di Massimo Introvigne

ROMA, martedì, 5 giugno 2012 (ZENIT.org).- C’è una bellezza particolare anche nella vita sacerdotale. Celebrando l’ora media in Duomo a Milano con i sacerdoti, i seminaristi e le persone consacrate, Benedetto XVI ricordava come Paolo VI, allora arcivescovo di Milano, nel 1958 paragonava la vita sacerdotale a un poema: «Comincia la vita sacerdotale: un poema, un dramma, un mistero nuovo … fonte di perpetua meditazione …sempre oggetto di scoperta e di meraviglia; [il Sacerdozio] è sempre novità e bellezza per chi vi dedica amoroso pensiero … è riconoscimento dell’opera di Dio in noi» (Omelia per l’Ordinazione di 46 Sacerdoti, 21 giugno 1958). E il Papa, attento alla musica, ha paragonato la vita sacerdotale e consacrata a una «sinfonia», in cui tre elementi – unione personale con Dio, servizio alla Chiesa e servizio all’intera umanità – non si contrappongono ma s’incontrano armoniosamente.

Di questa bellezza della vita consacrata e sacerdotale sono parte integrante la castità e il celibato. Certo, «l’amore per Gesù vale per tutti i cristiani, ma acquista un significato singolare per il sacerdote celibe e per chi ha risposto alla vocazione alla vita consacrata: solo e sempre in Cristo si trova la sorgente e il modello per ripetere quotidianamente il “sì” alla volontà di Dio». Il Papa richiama le radici della Chiesa ambrosiana, il magistero di sant’Ambrogio. «“Con quali legami Cristo è trattenuto?” – si chiedeva sant’Ambrogio, che con intensità sorprendente predicò e coltivò la verginità nella Chiesa, promuovendo anche la dignità della donna. Al quesito citato rispondeva: “Non con i nodi di corde, ma con i vincoli dell’amore e con l’affetto dell’anima” (De virginitate, 13, 77)». E ancora il Pontefice cita un sermone di sant’Ambrogio alle vergini: «Cristo è tutto per noi: se desideri risanare le tue ferite, egli è medico; se sei angustiato dall’arsura delle febbre, egli è fonte; se ti trovi oppresso dalla colpa, egli è giustizia; se hai bisogno di aiuto, egli è potenza; se hai paura della morte, egli è vita; se desideri il paradiso, egli è via; se rifuggi le tenebre, egli è luce; se sei in cerca di cibo, egli è nutrimento» (De virginitate, 16, 99).

4. La bellezza del dono di sé nella famiglia

C’è una bellezza del sacerdozio e della vita consacrata e c’è una bellezza della famiglia. Nell’omelia della Messa del giugno al Parco di Bresso per il VII Incontro Mondiale delle Famiglie Benedetto XVI è partito dalla bellezza della Chiesa, «la famiglia di Dio», «sacrarium Trinitatis» come la definisce sant’Ambrogio con un’espressione che il Papa tiene a ricordare nel giorno della festa liturgica della Santissima Trinità, «popolo che – come insegna il Concilio Vaticano II – deriva la sua unità dall’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Lumen gentium, 4). La Chiesa quando comprende la sua natura diventa «capace di riflettere la bellezza della Trinità».

Ma chiamata a riflettere questa bellezza, «chiamata ad essere immagine del Dio Unico in Tre Persone non è solo la Chiesa, ma anche la famiglia, fondata sul matrimonio tra l’uomo e la donna». L’amore è infatti la bellezza ultima dell’uomo. «L’amore è ciò che fa della persona umana l’autentica immagine della Trinità, immagine di Dio». Questa immagine trinitaria si riflette anche nei tre significati dell’amore umano, che è tre volte fecondo: «fecondo – ha detto il Pontefice agli sposi – innanzitutto per voi stessi, perché desiderate e realizzate il bene l’uno dell’altro, sperimentando la gioia del ricevere e del dare». Fecondo, in secondo luogo, «nella procreazione, generosa e responsabile, dei figli, nella cura premurosa per essi e nell’educazione attenta e sapiente». E in terzo luogo «fecondo infine per la società, perché il vissuto familiare è la prima e insostituibile scuola delle virtù sociali, come il rispetto delle persone, la gratuità, la fiducia, la responsabilità, la solidarietà, la cooperazione». Così la famiglia riflette anch’essa, come la Chiesa, la bellezza della Trinità.

