“Fu il Cavaliere Calabrese alto della persona, e corpulento; di volto gioviale, con occhi vivi, di color assai scuro, benché in questi ultimi anni impiccioliti per la vecchiezza. Ebbe il naso alquanto grosso, ma non eccedente, che disdicesse al viso, che era grande, e tondo, e proporzionato alla persona, che era più di sette palmi, alla quale altezza essendo proporzionata ogni altra parte del corpo, veniva a formarsi un aspetto così maestoso, che moveva a riverenza chiunque lo mirava, al che negli ultimi anni erasi accresciuta la canizie, e la fama delle sue gran virtù morali, talché non era così ossequiato il Gran Maestro, quanto egli era da tutti inchinato per dovunque passava”. Questo brano, tratto dalle Vite dei Pittori, Scultori, ed Architetti Napolitani di Bernardo De Dominici, oltre a fornirci una vivida immagine del pittore illustra anche la fama che aveva acquisito nel corso della sua carriera pittorica Mattia Preti, una fama che a Malta era addirittura superiore a quella del Gran Maestro. Bernardo aveva conosciuto Preti all’età di quattordici anni durante il suo unico soggiorno sull’isola, suo padre Raimondo, di origini maltesi, era stato un allievo, come lo era stata la zia, Suor Maria De Dominicis, unica pittrice suora della storia e da molti considerata l’allieva più dotata. Entrambi i pittori erano poi partiti per l’Italia, Raimondo stabilendosi a Napoli e suor Maria a Roma, collaborando con la bottega di Maderno e di Bernini e specializzandosi in particolare nella scultura, in un percorso inverso a quello compiuto dal “Cavaliere Calabrese”.
Mattia Preti, nato a Taverna nel 1613, si forma al disegno a Roma insieme al fratello più anziano Gregorio. Nell’Urbe, assimilando le tecniche di Caravaggio e dei suoi seguaci, rimane per quasi venticinque anni realizzando importanti affreschi per le chiese di San Giovanni Calibita, San Carlo ai Catinari e Sant'Andrea della Valle, ma intervalla questo periodo con frequenti viaggi all’estero (Spagna e Fiandre soprattutto) e in Italia quando tra il 1644 e il 1650 dimora nell’Emilia, avendo contatti col Guercino e con Lanfranco i quali influenzarono ulteriormente la sua pittura. Nel 1650 è nominato accademico dei Virtuosi del Pantheon mentre tra il 1656 e il 1661 è a Napoli dove realizza, in particolare, le tele per il soffitto di San Pietro a Maiella. Insignito già nel 1640 del cavalierato d’obbedienza, quello dato anche al Merisi, dell’ordine gerosolimitano, nel 1661 viene creato Cavaliere di grazia e comincia la sua alacre attività a Malta, dove diventa pittore ufficiale dell’Ordine lasciando, in quasi quarant’anni di permanenza, quasi cinquecento opere tra tele e affreschi, opere che spedì anche all’estero ma che sono in larga parte custodite tra edifici ecclesiastici e privati in ambedue le isole dell’arcipelago. Nel 1691, tra onori e riconoscenze, viene insignito dell’alta carica di Commendatore dell’Ordine. Colpito da un male incurabile il 18 dicembre del 1698 scrisse il proprio testamento e morì il 3 gennaio del 1699, venendo sepolto nella chiesa di San Giovanni che con tanto lavoro aveva contribuito a decorare, redendola un capolavoro del barocco. “La cagion vuole che diamo notizia di questo valentissimo professore per avere egli d’innalto arricchita la nostra Malta colle sue insigni opere, per il lungo domicilio da esso contrattovi fino alla morte e per i molti discepoli che vi ha lasciato”: le parole di padre Pelagio da Zebbug, autore del testo Uomini illustri di Malta, sintetizzano pertanto l’importanza e l’influenza di Mattia Preti, delle sue opere e della sua bottega, nella tradizione artistica maltese del Seicento. La funzione principale della sua pittura, infatti, fu quella di rispondere alle innumerevoli devozioni locali e alle politiche trionfalistiche, da quelle dei Gran Maestri a quelle delle singole “Nazioni” dell’Ordine, passando per gli ordini religiosi e le committenze private, in un crescendo di committenze.
