Chiesa che «presiede alla carità» e che deve essere modello delle altre Chiese locali. Grazie per il vostro servizio!
Abbiamo il luminoso esempio di Don Andrea, che ci mostra l'«essere» sacerdote sino in fondo: morire per Cristo nel momento della preghiera e così testimoniare, da una parte, l'interiorità della propria vita con Cristo e, dall'altra, la propria testimonianza per gli uomini in un punto realmente «panperiferico» del mondo, circondato dall'odio e dal fanatismo di altri. È una testimonianza che ispira tutti a seguire Cristo, a dare la vita per gli altri e a trovare proprio così la Vita.
Riguardo al primo intervento, rivolgo, innanzitutto un grande grazie per questa meravigliosa poesia! Ci sono anche poeti ed artisti nella Chiesa di Roma, nel presbiterio di Roma, e avrò ancora la possibilità di meditare, di interiorizzare queste belle parole e di tener presente che questa «finestra» è sempre «aperta». Forse è questa l'occasione per ricordare l'eredità fondamentale del grande Papa Giovanni Paolo II, per continuare ad assimilare sempre più questa eredità.
Ieri abbiamo dato inizio alla Quaresima. La Liturgia di oggi ci offre una profonda indicazione del significato essenziale della Quaresima: è un indicatore di strada per la nostra vita. Perciò mi sembra — parlo riferendomi a Papa Giovanni Paolo II — che dobbiamo insistere un po' sulla prima Lettura della giornata di oggi. Il grande discorso di Mosè sulla soglia della Terra Santa, dopo i quarant'anni del pellegrinaggio nel deserto, è un riassunto di tutta la Torah, di tutta la Legge. Troviamo qui l'essenziale non solo per il popolo ebraico ma anche per noi. Questo essenziale è la parola di Dio: «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita» (Dt 30,19). Questa parola fondamentale della Quaresima è anche la parola fondamentale dell'eredità del nostro grande Papa Giovanni Paolo II: scegliere la vita. Questa è la nostra vocazione sacerdotale: scegliere noi stessi la vita e aiutare gli altri a scegliere la vita. Si tratta di rinnovare nella Quaresima la nostra, per così dire, «opzione fondamentale», l'opzione per la vita.
Ma, nasce subito la questione: come si sceglie la vita? come si fa? Riflettendo, mi è venuto in mente che la grande defezione dal Cristianesimo realizzatasi nell'Occidente negli ultimi cento anni, è stata attuata proprio in nome dell'opzione per la vita. È stato detto — penso a Nietzsche ma anche a tanti altri — che il Cristianesimo è una opzione contro la vita. Con la Croce, con tutti i Comandamenti, con tutti i «No» che ci propone, ci chiude la porta della vita. Ma noi, vogliamo avere la vita, e scegliamo, optiamo, finalmente, per la vita liberandoci dalla Croce, liberandoci da tutti questi Comandamenti e da tutti questi «No». Vogliamo avere la vita in abbondanza, nient'altro che la vita. Qui subito viene in mente la parola del Vangelo di oggi: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà» ( Lc 9, 24). Questo è il paradosso che dobbiamo innanzitutto tener presente nell'opzione per la vita. Non arrogandoci la vita per noi ma solo dando la vita, non avendola e prendendola, ma dandola, possiamo trovarla. Questo è il senso ultimo della Croce: non prendere per sé ma dare la vita.
Così, Nuovo e Vecchio Testamento vanno insieme. Nella prima Lettura del Deuteronomio la risposta di Dio è: «Io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva» (30, 16). Questo, a prima vista non ci piace, ma è la strada: l'opzione per la vita e l'opzione per Dio sono identiche. Il Signore lo dice nel Vangelo di San Giovanni: «Questa è la vita eterna: che conoscano te» (Gv 17, 3). La vita umana è una relazione. Solo in relazione, non chiusi in noi stessi, possiamo avere la vita. E la relazione fondamentale è la relazione col Creatore, altrimenti le altre relazioni sono fragili. Scegliere Dio, quindi: questo è essenziale. Un mondo vuoto di Dio, un mondo che ha dimenticato Dio, perde la vita e cade in una cultura di morte. Scegliere la vita, fare l'opzione per la vita, quindi, è, innanzitutto, scegliere l’opzione-relazione con Dio. Ma, subito nasce la questione: con quale Dio? Qui, di nuovo, ci aiuta il Vangelo: con quel Dio che ci ha mostrato il suo volto in Cristo, con quel Dio che ha vinto l'odio sulla Croce, cioè nell'amore sino alla fine. Così, scegliendo questo Dio, scegliamo la vita.
