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di Paolo Pegoraro

 

«Tutte queste cose ho considerato una perdita a motivo di Cristo» (Fil 3,7). Vengono alla mente queste parole di san Paolo ascoltando la martellante insistenza di Kiko Argüello sull’urgenza dell’annuncio cristiano. Una priorità davanti alla quale tutto passa in secondo piano. Naturale, allora, che il Cammino Neocatecumenale festeggiasse i suoi quarant’anni di storia e l’approvazione definitiva dei suoi Statuti con una nuova fase di evangelizzazione. Il 10 gennaio infatti, ai primi vespri della Festa del Battesimo del Signore, Benedetto XVI invierà in missione presso zone scristianizzate duecento famiglie e quindici missio ad gentes, cioè piccoli nuclei formati da tre famiglie e da un sacerdote, che si dedicheranno alla implantatio ecclesiae presso Colonia, Vienna, New York, l’India e la Papua Nuova Guinea. Infine, per la prima volta nella storia del Cammino, partiranno anche quattordici comunità che hanno completato il Cammino – in genere ognuna è formata di 30-40 persone – e che andranno ad aiutare altre parrocchie limitrofe con gravi difficoltà pastorali. Ma che cos’è il Cammino Neocatecumenale? Lo stesso Kiko Argüello – che con Carmen Hernández si definisce suo “iniziatore”, ma non suo fondatore – confessa di non saperlo. «È un’opera dello Spirito Santo – ci dice. – Non è nato per nostra volontà né abbiamo progettato qualcosa a tavolino... abbiamo sempre lasciato che fosse lo Spirito Santo a guidarci. Le tappe dell’iniziazione alla fede, i seminari Redemptoris Mater, le missio ad gentes... tutto questo non lo immaginavamo neppure quando abbiamo cominciato». Gli Statuti definiscono il Cammino come «itinerario di formazione cattolica [...] dotato di personalità giuridica pubblica» che «consta di un insieme di beni spirituali» (1§1-3). Non un movimento o un’associazione, dunque, quanto un preciso metodo di catechesi e un ben strutturato strumento di riscoperta del battesimo che la Chiesa mette a disposizione dei suoi vescovi. Kiko, consultore del Pontificio Consiglio per i Laici, invitato allo scorso Sinodo sulla Parola, è già impegnato nell’organizzazione di nuovi progetti, tra cui un “Family Day” a Vienna. Inutile dire che l’Apostolo delle genti è un costante riferimento non solo nelle catechesi di Kiko, ma anche nelle sue icone e soprattutto nei canti da lui composti per la liturgia. «San Paolo – continua Kiko – è un gigante della fede, un modello di apostolo per tutti noi».

Paolo scrive: «Ritenni di non sapere altro se non Gesù Cristo, e questi crocifisso» (1Cor 2,2). La croce è al centro della predicazione del Cammino: che ruolo ha avuto nella sua nascita?