Questa bellezza dell’amore oggi spesso è compresa in modo sentimentale o superficiale. Nel dialogo del 2 giugno, il Papa ha ricordato che in molte società tradizionali e in molte zone dell’Europa, fino ai primi decenni del XX secolo – «mi ricordo, ha detto, che in un piccolo paese, nel quale sono andato a scuola, era in gran parte ancora così» –, il matrimonio era combinato tra le famiglie o i clan. «Ma poi, dall’Ottocento, segue l’emancipazione dell’individuo, la libertà della persona, e il matrimonio non è più basato sulla volontà di altri, ma sulla propria scelta; precede l’innamoramento, diventa poi fidanzamento e quindi matrimonio». Questo sviluppo è accolto dalle nuove generazioni con grande entusiasmo. «In quel tempo – ricorda il Pontefice – tutti eravamo convinti che questo fosse l’unico modello giusto e che l’amore di per sé garantisse il “sempre”, perché l’amore è assoluto, vuole tutto e quindi anche la totalità del tempo: è “per sempre”». La realtà, però, ha smentito questi entusiasmi: «si vede che l’innamoramento è bello, ma forse non sempre perpetuo, così come è il sentimento: non rimane per sempre. Quindi, si vede che il passaggio dall’innamoramento al fidanzamento e poi al matrimonio esige diverse decisioni, esperienze interiori. Come ho detto, è bello questo sentimento dell’amore, ma deve essere purificato, deve andare in un cammino di discernimento, cioè devono entrare anche la ragione e la volontà; devono unirsi ragione, sentimento e volontà».

È un durus sermo, quello del Papa, quando ricorda che l’essere sinceramente innamorati di per sé non fa il matrimonio. «Nel Rito del Matrimonio, la Chiesa non dice: “Sei innamorato?”, ma “Vuoi?”, “Sei deciso?”. Cioè: l’innamoramento deve divenire vero amore coinvolgendo la volontà e la ragione in un cammino, che è quello del fidanzamento, di purificazione, di più grande profondità, così che realmente tutto l’uomo, con tutte le sue capacità, con il discernimento della ragione, la forza di volontà, dice: “Sì, questa è la mia vita”». «Io penso spesso – ha confidato il Pontefice – alle nozze di Cana. Il primo vino è bellissimo: è l’innamoramento. Ma non dura fino alla fine: deve venire un secondo vino, cioè deve fermentare e crescere, maturare. Un amore definitivo che diventi realmente “secondo vino” è più bello, migliore del primo vino».

Testimoniare questa bellezza oggi non è facile. Come già nella visita del 3 maggio 2012 al Policlinico Gemelli e nell’omelia di Pentecoste, il Papa nella Messa del 3 giugno è tornato sul tema – centrale nell’enciclica Caritas in veritate – della tecnocrazia, del «mondo dominato dalla tecnica», che crea un mondo dove la vocazione al matrimonio cristiano «non è facile da vivere». Ultimamente, di fronte al mondo tentato dalla tecnocrazia la famiglia testimonia la verità che «l’amore è l’unica forza che può veramente trasformare il cosmo, il mondo». «Nel libro della Genesi – ha ricordato il Pontefice –, Dio affida alla coppia umana la sua creazione, perché la custodisca, la coltivi, la indirizzi secondo il suo progetto (cfr 1,27-28; 2,15). In questa indicazione della Sacra Scrittura, possiamo leggere il compito dell’uomo e della donna di collaborare con Dio per trasformare il mondo, attraverso il lavoro, la scienza e la tecnica. L’uomo e la donna sono immagine di Dio anche in questa opera preziosa, che devono compiere con lo stesso amore del Creatore».