Il Papa Giovanni Paolo II ci ha donato la grande Enciclica
Evangelium vitae . In essa — è quasi un ritratto dei problemi della cultura odierna, delle speranze e dei pericoli — diviene visibile che una società che dimentica Dio, che esclude Dio e, proprio per avere la vita, cade in una cultura di morte. Proprio volendo avere la vita si dice «No» al bambino, perché mi toglie qualche parte della mia vita; si dice «No» al futuro, per avere tutto il presente; si dice «No» sia alla vita che nasce sia alla vita sofferente, che va verso la morte. Questa apparente cultura della vita diventa la anti-cultura della morte, dove Dio è assente, dove è assente quel Dio che non ordina l'odio ma vince l'odio. Qui facciamo la vera opzione per la vita. Tutto, allora, è connesso: la più profonda opzione per Cristo Crocifisso con la più completa opzione per la vita, dal primo momento fino all'ultimo momento.
Questo, mi sembra, in qualche modo, anche il nucleo della nostra pastorale: aiutare a fare una vera opzione per la vita, rinnovare la relazione con Dio come la relazione che ci dà vita e ci mostra la strada per la vita. E così amare di nuovo Cristo, che dall'Essere più ignoto, al quale non arrivavamo e che rimaneva enigmatico, si è reso un Dio noto, un Dio dal volto umano, un Dio che è amore. Teniamo presente proprio questo punto fondamentale per la vita e consideriamo che in questo programma è presente tutto il Vangelo, dall'Antico al Nuovo Testamento, che ha come centro Cristo. La Quaresima, per noi stessi, dovrebbe essere il tempo per rinnovare la nostra conoscenza di Dio, la nostra amicizia con Gesù, per essere così capaci di guidare gli altri in modo convincente alla opzione per la vita, che è innanzitutto opzione per Dio. A noi stessi deve risultare chiaro che scegliendo Cristo non abbiamo scelto la negazione della vita, ma abbiamo scelto realmente la vita in abbondanza.
L'opzione cristiana è, in fondo, molto semplice: è l'opzione del «Sì» alla vita. Ma questo «Sì», si realizza solo con un Dio non ignoto, con un Dio dal volto umano. Si realizza seguendo questo Dio nella comunione dell'amore. Quanto ho fin qui detto vuol essere un modo di rinnovare il nostro ricordo nei riguardi del grande Papa Giovanni Paolo II.
Veniamo al secondo intervento, così simpatico, a proposito delle mamme. Direi che adesso non posso comunicare grandi programmi, parole che potrete dire alle mamme. Dite semplicemente: il Papa vi ringrazia! Vi ringrazia perché avete donato la vita, perché volete aiutare questa vita che cresce e volete così costruire un mondo umano, contribuendo ad un futuro umano. E lo fate non dando solo la vita b
iologica, ma comunicando il centro della vita, facendo conoscere Gesù, introducendo i vostri bambini alla conoscenza di Gesù, all'amicizia con Gesù. Questo è il fondamento di ogni catechesi. Quindi bisogna ringraziare le mamme soprattutto perché hanno avuto il coraggio di dare la vita. E bisogna pregare le mamme perché completino questo loro dare la vita dando l'amicizia con Gesù.
Il terzo intervento era del Rettore della chiesa di sant'Anastasia. Qui, forse, posso dire, tra parentesi, che la chiesa di sant'Anastasia mi era già cara prima di averla vista, perché era la chiesa titolare del nostro Cardinale de Faulhaber. Egli ci ha sempre fatto sapere che a Roma aveva una sua chiesa, quella di sant'Anastasia. Con questa comunità ci siamo sempre incontrati in occasione della seconda Messa di Natale, dedicata alla «stazione» di sant'Anastasia. Gli storici dicono che là, il Papa, doveva visitare il Governatore bizantino, che lì aveva la sede. La chiesa ci fa pensare anche a quella santa e così anche all'«
Anastasis»: a Natale pensiamo anche alla Risurrezione. Non sapevo, e sono grato di esserne stato informato, che adesso la chiesa è sede dell'«Adorazione perpetua»; è quindi un punto focale della vita di fede a Roma. Questa proposta di creare nei cinque Settori della Diocesi di Roma, cinque luoghi di Adorazione perpetua, la pongo fiduciosamente nelle mani del Cardinale Vicario. Vorrei soltanto dire: grazie a Dio, perché dopo il Concilio, dopo un periodo in cui mancava un po' il senso dell'adorazione eucaristica, è rinata la gioia di questa adorazione dappertutto nella Chiesa, come abbiamo visto e sentito nel Sinodo sull'Eucaristia. Certo, con la Costituzione conciliare sulla Liturgia, è stata riscoperta soprattutto tutta la ricchezza dell'Eucaristia celebrata, dove si realizza il testamento del Signore: Egli si dà a noi e noi rispondiamo dandoci a Lui. Ma, adesso, abbiamo riscoperto che questo centro che ci ha donato il Signore nel poter celebrare il suo sacrificio e così entrare in comunione sacramentale, quasi corporale, con Lui perde la sua profondità e anche la sua ricchezza umana se manca l'Adorazione, come atto conseguente alla comunione ricevuta: l’adorazione è un entrare con la profondità del nostro cuore in comunione con il Signore che si fa presente corporalmente nell'Eucaristia. Nell'Ostensorio si dà sempre nelle nostre mani e ci invita ad unirci alla sua Presenza, al suo Corpo risorto.