«Fondamentale. Il Cammino Neocatecumenale è nato tra le baracche di Palomeras Altas, uno dei quartieri più poveri di Madrid. Io allora ero vicino a Sartre e venivo da un’esperienza di crisi esistenziale molto forte. Mi colpì il romanzo La peste di Camus e conobbi il Signore attraverso il mistero della sofferenza degli innocenti. Pensai allora che, se Dio fosse tornato sulla terra, sarei voluto stare ai piedi del Cristo crocifisso nei più miserabili. Perché negli strati sociali più oppressi, nella gente schiacciata dal dolore, negli alcolizzati, in chi è schiavo della droga, si manifesta in qualche modo una presenza misteriosa di Cristo crocifisso. Il mistero del dolore era già stato compreso anche dagli ebrei, che raccomandavano al medico: “Quando ti recherai da un sofferente, resterai in piedi davanti a lui, perché lì c’è la shekinà divina”, cioè la presenza di Dio. Il dolore ci obbliga a una scelta. Perché davanti alla sofferenza, soprattutto degli innocenti, non si scappa: o lasci la fede e diventi un rivoluzionario, oppure riconosci il mistero che Dio ha mostrato in Cristo crocifisso. Pensiamo a cosa dice Nietzsche in Così parlò Zarathustra, una frase che ha tolto la fede a tanti giovani: “Se Dio può fare qualcosa per il mondo e non lo fa, è un mostro. E se invece non può fare niente, allora non esiste”. Ma quello che Nietzsche non sapeva è che Cristo, fattosi peccato, rifiutato e crocifisso, è Dio stesso. È stato anche detto che dopo Auschwitz non si può più credere in Dio. Ricordo però di aver letto la testimonianza di un capo della Gestapo, ateo, che a un certo momento si rese conto delle mostruosità che si consumavano nei campi di concentramento. Un giorno vide passare una fila di donne e di bambini nudi che venivano condotti alle “docce”, cioè alle camere a gas, e avvertì dentro di sé un dolore acutissimo. Si chiese che cosa poteva fare per aiutarli e per calmare quel suo dolore. E sentì dentro di sé che quello che doveva fare era spogliarsi, mettersi in fila anche lui e andare a morire con loro nella camera a gas. Venti anni dopo, scriveva, ancora non capiva da dove gli fosse venuta quella risposta... ma noi cristiani lo sappiamo: è l’amore che è apparso sulla terra nella croce di Cristo. Spogliarsi di tutto e andare a morire con gli ultimi è un atto che fa più di tutte le opere sociali del mondo. Perché è quello che ha fatto Cristo. È la testimonianza che, anche dopo Auschwitz, l’amore c’è. Se esiste l’amore nel mondo, si può morire nelle camere a gas, perché la vita e la morte hanno un senso, perché Cristo è risorto».

Che cosa hai fatto, allora?

«Ho lasciato il mio studio artistico a Plaza de España – avevo già fatto alcune esposizioni di arte sacra in Francia e in Olanda – per andare a mettermi ai piedi dei più poveri, secondo lo stile di Charles de Foucauld: non per fare opere, ma per stare in adorazione silenziosa della sofferenza umana, nel nascondimento completo, come Cristo nei trenta anni a Nazareth. Un’assistente sociale m’indicò alcune sacche di poveri a Palomeras Altas, dove c’erano case di miserabili e di kinkis, così venivano chiamati i nomadi in Spagna. Una famiglia di zingari se n’era andata e mi misi nella loro baracca, con una Bibbia e un materasso per terra. Laggiù ho conosciuto anche Carmen, che era in contatto con tutto il rinnovamento conciliare e liturgico: dal Concilio è venuta la spinta a ristabilire il catecumenato come una via di iniziazione cristiana, che potesse rinnovare la ricchezza e la bellezza del battesimo. E un poco alla volta si è andato formando quel “tripode” che sarebbe diventato il fondamento del Cammino: la Parola di Dio, la Liturgia e la Comunità cristiana. Poi, quando siamo venuti in Italia, si è unito a noi padre Mario».

San Paolo vi ha accompagnato fin dall’inizio. All’interno della baracca di Palomeras Altas avevi dipinto sulla parete questi versetti dell’Apostolo: «Fino al presente siamo diventati come la spazzatura del mondo» (cfr. 1Cor 4,11-13).

