Riprendiamo di seguito anche la relazione che il professor Giovanni Doria, professore a Tor Vergata, ha pronunciato ieri sera durante il terzo ed ultimo incontro delle Letture Teologiche su "I documenti del Concilio vaticano II".
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1. Gli spunti ed i temi di riflessione che la Costituzione pastorale Gaudium et Spes offre a chi, come me, si occupa di diritto e di giustizia, sono innumerevoli. Affronterò, qui, soltanto uno tra i temi di maggiore interesse, posto al paragrafo n. 36 intitolato: “La legittima autonomia delle realtà terrene”.
Si tratta di una formulazione interessante, perché, mediante una affermazione, vengono poste, in realtà, due questioni.
La prima questione è la seguente: l’affermazione conciliare secondo cui le realtà terrene godono di una legittima autonomia, a quale ambito si riferisce?
2. Trattasi di questione di immediata comprensione.
Il paragrafo 36 fa parte del Capitolo III della Parte I della Gaudium et Spes, che è interamente dedicato alla “Attività umana nell’universo”. Il che permette di chiarire che l’autonomia di cui si discute nel documento conciliare è l’autonomia dell’attività individuale e collettiva dell’uomo e, dunque, dello sforzo, conoscitivo ed applicativo, compiuto dall’uomo nei vari e diversi settori dell’esperienza tecnica, umana e sociale, rivolto al miglioramento delle proprie condizioni di vita.
3. Più complicata è, probabilmente la questione ulteriore, che è la seguente. Il testo conciliare afferma che le realtà terrene godono di una legittima autonomia: ma autonomia rispetto a che cosa?
Il paragrafo 36 della Costituzione pastorale si affretta subito ad affermare che se per autonomia delle realtà temporali si vuole sostenere “che le cose create non dipendono da Dio e che l'uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora […] tutti quelli che credono, a qualunque religione appartengono [avvertono] quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce”.
L’autonomia dell’attività umana non è, dunque, possibilità riconosciuta all’uomo di prescindere da Dio nelle sue attività.
Ed allora, in quale prospettiva il documento conciliare afferma che l’attività umana gode di una legittima autonomia?
4. Il testo conciliare è, in realtà, di una chiarezza cristallina.
L’autonomia delle realtà terrene sta a significare che “che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare”.
Il documento conciliare afferma, dunque, che le realtà terrene ci sono “date” con “leggi e valori propri”; che l’uomo conosce, usa ed ordina mediante la propria ragione.
Le leggi naturali che Dio ha impresso nelle realtà terrene, lungi dal costituire una sorta di controllo strumentale o meccanicista del Creatore sulle creature, sono dalle realtà naturali, umane e sociali possedute come leggi “proprie”. Secondo una straordinaria espressione di Giuseppe Tanzella-Nitti, “una volta donato l’essere al mondo, Dio non riprende il suo dono, ma rispetta l’autonomia che a quel dono era necessariamente legata”.
5. E’ possibile, così, iniziare a cogliere il significato della nozione di autonomia delle realtà terrene espresso in sede conciliare.
L’affermazione della legittima autonomia delle realtà terrene esprime, in primo luogo, l’autonomia metodologica e pratica dell’attività umana in rapporto alla conoscenza del reale.
Allo stesso tempo, l’affermazione della legittima autonomia delle realtà terrene esprime che la conoscenza scientifica e, in buona parte, filosofica, nonché l’applicazione tecnica delle “leggi proprie” del reale, non compete ordinariamente al Magistero della Chiesa, né, quindi, all’autorità ecclesiastica.
6. L’affermazione dell’autonomia dell’attività conoscitiva ed applicativa delle realtà terrene in rapporto alla dottrina teologica ed al ministero ecclesiastico, e, allo stesso tempo, l’impossibilità di assumere una nozione di autonomia intesa come totale indipendenza ed autofondazione delle realtà temporali, permette di precisare compiutamente la nozione di autonomia legittima delle realtà terrene posta nel documento conciliare, identificando, così, quale è il retto ruolo della fede nell’attività dell’uomo.
L’affermazione dell’autonomia delle realtà terrene in genere, e delle realtà umane e sociali in specie, posta in sede conciliare, è basata su un fondamento ontologico: essa si basa sulla realtà stessa della verità della creazione, la quale non solo è una verità di fede, rivelata nell’Antico e nel Nuovo Testamento, ma è anche una verità di ragione.
