“Ai vostri figli non chiedete: Come è andata a scuola?, ma: Che cosa hai imparato di bello oggi?”. Così Giovanni Fighera, professore di italiano e latino nei Licei, giornalista, scrittore e autore del libro intitolato Tra i banchi di scuola. Un’avventura sempre nuova edito da Ares.
Il libro è uno spaccato dell’esperienza di un professore tra gli studenti di oggi, con tanti, che cercano “sopravvivere alla scuola”.
Giovanni Fighera, già noto per aver pubblicato altri grandi titoli come Che cos’è dunque la felicità mio caro amico?, La Bellezza salverà il mondo, Amor che move il sole e l’altre stelle e Che cos’è mai l’uomo perché di lui ti ricordi?, racconta in modo concreto ed incalzante la propria esperienza nella scuola, tra lezioni, caffè letterari, compiti in classe, scrutini, cineforum e sospirate vacanze.
Parte del libro è dedicata proprio ai dubbi e alle aspirazioni di tanti studenti che, chiedono “perché studiare?” o “a cosa serve il latino?”. Così, quando l’autore prova a descrivere il significato del processo della conoscenza, emerge con stupore il desiderio di scoprire la natura e il fine dell’umano.
Per saperne di più ZENIT lo ha intervistato.
Tra i Banchi di scuola è dedicato non solo alla sua esperienza ma anche agli interrogativi dei ragazzi: quali sono?
Giovanni Fighera: La prima esigenza è quella della verità, così come è molto presente la domanda se esista l’amore vero. Spesso i ragazzi hanno davanti a loro un mondo di adulti in cui la testimonianza di un amore vero è castrata, eliminata. Ho in mente quanti studenti parlano dopo la conclusione di una loro storia sentimentale: di fronte al fatto che in famiglia non è testimoniata l’idea che possa esistere una storia continuativa pensano ‘ma probabilmente l’amore vero non esiste’. Eppure loro percepiscono questo, che l’amore o è per sempre o non è tale.
Lei si dedica anche a cineforum e caffè letterari… Normalmente cosa leggono e guardano i ragazzi?
Giovanni Fighera: Mi ricordo un mio studente di Milano, qualche anno fa, quando mi aveva raccontato che forse aveva compreso dove potesse essere la felicità: ‘sa, ho visto ‘Notte prima degli esami’, in cui un personaggio che interpretava l’insegnante diceva: Leopardi dice che non ha senso quello che rimane e quello che ci sarà alla fine della meta, ma quello che noi percepiamo nell’istante durante il percorso’. Quel professore interpretava Leopardi in maniera erronea, ma in realtà questo ragazzo aveva colto il messaggio che la società di oggi comunica: un piacere fine a sé stesso, un’emozione forte completamente sciolta da quello che è il bene e il desiderio di compimento di un giovane. Uno studente in un suo diario mi scriveva ‘Noi ragazzi di oggi prof. viviamo in apnea tutta la settimana, sopravviviamo durante la settimana per poi vivere il sabato sera’. Una grande responsabilità è quella della cultura,con libri che esaltano l’amore libero e il sesso sfrenato come ‘Le sfumature in grigio’ o gli ultimi libri di Fabio Volo.
C’è una certa tendenza a vergognarsi di fronte all’argomento della famiglia e dell’amore eterno: in classe come affronta con i ragazzi questo tema?
Giovanni Fighera: Quello che è fondamentale è che nella vita valgono molto più le testimonianze che le prediche, per cui non si tratta semplicemente di raccontare, ma si tratta di testimoniare un’esperienza di amore per l’eternità. Però la testimonianza passa attraverso un volto lieto: è chiaro che uno studente percepisce dal volto che hai in classe, se l’esperienza che stai facendo è bella.
Dico sempre ai ragazzi, riguardo all’esperienza che chiunque faccia dell’amore, che l’amore per essere tale deve essere eterno. Anche se la parola eterno ci spaventa, in realtà è quello che desideriamo: quando iniziamo un’avventura, anche di amicizia, vorremmo che quel rapporto non finisse mai, altrimenti vuol dire che quel sentimento ha qualcosa di fasullo in sé.
Quale modello dovrebbe fornire un insegnante in classe?
