San Valentino, tra storia e culto

Per conoscere meglio colui che è diventato il patrono delle coppie di fidanzati di tutto il mondo

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La più antica notizia sul culto di San Valentino di Terni in Umbria è contenuta nelMartirologio Geronimiano, una sorta di calendario della Chiesa universale attribuito a San Girolamo, compilato forse nell’Italia settentrionale, verosimilmente ad Aquileia o a Milano, tra il 431 e il 450 e oggetto più tardi di altre recensioni e manipolazioni.

Il Geronimiano, nel più antico dei manoscritti che ce lo trasmette e che da solo ne costituisce la prima famiglia, posto sotto la data del 14 febbraio, la memoria di Valentino presso la comunità cristiana ternana ed è così generalmente restituita “Interamne in Flamminia natale Valentini”. Del Santo non si dice altro, nemmeno del suo eventuale grado ecclesiastico; si ricava che fosse martire solo dalla costatazione che la maggior parte dei santi elencati nel Geronimiano rivestono tale dignità.

La questione agiografica – ancora ampiamente dibattuta – si fa più complessa quando nel VI secolo un certo Valentino presbitero di Roma, che non è menzionato nel Geronimiano, compare con una parte di rilievo nella Passione di Maris, Marta, Audiface e Abacuc martiri presso Boccea al tredicesimo miglio della Via Cornelia. In questa Passione Valentino è configurato come un taumaturgo che guarisce dalla cecità la figlia del princeps Asterio, in nome della fede in Cristo vera luce, e per aver battezzato lei, il padre e tutti membri della famiglia. Il fatto comporta la pena capitale per decapitazione di tutti i protagonisti fuori dalle mura di Ostia il 18 gennaio ad esclusione di Valentino, che invece la trova – proprio come il martire ternano – il 14 febbraio sulla Via Flaminia durante l’impero di Claudio II (268-270).

Non è ancora chiaro se il corpo del martire fu inizialmente sepolto nella limitrofa catacomba del III secolo, per poi essere traslato nella basilica o se, in realtà, fu sepolto all’esterno in un sarcofago intorno al quale si formò un’area venerata quadrangolare, recintata, con una piccola abside scavata nella roccia, poi inglobata nella basilica costruita da papa Giulio I (337-352) al secondo miglio della Via Flaminia. Le reliquie del martire furono traslate successivamente nel sacello di San Zenone, presso la Basilica di Santa Prassede, costruito da papa Pasquale I (817-824) come mausoleo per sua madre Teodora, decretando il progressivo ed inesorabile declino del sito valentiniano flaminio. Il dibattito non riesce ancora a far luce sulla verità storica di Valentino e le interpretazioni finora avanzate sono le più disparate.

Una corrente di pensiero riconoscerebbe solo il martire romano, un’altra solo quello ternano, un’altra ancora li sdoppierebbe mentre si è più volte proposto di identificarli in un unico personaggio. Le disquisizioni in merito non aiutano certo a sbrogliare la vexata quaestiodell’identificazione agiografica e della collocazione cronologica e geografica che si avvale solo delle scarse informazioni contenute nelle fonti, le quali indubbiamente – come sostiene Emore Paoli – sembrano provocare nelle traduzioni successive “pericolose scollature fra Valentino e la sua città”. Tuttavia la solidità del culto trova maggior riscontro e continuità a Terni, città natale di una tale Veneriosa, nata in civitate Interamniatum nel 355 e sepolta nel 359 presso il cimitero valentiniano romano a conferma di un rapporto diretto tra i ternani e il Valentino di Roma.

La Passione di quest’ultimo, che si ritiene priva di valore storico, è riassunta da Beda († 735) sotto la data del 14 febbraio, la prima volta in cui in un martirologio è registrata la commemorazione del Santo oltre a quella di Valentino di Terni per il quale dedica più di una riga dimostrando di aver attinto ad un’altra fonte e cioè alla Vita Sancti Valentini composta entro il 725. Questo testo inizia col presentare tre nobili ateniesi, Procolo, Efebo e Apollonio, studiosi di lingua greca, i quali giungono a Roma per dedicarsi allo studio della retorica latina presso il maestro Cratone, il cui unico figlio Cheremone si trova affetto da una incurabile infermità fisica, forse l’epilessia. Un tale di nome Pompeio riferisce al padre del ragazzo che un morbo simile aveva colpito anche suo fratello, il quale guarì dopo essersi recato da un certo Valentino cittadino di Terni. Spinto dalla disperazione Cratone invita a Roma Valentino e gli promette, in cambio della guarigione del figlio, metà delle proprie sostanze.