«Di problemi poi ce ne sono stati tanti...! A partire dai conflitti con la polizia di Franco, che voleva abbattere tutte quelle baracche, perché la legge vietava il nomadismo e la costruzione d’insediamenti provvisori. Noi li volevamo difendere, ma cosa potevamo fare contro i mitra e i camion? Chiamammo tutti i nostri amici preti e perfino l’arcivescovo di Madrid, mons. Casimiro Morcillo. Il suo segretario non voleva farci parlare con lui, ma l’arcivescovo – sentendogli alzare la voce – si fece passare la telefonata e venne immediatamente da noi. È stato un miracolo di Dio, ci ha salvati. Poi mons. Morcillo volle visitare la nostra baracca e si commosse vedendo che dormivamo per terra. Da allora ci ha sempre aiutato e difeso... anche se non eravamo nessuno. Fu lui a mandarci a Roma con una lettera per il cardinale Dell’Acqua, che era il Vicario di Sua Santità. E non posso dimenticare nemmeno don Dino Torreggiani, il fondatore dei Servi della Chiesa per cui è stato aperto il processo di beatificazione, che ha insistito perché venissimo a Roma e che lì ci presentò a tante parrocchie: io parlavo in spagnolo per proporre un cammino d’iniziazione cristiana, e lui mi traduceva in italiano. Tanti ci hanno detto di no. Allo ra, era il 1968, ci siamo stabiliti al Borghetto Latino con i poveri nelle baracche, aspettando cosa volesse da noi il Signore. Mentre stavamo lì alcuni giovani c’invitarono a un incontro con i gruppi di contestazione sociale a Nemi e io – con la barba lunga e il giaccone verde – davanti a quei 400 giovani, quasi tutti di sinistra, raccontai loro la mia vita. Allora mi si avvicinò un gruppo della parrocchia dei Martiri Canadesi: facevano la Messa beat con le chitarre elettriche e ci chiesero cosa ne pensavamo. Abbiamo detto che la Chiesa non si riformava con le chitarre elettriche, ma con il mistero pasquale. Lì, alla parrocchia dei Martiri Canadesi, sono nate le prime catechesi in Roma... poi c’è stata Firenze, poi Lisbona... Intanto la Santa Sede ci aveva convocato per verificare cosa facevamo nelle parrocchie, com’è giusto che sia. Nel 1973 mons. Annibale Bugnini, allora segretario della Commissione liturgica e impegnato nella preparazione dell’OICA (Ordo Initiationis Christianae Adultorum), ci incontrò e fu colpito molto favorevolmente da quello che facevamo, perché vi trovò proprio lo spirito del Concilio Vaticano II. E ricordo bene anche la nostra seconda udienza con Paolo VI, nel 1977, che mi mise una mano sulla spalla e mi disse: “Kiko, sii umile e fedele alla Chiesa, e la Chiesa ti sarà fedele”. Oggi che gli Statuti del Cammino sono stati approvati, nonostante le difficoltà, vedo che quella parola si è realizzata».

San Paolo mette l’annuncio del vangelo prima di qualsiasi altra esigenza. Scrive ai Romani: «Come potranno credere, senza averne sentito parlare? e sentirne parlare senza uno che lo annunzi?».

«Non c’è cosa più grande che annunziare il Vangelo, la Parola della salvezza, il kérygma! San Paolo dice che Dio ha voluto salvare il mondo attraverso la stoltezza della predicazione (1Cor 1,21), ma se andiamo a vedere il testo greco della sua Lettera non troviamo il termine “predicazione”, ma la parola kérygma. Che cos’è il kérygma? È l’annuncio di una notizia buona e sorprendente, un annuncio che si realizza tutte le volte che viene proclamato».

Annunciare questa buona notizia, allora, non può che essere «un dovere» (1Cor 9,16).

«Sì, perché ogni cristiano è chiamato a salvare il mondo attraverso l’annuncio. Il cristianesimo non è un egoismo né qualcosa che viene dato da godere nella nostra piccola pace interiore... il cristianesimo è uno zelo! Guai a me se non annunzio il Vangelo! Tutti devono annunziare che Dio ci ama, al punto che ha mandato il suo Figlio per noi, per me e per te. Dice san Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi: Caritas Christi urget nos (2Cor 5,14). Cioè: l’amore di Cristo ci spinge, è un’urgenza, ci mette fretta, è un fuoco che portiamo dentro!».