Giovanni Fighera: Un giorno la mia figlia maggiore Beatrice aveva detto alla più piccola: “Cristina, tu fai come sto facendo io, perché io faccio come fa papà”. Ho pensato ‘guarda la semplicità di un bambino nel cogliere la verità dell’avere bisogno di un maestro’: una persona cresce per imitazione, e maestro è colui che ci prende per mano con un ‘lieto volto’, come dice Dante nel canto III dell’Inferno. Dante ha bisogno di un Virgilio per entrare nella porta dell’Inferno, che lo tenga per mano con un lieto volto e lo metta ‘dentro a le segrete cose’ cioè che lo immetta nell’avventura della vita. Tutti abbiamo bisogno di maestri, di figure che non presentano sé stesse come la risposta al desiderio di felicità dell’uomo, ma che fanno compagnia nel cammino verso la meta, il bene.
Racconto sempre ai ragazzi, quando studiamo Leopardi, che lui aveva capito bene: l’altro, la persona amata, è compagno, non risposta al suo desiderio di felicità. Leopardi aveva messo in luce che il desiderio di felicità dell’uomo è di infinito. Quando parlo di questo ai miei studenti dico: “Pensate come molto spesso le storie sentimentali o di amicizia muoiono nel momento in cui uno tratta l’altro come la risposta a questo desiderio infinito. Se invece uno fosse ben cosciente della natura dell’animo umano, capirebbe che l’altro può essere compagnia nel cammino, altrimenti viene trattato per quello che non è”.
E’ possibile condividere anche esperienze concrete con i ragazzi?
Giovanni Fighera: Dopo un percorso sull’educazione alla carità generalmente invito i ragazzi alla colletta alimentare, alla quale liberi di partecipare o meno: nel contempo però invito anche i miei amici e la mia famiglia, per cui i ragazzi si trovano di fronte mia moglie, le figlie e gli amici. Altre volte con gli ex-alunni si mantiene un rapporto di amicizia: vengono da me e li invito a cena, anche con la mia famiglia. Ricordandomi di come ero io a vent’anni, non c’è niente di più importante che avere davanti l’esperienza della famiglia, che è bella.
Storie come quella di Chiara Corbella è possibile raccontarle per parlare di fede? Come mai ne è rimasto coinvolto?
Giovanni Fighera: A me aveva sempre colpito anche la figura di santa Gianna Berretta Molla, una santa che proviene dalla famiglia: quando ho sentito la storia di Chiara Corbella sono andato a cercare su internet e ho visto il volto di questa ragazza: ho visto la letizia nei suoi occhi, anche quando il cancro era ormai conclamato e le avevano detto che non c’era più alcuna speranza: c’era una speranza più grande in lei rispetto alla non- speranza di vita qui sulla terra; lei pur chiedendo la guarigione aveva comunque la certezza dell’eternità, per cui una volta nati ‘non moriremo mai più’; mi aveva colpito che nonostante le fossero nati dei figli vissuti per poche ore, li aveva amati come se quelle ore fossero eterne ed era grata che questi bambini fossero venuti alla luce, perché ormai sarebbero vissuti per sempre: un bambino nato è per sempre.
Ho avuto l’occasione di raccontare ai ragazzi che cosa significa ‘fede’. La fede nel campo religioso è della stessa natura della fede nel campo culturale e nel quotidiano: noi crediamo sempre a dei testimoni che siano credibili: una volta ho detto “Ragazzi, vedete, voi applicate tutti i giorni la fede!” “Come è possibile?”“Sì, l’applicate tutti i giorni: nel momento in cui prendete appunti sbobinate, scrivete tutto e non andate a controllare nemmeno sul libro significa che voi vi fidate del testimone che avete davanti”.
La cultura stessa si basa sul criterio della fede, perché l’evoluzione scientifica non rimette in discussione tutto, non si riparte a dover scoprire la ruota o il fuoco,ma si parte da quei risultati consegnati dalle generazioni precedenti. Quindi il criterio della fede è il primo criterio di conoscenza, il primo criterio che noi utilizziamo nella vita quotidiana.
La fede ha a che fare con la ragione, perché si basa sulla credibilità, sulla ragionevolezza di alcuni testimoni. Noi non crediamo a tutti, ci possono essere persone che ci raccontano qualcosa che non sono per noi credibili. Chiara Corbella è stata per me una testimonianza estremamente credibile.