E’ una evidenza di ragione che la realtà naturale, e lo stesso intelletto dell’uomo, sono “dati” in via originaria, con regole proprie ed immanenti, e possiedono una dimensione che li trascende, e che li fonda, risultando contrario a ragione assumere che le realtà terrene, così come lo stesso intelletto dell’uomo, sono essere increati o costituiscono creazione dell’uomo. Come rileva bene Claude Lefort, recentemente ripreso con forza da Jürgen Habermas, dimenticare il fondamento religioso e, dunque, trascendente, delle realtà umane e sociali, significa “vivere nell’illusione di una pura immanenza”.
L’uomo e il mondo, con tutte le loro attività e finalità naturali – come ricorda Tommaso d’Aquino –, hanno un valore di per sé stessi e, dunque, una legittima autonomia nei riguardi del “sacro” e del soprannaturale. Ma, in quanto realtà create, partecipano di una verità che le precede, che le trascende e che le fonda, e la cui conoscenza concorre, di necessità, alla conoscenza piena e totale del reale.
7. Ecco, allora, il “punto di congiunzione” o, meglio, di “consecuzione” tra autonomia delle realtà create e fede biblica.
L’uomo e tutte le cose create, dotati di “leggi” interne proprie ed immanenti, provengono da una unica origine, che ne costituisce il fondamento veritativo primo ed ultimo; e le “leggi” interne ed immanenti al creato non possono, per ciò, e secondo ragione, essere contrarie o contraddire al loro fondamento veritativo.
L’attività conoscitiva ed applicativa delle realtà terrene, che l’uomo compie secondo ragione, per essere il più possibile conforme al vero, postula, necessariamente, una conoscenza globale di quelle realtà. E se le forme di conoscenza scientifica e tecnica mettono in luce le regole proprie ed immanenti delle realtà terrene, è attraverso il sapere religioso, il cui fondamento gnoseologico-rivelativo è – come la fede biblica – conforme alla ragione naturale, che si di-svela la conoscenza veritativa del principio trascendente dell’uomo e del mondo.
8.L’attuale e comune mentalità fa una certa fatica a cogliere la nozione di autonomia affermata in sede conciliare.
Secondo l’attuale e comune mentalità, ogni formulazione di matrice religiosa si oppone, per definizione, all’autonomia della conoscenza delle realtà naturali, umane e sociali. E non è un caso che il documento conciliare esordisce ricordando il timore, oggi assai diffuso, che “se si fanno troppo stretti i legami tra attività umana e religione, venga impedita l’autonomia degli uomini, delle società, delle scienze”.
9.La difficoltà che avverte la comune mentalità è null’altro che l’esito del genericismo e massimalismo culturale del secolarismo laicista, che, segnando, definitivamente, la frattura tra ragione umana e fede biblica, porta, filosoficamente, Dio al di fuori della ragione e la religiosità entro il regno della volontà e del sentimento, e registra l’incapacità di pervenire ad una conoscenza valida del fondamento veritativo e trascendente dell’uomo e del mondo.
La difficoltà che avverte la comune mentalità è, dunque, null’altro che la conseguenza di due delle principali aporie coessenziali agli odierni orientamenti culturali, specie di matrice occidentale.
Il progressivo smarrimento dei presupposti teologico-culturali del processo di secolarizzazione, ed il correlato fatto del pluralismo basato sull’indifferenza verso la verità, hanno, da un lato, condotto ad escludere l’adozione di criteri di ricerca del vero nella conoscenza libera e razionale delle realtà terrene, sostituendo la libertà nell’ambito della verità con la libertà dall’ambito della verità.
La primazia della ragione che, scientificamente, può ritenersi libera di identificare il vero con il verificabile, sbocca, così, in un’inevitabile sovvertimento del rapporto naturale tra libertà e verità, e, da qui, nel grave equivoco che la libertà è semplicemente “libertà da” e non “libertà per”: libertà della ragione e della volontà dalla verità e dal bene, e non libertà del soggetto per raggiungere la conoscenza del vero e per aderire al bene. Conclusione facilmente intellegibile come falsa dal lato della persona umana, dove è chiaro che la libertà non è libertà di essere ciò che non si è, ma di diventare e di realizzare ciò che si è chiamati ad essere.
La libertà dell’attività dell’uomo “non è libertà della conoscenza e dell’applicazione tecnica, ma è libertà del soggetto, che, a sua volta, non è libertà di autodeterminarsi in modo assoluto, e cioè, di fare tutto ciò che sia scientificamente possibile e tecnicamente praticabile, ma è libertà normata da una natura e da una verità e da un bene che sono già nelle cose e che non sono poste a priori dal soggetto: è libertà di orientare la conoscenza, la scienza filosofica e l’applicazione tecnica verso quei fini che sono loro propri”.