Adesso, veniamo alla quarta domanda. Se ho capito bene, ma non ne sono sicuro, era: «come arrivare ad una fede viva, ad una fede realmente cattolica, ad una fede concreta, vivace, efficiente?». La fede, in ultima istanza, è un dono. Quindi la prima condizione è lasciarsi donare qualcosa, non essere autosufficienti, non fare tutto da noi, perché non lo possiamo, ma aprirci nella consapevolezza che il Signore dona realmente. Mi sembra che questo gesto di apertura sia anche il primo gesto della preghiera: essere aperto alla presenza del Signore e al suo dono. È questo anche il primo passo nel ricevere una cosa che noi non facciamo e che non possiamo avere, nell'intento di farla da noi stessi. Questo gesto di apertura, di preghiera — donami la fede, Signore! — deve essere realizzato con tutto il nostro essere. Noi dobbiamo entrare in questa disponibilità di accettare il dono e di lasciarci permeare dal dono nel nostro pensiero, nel nostro affetto, nella nostra volontà. Qui, mi sembra molto importante sottolineare un punto essenziale: nessuno crede solo da se stesso. Noi crediamo sempre in e con la Chiesa. Il credo è sempre un atto condiviso, un lasciarsi inserire in una comunione di cammino, di vita, di parola, di pensiero. Noi non "facciamo" la fede, nel senso che è anzitutto Dio che la dà. Ma, non la "facciamo" anche nel senso che essa non dev’essere inventata da noi. Dobbiamo lasciarci cadere, per così dire, nella comunione della fede, della Chiesa. Credere è un atto cattolico in sé. È partecipazione a questa grande certezza, che è presente nel soggetto vivente della Chiesa. Solo così possiamo anche capire la Sacra Scrittura nella diversità di una lettura che si sviluppa per mille anni. È una Scrittura, perché è elemento, espressione dell'unico soggetto — il Popolo di Dio — che nel suo pellegrinaggio è sempre lo stesso soggetto. Naturalmente, è un soggetto che non parla da sé, ma è un soggetto creato da Dio — l'espressione classica è «ispirato» —, un soggetto che riceve, poi traduce e comunica questa parola. Questa sinergia è molto importante. Sappiamo che il Corano, secondo la fede islamica, è parola verbalmente data da Dio, senza mediazione umana. Il Profeta non c'entra. Egli solo l'ha scritta e comunicata. È pura parola di Dio. Mentre per noi, Dio entra in comunione con noi, ci fa cooperare, crea questo soggetto e in questo soggetto cresce e si sviluppa la sua parola. Questa parte umana è essenziale, e ci dà anche la possibilità di vedere come le singole parole diventano realmente Parola di Dio solo nell'unità di tutta la Scrittura nel soggetto vivente del popolo di Dio. Quindi, il primo elemento è il dono di Dio; il secondo è la compartecipazione nella fede del popolo pellegrinante, la comunicazione nella Santa Chiesa, la quale, da parte sua, riceve il Verbo di Dio, che è il Corpo di Cristo, animato dalla Parola vivente, dal Logos divino. Dobbiamo approfondire, giorno dopo giorno, questa nostra comunione con la Santa Chiesa e così con la Parola di Dio. Non sono due cose opposte, così che io possa dire: sono più per la Chiesa o sono più per la Parola di Dio. Solo unitamente si è nella Chiesa, si fa parte della Chiesa, si diventa membri della Chiesa, si vive della Parola di Dio, che è la forza di vita della Chiesa. E chi vive della Parola di Dio può viverla solo perché è viva e vitale nella Chiesa vivente.