Tante sono le tele che testimoniano il legame del pittore con L’Ordine ma in questa sede vorrei analizzare un’altra opera, capolavoro di stile e di eleganza recentemente restaurata, che indica il rapporto tra Preti e il contesto artistico maltese ovvero il San Luca dipinge la Vergine con il Bambino. Custodita presso la chiesa di San Francesco d’Assisi a Valletta è una delle rarissime pitture datate e firmate dal maestro e reca in basso a destra, sotto lo stemma del pittore quale Cavaliere dell’Ordine, la scritta F(rà) M(atthia) P(reti) F(ecit) 1671. Il quadro, sormontato da una cimasa raffigurante la S.S. Trinità, fu realizzato in occasione dell’istituzione della Confraternita dei pittori, scultori e indoratori, ovvero dell’Accademia maltese che riuniva per la prima volta gli artisti operanti sull’isola e che giustamente aveva come patrono San Luca il quale, secondo la tradizione, era considerato un pittore a cui tutt’oggi sono attribuite svariate icone mariane. Nella tela il santo ha appena ultimato di dipingere un quadro raffigurante la Vergine con il Bambino; la mano sinistra mantiene una ciotola sulla quale vi è un pennello in equilibrio mentre la destra indica il dipinto; una tavolozza è appesa mollemente al cavalletto. San Luca non guarda l’opera appena conclusa ma si rivolge verso lo spettatore e con gesto perentorio della mano destra, con intenti volutamente didattici, sembra dire “E’ in questo modo che si dipinge il sacro”, confortato dalla presenza, sullo sfondo, di un inconsueto San Carlo Borromeo in preghiera, santo legato alla committenza dell’altare ma anche figura significativa nel contesto in quanto estensore dei canoni pittorici della Chiesa post-tridentina. Nel capitolo “Sull’Immagine del Salvatore” del De Pictura Sacra il Borromeno menzionava esplicitamente il presunto ritratto della Madonna col Bambino eseguito da San Luca, secondo le cronache di Niceforo il quale così scriveva: “E l'apostolo Luca, accintosi all'impresa, lo dipinse accuratamente con le sue proprie mani”. Il dettaglio dell’indicazione dell’opera, in particolare, risente molto di una analoga tela del Guercino, del 1653, custodita al Nelson Atkins Museum of Art di Kansas City, dove il santo, in una posa maggiormente composta e con la tavolozza in mano, accudito da un angelo, indica il lavoro appena ultimato. Questa grazia sembra venir a mancare nell’opera di Preti il quale, pur guardando al Guercino per l’impianto cromatico e le mezze tinte sfumate da uno sfondo color miele dovuto all’olio di lino, raffigura il santo vigorosamente in contrazione sullo sgabello che, nell’atto di dichiarare il suo traguardo pittorico, poggia vigorosamente il piede sul bue, suo emblema, e appare soffocarlo tanto che il bovino, realisticamente raffigurato, sembra cacciare fuori la lingua. Alla sua sinistra un putto, dietro un basamento con dei libri aperti, offre penna e inchiostro, in riferimento alla sua attività di Evangelista, un altro putto, affacciandosi dalla tela, reca in mano un mazzo di pennelli mentre un ultimo, al centro in alto, sembra portare un gruppo di frutti. La scena è ambientata in un’architettura classica nella quale si individuano alcune statue; una in particolare raffigura la ninfa Igea, figlia di Esculapio e personificazione della Salute, a ricordare l’iniziale attività medica del santo anche se più semplicemente i vari riferimenti scultorei classici fanno riferimento alla consuetudine di Preti di servizi di modelli e prototipi e di adoperarli come citazioni nei dipinti. Pittura, scultura e architettura, così magistralmente raffigurate, rimandano parimenti alle discipline dell’istituita Accademia maltese. Il tema iconografico è stato più volte utilizzato dal pittore sebbene mai, come in tal caso, con una così grande ricchezza di figure e articolazione della scena appunto perché atto figurativo, più che formale, dell’istituzione dell’Accademia. Restaurato lo scorso anno il dipinto appare più scuro rispetto alla produzione delle grand i pale d'altare degli anni Sessanta e Settanta presenti in molte chiese maltesi, tra le quali la Chiesa Conventuale dell'Ordine, ma ciò è dovuto ad interventi passati sbagliati che hanno tolto alla tela le velature finali e le luci originali. Rimangono comunque gli splendidi accordi cromatici, la fluidità della pennellata, la mobilità del chiaroscuro, la vivacità espressiva e la tensione drammatica, la rielaborazione di echi veneti ed emiliani e le citazioni caravaggesche unite ad una certa rudezza quasi paesana che rendono il dipinto una vera e propria dichiarazione di poetica, stile e teoria. Mattia Preti, l’artista che aveva fatto di Valletta una piccola Roma mediterranea, verrà così ricordato dallo storico dell’arte Roberto Longhi: "corposo e tonante, veristico e apocalittico ... secondo solo a Caravaggio".