Allo stesso tempo, la affermazione sempre più massiccia di forme culturali fondate sul non cognitivismo etico, ed il correlato progredire di un atteggiamento laicista, oscurano, già in tesi, la possibilità di riconoscere l’essenziale conformità a ragione del messaggio di verità affermato dalla fede ebraico-cristiana, fondamento, a sua volta, dell’immanente laicità della mentalità cristiana nella conoscenza del reale.
Ciò che, al riguardo, ci si può limitare a dire, qui, anche per ragioni di tempo, è che il messaggio neotestamentario rivela che all’inizio di tutta la creazione vi è il Verbo, e, per ciò, che tutto nasce e tende secondo la forza creatrice del Logos, e quindi della Ragione. Il fondamento della rivelazione cristiana si basa, dunque, su una premessa interamente razionale, e si svolge in senso razionale, sia sul versante della rivelazione salvifica e trascendente dell’uomo e della realtà creata, che su quello, ulteriore, della concezione storica dell’uomo.
10. Una conoscenza piena e tutta intera delle realtà terrene postula, dunque, un accesso a criteri di conoscenza veritativi, intellegibili secondo ragione, che fondano il reale, e che, per ciò, completano, in modo unitario e coerente, la autonoma conoscenza ed applicazione delle “leggi proprie” delle realtà terrene.
In questa prospettiva, le espressioni degli orientamenti religiosi che, come quelle della fede cristiana, sono secondo ragione, e sono, per ciò, idonei a giustificare la ragionevolezza dell’assenso di fede, di-schiudono l’intera verità sull’uomo e sul mondo.
La fede cristiana non indica il metodo migliore per l’analisi scientifica e le corrispondenti applicazioni pratiche, non seleziona le modalità operazionali per la conoscenza delle realtà terrene, non fornisce criteri tecnico-operativi per lo svolgimento dell’attività lavorativa.
La fede cristiana indica soltanto, secondo la verità della creazione, chi è l’uomo, e cos’è il mondo.
La fede cristiana di-svela soltanto, secondo la verità della creazione, l’essenziale vocazione soprannaturale dell’uomo, i suoi contenuti ed il senso dell’esistente voluto dal Creatore, di-schiudendo, così, secondo un percorso riconoscibile dalla ragione, le finalità trascendenti dell’essere e del divenire storico degli uomini e delle società e, dunque, di-schiudendo alla piena comprensione della legge morale naturale iscritta (come “legge propria”) nell’uomo e, per ciò, il contesto morale entro cui gli uomini esercitano l’autonomia che gli è propria nell’uso delle realtà terrene.
Solo in questa prospettiva, ogni forma di conoscenza scientifica, di applicazione tecnica e di dottrina ed intervento socio-politico, possono dirsi effettivamente autonomi da ogni forma di schiavitù propria dei limiti della ragione umana e della sua pretesa, contraria a ragione, di auto-legittimazione e fondazione dell’intera esistenza; profilo, questo, che ha generato e continua a generare preoccupanti conseguenze specialmente evidenti nella società contemporanea.
Ne sono esempio – come da più parti segnalato – lo “smarrimento dell’istanza di verità della scienza, non poche volte ridotta ad un ruolo di puro funzionalismo pragmatico che ne facilita l’impiego in termini di mero profitto economico; lo studio, la produzione e l’utilizzo delle risorse del pianeta secondo modalità che non rispondono al progresso materiale e spirituale dei popoli. Ma soprattutto la legittimazione di interventi arbitrari che coinvolgono la vita umana nelle sue diverse fasi e, in concreto, in quelle in cui essa si trova meno protetta, pervenendo, in alcuni ambienti, a forme di manipolazione biologica, genetica, psicologica, segno eloquente di un modo di comprendere l’autonomia e libertà dell’uomo ormai separate dalla verità sull’uomo.
Dal pensiero cristiano, fondato sul messaggio biblico, la cultura odierna può ancora trarre notevoli ispirazioni per superare le conflittualità fra etica e tecnica, per riassegnare a tutte le cose, alla persona umana in primo luogo, il significato che queste posseggono nei piani del Creatore, e dunque restituirle alla loro verità e, con essa, alla propria autonomia”, avviando, così, quella necessaria e non più procrastinabile opera di rifondazione dell’immagine del pensiero moderno, che, trascinato dal primato della tecnica e del positivismo idealista, è, come segnalato da Martin Hollis – parafrasando la parabola platonica dell’anello di Gige – tutto rivolto a dis-velare il “come” delle cose, dimenticando che, nelle cose, esiste anche un “perchè”, il cui oblio è il primo, ma inesorabile passo verso lo scadimento etico dell’uomo e delle società.