Il quinto intervento era su Pio XII. Grazie per questo intervento. Era il Papa della mia gioventù. Lo abbiamo venerato tutti. Come è stato detto giustamente, egli ha molto amato il popolo tedesco, lo ha difeso anche nella grande catastrofe dopo la guerra. E devo aggiungere che prima di essere Nunzio a Berlino era Nunzio a Monaco, perché inizialmente a Berlino non aveva ancora la Rappresentanza Pontificia. Era proprio anche vicino a noi. Mi sembra, questa, l'occasione per esprimere gratitudine a tutti i grandi Papi del secolo scorso. Si è aperto il secolo con il santo Pio X, poi Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II. Mi sembra che questo sia un dono speciale in un secolo così difficile, con due guerre mondiali, con due ideologie distruttive: fascismo-nazismo e comunismo. Proprio in questo secolo, che si è opposto alla fede della Chiesa, il Signore ci ha dato una catena di grandi Papi, e così un'eredità spirituale che ha confermato, direi, storicamente, la verità del Primato del Successore di Pietro.
Il successivo intervento dedicato alla famiglia, era del parroco di santa Silvia. Qui posso soltanto essere totalmente d'accordo. Anche nelle visite «
ad limina» parlo sempre con i Vescovi della famiglia, minacciata, in diversi modi, nel mondo. È minacciata in Africa, perché si trova difficilmente il passaggio dal «
mariage coutumier» al «
mariage religieux », perché si teme la definitività.
Mentre in Occidente la paura del bambino è motivata dal timore di perdere qualcosa della vita, lì è il contrario: finché non consta che la moglie avrà anche bambini, non si può osare il matrimonio definitivo. Perciò il numero dei matrimoni religiosi rimane relativamente piccolo e molti anche "buoni" cristiani, anche con un'ottima volontà di essere cristiani, non compiono quest'ultimo passo. Il matrimonio è minacciato anche in America Latina, per altri motivi, ed è minacciato fortemente, come sappiamo, in Occidente. Tanto più dobbiamo, noi come Chiesa, aiutare le famiglie che sono la cellula fondamentale di ogni società sana. Solo così nella famiglia può crearsi una comunione delle generazioni, nella quale la memori
a del passato vive nel presente e si apre al futuro. Così, realmente, continua e si sviluppa la vita e va avanti. Un vero progresso non è possibile senza questa continuità di vita e, di nuovo, non è possibile senza l'elemento religioso. Senza la fiducia in Dio, senza la fiducia in Cristo che ci dona anche la capacità della fede e della vita, la famiglia non può sopravvivere. Lo vediamo oggi. Solo la fede in Cristo e solo la compartecipazione della fede della Chiesa salva la famiglia e, d'altra parte, solo se viene salvata la famiglia anche la Chiesa può vivere. Io adesso non ho la ricetta di come fare questo. Ma, mi sembra, che dobbiamo sempre tenerlo presente. Perciò dobbiamo fare tutto ciò che favorisce la famiglia: circoli familiari, catechesi familiari, insegnare la preghiera in famiglia. Questo mi sembra molto importante: dove si prega insieme, si rende presente il Signore, si rende presente questa forza che può anche rompere la «sclerocardia», quella durezza del cuore che, secondo il Signore, è il vero motivo del divorzio. Nient'altro, solo la presenza del Signore ci aiuta a vivere realmente quanto era dall'inizio voluto dal Creatore e rinnovato dal Redentore. Insegnare la preghiera familiare e così invitare alla preghiera con la Chiesa. E trovare poi tutti gli altri modi.
Rispondo ora al vice Parroco di san Girolamo — vedo che è anche molto giovane — che ci parla di quanto fanno le donne nella Chiesa, anche proprio per i sacerdoti. Posso solo sottolineare che mi fa sempre grande impressione, nel primo Canone , quello Romano, la speciale preghiera per i sacerdoti: «
Nobis quoque peccatoribus ». Ecco, in questa umiltà realistica dei sacerdoti noi, proprio come peccatori, preghiamo il Signore perché ci aiuti ad essere suoi servi. In questa preghiera per il sacerdote, proprio solo in questa, appaiono sette donne che circondano il sacerdote. Esse si mostrano proprio come le donne credenti che ci aiutano nel nostro cammino. Ognuno ha certamente questa esperienza. E così la Chiesa ha un grande debito di ringraziamento per le donne. E giustamente Lei ha sottolineato che, a livello carismatico, le donne fanno tanto, oserei dire, per il governo della Chiesa, cominciando dalle suore, dalle sorelle dei grandi Padri della Chiesa, come sant'Ambrogio, fino alle grandi donne del medioevo — santa Ildegarda, santa Caterina da Siena, poi santa Teresa d'Avila — e fino a Madre Teresa. Direi che questo settore carismatico certamente si distingue dal settore ministeriale nel senso stretto della parola, ma è una vera e profonda partecipazione al governo della Chiesa. Come si potrebbe immaginare il governo della Chiesa senza questo contributo, che talvolta diventa molto visibile, come quando santa Ildegarda critica i Vescovi, o come quando santa Brigida e santa Caterina da Siena ammoniscono e ottengono il ritorno dei Papi a Roma? Sempre è un fattore determinante, senza il quale la Chiesa non può vivere. Tuttavia, giustamente Lei dice: vogliamo vedere anche più visibilmente in modo ministeriale le donne nel governo della Chiesa. Diciamo che la questione è questa. Il ministero sacerdotale dal Signore è, come sappiamo, riservato agli uomini, in quanto il ministero sacerdotale è governo nel senso profondo che, in definitiva, è il Sacramento che governa la Chiesa. Questo è il punto decisivo. Non è l'uomo che fa qualcosa, ma il sacerdote fedele alla sua missione governa, nel senso che è il Sacramento, cioè mediante il Sacramento è Cristo stesso che governa, sia tramite l'Eucaristia che negli altri Sacramenti, e così sempre Cristo presiede. Tuttavia, è giusto chiedersi se anche nel servizio ministeriale — nonostante il fatto che qui Sacramento e carisma siano il binario unico nel quale si realizza la Chiesa — non si possa offrire più spazio, più posizioni di responsabilità alle donne.