La tecnocrazia, appunto, intende la trasformazione del mondo come qualche cosa che può essere valutato solo con il criterio dell’utile. Così, «nelle moderne teorie economiche, prevale spesso una concezione utilitarist ica del lavoro, della produzione e del mercato. Il progetto di Dio e la stessa esperienza mostrano, però, che non è la logica unilaterale dell’utile proprio e del massimo profitto quella che può concorrere ad uno sviluppo armonico, al bene della famiglia e ad edificare una società giusta, perché porta con sé concorrenza esasperata, forti disuguaglianze, degrado dell’ambiente, corsa ai consumi, disagio nelle famiglie. Anzi, la mentalità utilitaristica tende ad estendersi anche alle relazioni interpersonali e familiari, riducendole a convergenze precarie di interessi individuali e minando la solidità del tessuto sociale».

Si moltiplicano così i fallimenti, le separazioni e i divorzi. Nel dialogo del 2 giugno il Papa ha confidato che «il problema dei divorziati risposati è una delle grandi sofferenze della Chiesa di oggi. E non abbiamo semplici ricette. La sofferenza è grande e possiamo solo aiutare le parrocchie, i singoli ad aiutare queste persone a sopportare la sofferenza di questo divorzio». Dopo avere ribadito quanto aveva affermato nelle sue Allocuzioni alla Rota Romana del 2007 e del 2011, che «molto importante sarebbe, naturalmente, la prevenzione», compreso un esame serio da parte dei parroci delle reali intenzioni delle coppie che si presentano per sposarsi, il Pontefice ribadisce alle coppie in situazione irregolare «che la Chiesa le ama, ma esse devono vedere e sentire questo amore. Mi sembra un grande compito di una parrocchia, di una comunità cattolica, di fare realmente il possibile perché esse sentano di essere amate, accettate, che non sono “fuori”». Naturalmente, la Chiesa accetta e ama le persone, non la loro irregolarità: devono essere accolte in chiesa ma «non possono ricevere l’assoluzione e l’Eucaristia». Ma, se pure non possono essere assolte in confessione, «tuttavia un contatto permanente con un sacerdote, con una guida dell’anima, è molto importante perché possano vedere che sono accompagnati, guidati». E, se pure non possono ricevere l’Eucarestia, «anche senza la ricezione “corporale” del Sacramento, possiamo essere spiritualmente uniti a Cristo nel suo Corpo. E far capire questo è importante. Che realmente trovino la possibilità di vivere una vita di fede, con la Parola di Dio, con la comunione della Chiesa e possano vedere che la loro sofferenza è un dono per la Chiesa, perché servono così a tutti anche per difendere la stabilità dell’amore, del Matrimonio; e che questa sofferenza non èsolo un tormento fisico e psichico, ma è anche un soffrire nella comunità della Chiesa per i grandi valori della nostra fede. Penso che la loro sofferenza, se realmente interiormente accettata, sia un dono per la Chiesa. Devono saperlo, che proprio così servono la Chiesa, sono nel cuore della Chiesa».

La mentalità utilitarista e tecnocratica, che appunto non è tra le ultime cause del fallimento di tante famiglie, tende anche a ignorare, o a vedere con sospetto – ha detto il Papa nell’omelia del 3 giugno –, che «l’uomo, in quanto immagine di Dio, è chiamato anche al riposo e alla festa». Mette in crisi così la nozione della domenica come giorno del Signore e anche «giorno dell’uomo e dei suoi valori: convivialità, amicizia, solidarietà, cultura, contatto con la natura, gioco, sport». La Chiesa non può accettare questa crisi: «pur nei ritmi serrati della nostra epoca – invoca il Papa –, non perdete il senso del giorno del Signore! È come l’oasi in cui fermarsi per assaporare la gioia dell’incontro e dissetare la nostra sete di Dio».

Famiglia, lavoro e festa sono per Benedetto XVI «tre doni di Dio, tre dimensioni della nostra esistenza che devono trovare un armonico equilibrio. Armonizzare i tempi del lavoro e le esigenze della famiglia, la professione e la paternità e la maternità, il lavoro e la festa, è importante per costruire società dal volto umano». Per affermare la bellezza della famiglia occorre privilegiare «sempre la logica dell’essere rispetto a quella dell’avere: la prima costruisce, la seconda finisce per distruggere».

(La terza ed ultima parte pubblicheremo domani, mercoledì 6 giugno; la prima parte è stata pubblicata ieri, lunedì 4 giugno)