Non ho del tutto capito le parole dell'ottavo intervento. Sostanzialmente ho capito che oggi l'umanità camminando da Gerusalemme a Gerico incontra sul cammino i ladri. Il Buon Samaritano l'aiuta con la misericordia del Signore. Possiamo solo sottolineare che, alla fine, è l'uomo che è caduto e cade sempre di nuovo tra i ladri, ed è Cristo che ci guarisce. Noi dobbiamo e possiamo aiutarlo, sia nel servizio dell'amore sia nel servizio della fede che è anche un ministero di amore.
Poi i Martiri dell'Uganda. Grazie per questo contributo. Ci fa pensare al Continente africano, che è la grande speranza della Chiesa. Ho ricevuto negli ultimi mesi gran parte dei Vescovi africani in visita «
ad limina». E per me è stato molto edificante, ed anche consolante, vedere Vescovi di alto livello teologico e culturale, Vescovi zelanti, che realmente sono animati dalla gioia della fede. Sappiamo che è in buone mani questa Chiesa, ma che tuttavia soffre perché le Nazioni ancora non si sono formate. In Europa era proprio tramite il Cristianesimo che, oltre le etnie che esistevano, si sono formati i grandi corpi delle Nazioni, le grandi lingue, e così comunioni di culture e spazi di pace, benché poi questi grandi spazi di pace opposti tra di loro abbiano creato anche una nuova specie di guerra che prima non esisteva. Tuttavia, in Africa, abbiamo ancora in molte parti questa situazione, dove ci sono soprattutto le etnie dominanti. Il potere coloniale poi ha imposto frontiere nelle quali adesso devono formarsi Nazioni. Ma ancora c'è questa difficoltà di ritrovarsi in un grande insieme e di trovare, oltre le etnie, l'unità del governo democratico e anche la possibilità di opporsi agli abusi coloniali che continuano. Ancora, sempre da parte delle grandi potenze, l'Africa continua ad essere oggetto di abuso e molti conflitti non avrebbero assunto questa forma se non ci fossero dietro gli interessi delle grandi potenze. Così ho visto anche come la Chiesa, in tutta questa confusione, con la sua unità cattolica, è il grande fattore che unisce nella dispersione. In molte situazioni, adesso soprattutto dopo la grande guerra nella Repubblica Democratica del Congo, la Chiesa è rimasta l'unica realtà che funziona e che fa continuare la vita, dà l'assistenza necessaria, garantisce la convivenza e aiuta a trovare la possibilità di realizzare un grande insieme. In tal senso, in queste situazioni, la Chiesa svolge anche un servizio sostitutivo del livello politico, dando la possibilità di vivere insieme, e di ricostruire, dopo le distruzioni, la comunione, così come di ricostruire, dopo lo scoppio dell'odio, lo spirito di riconciliazione. Molti mi hanno detto che proprio in queste situazioni il Sacramento della Penitenza è di grande importanza come forza di riconciliazione e deve essere anche amministrato in questo senso. Volevo, con una parola, dire che l'Africa è un Continente di grande speranza, di grande fede, di realtà ecclesiali commoventi, di sacerdoti e di Vescovi zelanti. Ma è sempre anche un Continente che ha bisogno — dopo le distruzioni che vi abbiamo portato dall'Europa — del nostro fraterno aiuto. Ed esso non può non nascere dalla fede, che crea anche la carità universale oltre le divisioni umane. Questa è la nostra grande responsabilità in questo tempo. L'Europa ha importato le sue ideologie, i suoi interessi, ma ha anche importato con la missione il fattore della guarigione. Ancor più, oggi, abbiamo la responsabilità di avere anche noi una fede zelante, che si comunica, che vuole aiutare gli altri, che è ben consapevole che dare la fede non è introdurre una forza di alienazione ma è dare il vero dono del quale ha bisogno l'uomo proprio per essere anche creatura dell'amore.
Ultimo punto era quello toccato dal vice Parroco carmelitano di santa Teresa d'Avila, che ci ha rivelato giustamente le sue preoccupazioni. Sarebbe certamente sbagliato un semplice e superficiale ottimismo, che non si accorge delle grandi minacce nei confronti della gioventù di oggi, i bambini, le famiglie. Dobbiamo percepire con grande realismo queste minacce, che nascono dove Dio è assente. Dobbiamo sentire sempre più la nostra responsabilità, affinché Dio sia presente, e così la speranza
e la capacità di andare con fiducia verso il futuro.
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Riprendo ora la parola, cominciando con la Pontificia Accademia. Quanto Lei ha detto sul problema degli adolescenti, sulla loro solitudine e sull'incomprensione da parte degli adulti, lo tocchiamo con mano, oggi. È interessante che questa gioventù, che cerca nelle discoteche di essere vicinissima, soffra in realtà di una grande solitudine, e naturalmente anche di incomprensione. Mi sembra questo, in un certo senso, espressione del fatto che i padri, come è stato detto, in gran parte sono assenti dalla formazione della famiglia. Ma anche le madri devono lavorare fuori casa. La comunione tra loro è molto fragile. Ognuno vive il suo mondo: sono isole del pensiero, del sentimento, che non si uniscono. Il grande problema proprio di questo tempo — nel quale ognuno, volendo avere la vita per sé, la perde perché si isola e isola l'altro da sé — è di ritrovare la profonda comunione che alla fine può venire soltanto da un fondo comune a tutte le anime, dalla presenza divina che ci unisce tutti.
Mi sembra che la condizione sia di superare la solitudine e anche di superare l'incomprensione, perché anche quest'ultima è il risultato del fatto che il pensiero oggi è frammentato. Ognuno cerca il suo modo di pensare, di vivere, e non c'è una comunicazione in una profonda visione della vita. La gioventù si sente esposta a nuovi orizzonti non partecipati dalla generazione precedente perché manca la continuità della visione del mondo, preso in una sequela sempre più rapida di nuove invenzioni. In dieci anni si sono realizzati cambiamenti che in passato neppure in cento anni si erano verificati. Così si separano realmente mondi. Penso alla mia gioventù e all'ingenuità, se così posso dire, nella quale abbiamo vissuto, in una società del tutto agraria in confronto con la società di oggi. Vediamo come il mondo cambia sempre più rapidamente, cosicché si frammenta anche con questi cambiamenti. Perciò, in un momento di rinnovamento e di cambiamento, l'elemento del permanente diventa più importante. Mi ricordo quando è stata discussa la Costituzione conciliare
Gaudium et spes.
Da una parte, c'era il riconoscimento del nuovo, della novità, il «Sì» della Chiesa all'epoca nuova con le sue innovazioni, il «No» al romanticismo del passato, un «No» giusto e necessario. Ma poi i Padri — se ne trova la prova anche nel testo — hanno detto anche che nonostante questo, nonostante la necessaria disponibilità ad andare avanti, a lasciar cadere anche altre cose che ci erano care, c'è qualcosa che non cambia, perché è l'umano stesso, la creaturalità. L'uomo non è del tutto storico. L'assolutizzazione dello storicismo, nel senso che l'uomo sarebbe solo e sempre creatura frutto di un certo periodo, non è vera. C'è la creaturalità e proprio essa ci dà la possibilità anche di vivere nel cambiamento e di rimanere identici a noi stessi. Questa non è una risposta immediata a quello che dobbiamo fare, ma, mi sembra, che il primo passo, sia quello di avere la diagnosi. Perché questa solitudine in una società che d'altra parte appare come una società di massa? Perché questa incomprensione in una società nella quale tutti cercano di capirsi, dove la comunicazione è tutto e dove la trasparenza di tutto a tutti è la suprema legge? La risposta sta nel fatto che vediamo il cambiamento nel nostro proprio mondo e non viviamo sufficientemente quell'elemento che ci collega tutti, l'elemento creaturale, che diventa accessibile e diventa realtà in una certa storia: la storia di Cristo, che non sta contro la creaturalità ma restituisce quanto era voluto dal Creatore, come dice il Signore circa il matrimonio. Il cristianesimo, proprio sottolineando la storia e la religione come un dato storico, dato in una storia, a cominciare da Abramo, e quindi come una fede storica, avendo aperto proprio la porta alla modernità con il suo senso del progresso, dell'andare permanentemente avanti, è anche, nello stesso momento, una fede che si basa sul Creatore, che si rivela e si rende presente in una storia alla quale dà la sua continuità, quindi la comunicabilità tra le anime. Penso quindi, anche qui, che una fede vissuta in profondità e con tutta l'apertura verso l'oggi, ma anche con tutta l'apertura verso Dio, unisce le due cose: il rispetto della alterità e della novità, e la continuità del nostro essere, la comunicabilità tra le persone e tra i tempi.
L'altro punto era: come possiamo noi vivere la vita come dono? È una questione che poniamo soprattutto adesso, in Quaresima. Vogliamo rinnovare l'opzione per la vita che è, come ho detto, opzione non per possedere se stessi ma per donare se stessi. Mi sembra che possiamo farlo solo grazie ad un permanente colloquio col Signore e al colloquio tra di noi. Anche con la «
correctio fraterna» è necessario maturare sempre più di fronte ad una sempre insufficiente capacità di vivere il dono di se stessi. Ma, mi sembra, che dobbiamo anche qui unire le due cose. Da una parte, dobbiamo accettare la nostra insufficienza con umiltà, accettare questo «Io» che non è mai perfetto ma si protende sempre verso il Signore per arrivare alla comunione col Signore e con tutti.
Questa umiltà di accettare anche i propri limiti è molto importante. Solo così, d'altra parte, possiamo anche crescere, maturare e pregare il Signore perché ci aiuti a non stancarci nel cammino, pur accettando con umiltà che mai saremo perfetti, accettando anche l'imperfezione, soprattutto dell'altro. Accettando la propria possiamo accettare più facilmente quella dell'altro, lasciandoci formare e riformare sempre di nuovo, dal Signore.
Ora gli ospedali. Grazie per il saluto che viene dagli ospedali. Non conoscevo la mentalità secondo la quale un sacerdote si trova a svolgere il suo ministero in ospedale perché ha compiuto qualcosa di male... Ho sempre pensato che è servizio primario del sacerdote quello di servire i malati, i sofferenti, perché il Signore è venuto soprattutto per stare con i malati. È venuto per condividere le nostre sofferenze e per guarirci. In occasione delle visite «
ad limina» ai Vescovi africani dico sempre che le due colonne del nostro lavoro sono l'educazione — cioè la formazione dell'uomo, che implica tante dimensioni come l'educazione per imparare, la professionalità, l'educazione nell'intimità della persona — e la guarigione. Il servizio fondamentale, essenziale della Chiesa è dunque quello di guarire. E proprio nei Paesi africani si realizza tutto questo: la Chiesa offre la guarigione. Presenta le persone che aiutano i malati, aiutano a guarire nel corpo e nell'anima. Mi sembra, quindi, che dobbiamo vedere proprio nel Signore il nostro modello di sacerdote per guarire, per aiutare, per assistere, per accompagnare verso la guarigione. Ciò è fondamentale per l'impegno della Chiesa; è forma fondamentale dell'amore e quindi, è espressione fondamentale della fede. Di conseguenza anche nel sacerdozio è il punto centrale.
Poi, rispondo al Vice parroco dei santi Patroni d'Italia che ci ha parlato del dialogo con gli Ortodossi e del dialogo ecumenico in generale. Nella situazione mondiale di oggi, vediamo come il dialogo a tutti i livelli sia fondamentale. Ancor di più è importante che i cristiani non siano chiusi tra di loro ma aperti, e proprio nei rapporti con gli Ortodossi vedo come le relazioni personali siano fondamentali. In dottrina siamo in gran parte uniti su tutte le cose fondamentali, tuttavia in dottrina sembra molto difficile fare dei progressi. Ma avvicinarci nella comunione, nelle comune esperienza della vita della fede, è il modo per riconoscerci reciprocamente come figli di Dio e discepoli di Cristo. E questa è la mia esperienza da almeno quaranta, cinquant' anni quasi: questa esperienza del comune discepolato, che finalmente viviamo nella stessa fede, nella stessa successione apostolica, con gli stessi sacramenti e quindi anche con la grande tradizione di pregare; è bella questa diversità e molteplic
ità delle culture religiose, della culture di fede. Avere questa esperienza è fondamentale e mi sembra, forse, che la convinzione di alcuni, di una parte dei monaci dell'Athos contro l'ecumenismo, risulti anche dal fatto che manchi questa esperienza nella quale si vede e si tocca che anche l'altro appartiene allo stesso Cristo, appartiene alla stessa comunione con Cristo nell'Eucaristia. Quindi questo è di grande importanza: dobbiamo sopportare la separazione che esiste. San Paolo dice che gli scismi sono necessari per un certo tempo e il Signore sa perché: per provarci, per esercitarci, per farci maturare, per farci più umili. Ma nello stesso tempo siamo obbligati ad andare verso l'unità e già andare verso l'unità è una forma di unità.
Veniamo ora al Padre spirituale del Seminario. Il primo problema era la difficoltà della carità pastorale. La viviamo da una parte, ma dall'altra parte vorrei anche dire: coraggio. La Chiesa fa tanto grazie a Dio, in Africa ma anche a Roma e in Europa! Fa tanto e tanti le sono grati, sia nel settore della pastorale degli ammalati, sia nella pastorale dei poveri e degli abbandonati. Continuiamo con coraggio e cerchiamo di trovare insieme le strade migliori. L'altro punto era incentrato sul fatto che la formazione sacerdotale tra generazioni, anche vicine, sembra essere per molti un po' diversa, e questo complica il comune impegno per la trasmissione della fede. Ho notato questo quando ero Arcivescovo di Monaco. Quando noi siamo entrati in seminario, abbiamo avuto tutti una comune spiritualità cattolica, più o meno matura. Diciamo che il fondamento spirituale era comune. Adesso vengono da esperienze spirituali molto diverse. Ho constatato nel mio seminario che vivevano in diverse «isole» di spiritualità che comunicavano difficilmente. Tanto più ringraziamo il Signore perché ha dato tanti nuovi impulsi alla Chiesa e tante nuove forme anche di vita spirituale, di scoperta della ricchezza della fede. Bisogna soprattutto non trascurare la comune spiritualità cattolica, che si esprime nella Liturgia e nella grande Tradizione della fede. Questo mi sembra molto importante. Questo punto è importante anche riguardo al Concilio. Non bisogna vivere — come ho detto prima di Natale alla Curia Romana — l'ermeneutica della discontinuità, ma vivere l'ermeneutica del rinnovamento, che è spiritualità della continuità, dell'andare avanti in continuità. Questo mi sembra molto importante anche riguardo alla Liturgia. Prendo un esempio concreto che mi è venuto proprio oggi con la breve meditazione di questo giorno. La «
Statio» di questo giorno, giovedì dopo il Mercoledì delle Ceneri, è san Giorgio. Corrispondenti a questo santo soldato, una volta vi erano due letture su due santi soldati. La prima parla del re Ezechia, che, malato, è condannato a morte e prega il Signore piangendo: dammi ancora un po' di vita! E il Signore è buono e gli concede ancora 17 anni di vita. Quindi una bella guarigione e un soldato che può riprendere di nuovo in mano la sua attività. La seconda è il Vangelo che narra dell'ufficiale di Cafarnao con il suo servo malato. Abbiamo così due motivi: quello della guarigione e quello della «milizia» di Cristo, della grande lotta. Adesso, nella Liturgia attuale, abbiamo due letture totalmente diverse. Abbiamo quella del Deuteronomio: «Scegli la vita», e il Vangelo: «Seguire Cristo e prendere la croce su di sé», che vuol dire non cercare la propria vita ma donare la vita, ed è una interpretazione di cosa vuol dire «scegli la vita». Devo dire che io ho sempre molto amato la Liturgia. Ero proprio innamorato del cammino quaresimale della Chiesa, con queste «chiese stazionali» e le letture collegate a queste chiese: una geografia di fede che diventa una geografia spirituale del pellegrinaggio col Signore. Ed ero rimasto un po' male per il fatto che ci avessero tolto questo nesso tra la «stazione» e le letture. Oggi vedo che proprio queste letture sono molto belle ed esprimono il programma della Quaresima: scegliere la vita, cioè rinnovare il «Sì» del Battesimo, che è proprio scelta della vita. In questo senso, c'è un'intima continuità e mi sembra che dobbiamo impararlo da questo che è solo un piccolissimo esempio tra discontinuità e continuità. Dobbiamo accettare le novità ma anche amare la continuità e vedere il Concilio in questa ottica della continuità. Questo ci aiuterà anche nel mediare tra le generazioni nel loro modo di comunicare la fede.
Infine, il sacerdote del Vicariato di Roma, ha concluso con una parola della quale mi approprio perfettamente così che con essa possiamo anche concludere: divenire più semplici. Mi sembra questo un programma bellissimo. Cerchiamo di metterlo in pratica e così saremo più aperti al Signore e alla gente.
Grazie!
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