Dopo un lungo colloquio, conclusosi col consenso di Cratone a farsi battezzare, Valentino ordina di sistemare una piccola stanza dove potersi ritirare in preghiera insieme a Cheremone, il quale viene fatto stendere sopra un cilicio. Valentino veglia sul ragazzo malato per tutta la notte fino a quando, al bagliore di una luce improvvisa, costui inizia a dare i primi segni di guarigione. Consegnato il giovane completamente risanato alla famiglia, Cratone si fa battezzare insieme ai suoi congiunti, ma non riesce a far recedere il figlio dal proposito di seguire Valentino. Anche Procolo, Efebo ed Apollonio, sbigottiti, abbandonano gli studi e seguono Valentino. Tramite il loro esempio si converte un buon numero di scolastici, tra i quali Abbondio, figlio del praefectus urbis. Tali avvenimenti irritano però i pagani che incitano il prefetto a decretare la decapitazione di Valentino, la quale avvenne celermente e tacitamente di notte, il 14 febbraio, al LXIII miglio della Via Flaminia. Procolo, Efebo e Apollonio, allora, la notte stessa dell’omicidio, riportano a Terni il corpo di Valentino e lo seppelliscono devotamente in un cimitero suburbano. La loro stessa conversione giunge al console Leonzio che, temendo una sollevazione di popolo, li processa pochi giorni dopo e li condanna alla pena capitale che si tenne poco tempo dopo.

I loro corpi privi di vita vengono deposti da Abbondio, presso il sepolcro di Valentino. Come asserisce Francesco Scorza Barcellona in un suo recente lavoro, la Vita Valentini “anteriore al Martirologio di Beda in cui è riassunta, senza riferimenti cronologici e a fatti esterni (nulla ci dicono i nomi del prefetto Placido e del consolare Leonzio) non offre alcun elemento sulla vicenda del protagonista”. Nell’esaminare il Valentino ternano molto probabilmente l’autore si è ispirato alla Passionedel martire romano almeno per quel che riguarda la dimensione taumaturgica del protagonista, ma se ne distacca quando propone l’immagine ideale di Valentino “beatus vir interamnensis episcopus” e ciò lo fa, segue Scorza Barcellona, “nell’ottica del suo autore e del pubblico per cui l’ha scritta”.

È quanto sostiene la critica contemporanea meritoria di aver restituito il testo della Vitaal suo ruolo originario, cioè quello che, secondo le osservazioni del Paoli, si allaccerebbe alla prerogativa monastica corroborata dalla considerazione che, almeno dal IX secolo la basilica ternana di San Valentino era di pertinenza benedettina. L’autore della Vita non calcò la mano sulle qualifiche del santo, attribuendo ad esso più del dovuto, riguardo la sua carica di vescovo o circa il suo martirio; tali erano caratteristiche canoniche replicate infinitamente nelle vite dei martiri. Valentino è ritratto come un uomo “che compie positivamente il bene, con la predicazione e i miracoli”, non come un “martire che si oppone ai persecutori e resiste ai tormenti”. L’intero testo della Vita è un’apologia della fede cristiana con un persistente approccio alla spiritualità monastica.

Valentino catechizza i presenti annunciando fondati principi teologici, prosegue Scorza Barcellona, “fa guarire Cheremone chiedendo il silenzio per un giorno intero, chiudendo la porta della cella in cui si è ritirato con il giovane malato, la necessità della separazione dal mondo, il cilicio su cui depone Cheremone è una veste penitenziale, su cui egli stesso soleva pregare, la porta della cella non è riaperta prima che si sia concl
usa la recita delle preghiere e degli inni prescritti. Si tratta inoltre di una spiritualità che si pone in contrapposizione con la cultura profana – chiosa Scorza Barcellona –: Valentino riesce a ottenere la guarigione di Cheremone laddove i medici hanno fallito; dopo il miracolo e il battesimo, Cheremone non si vuole più separare da Valentino, Procolo Efebo e Apollonio, seguiti poi da una moltitudine di altri studiosi, lo seguono, abbandonando le umane lettere”.

Alcuni recenti studi hanno riaperto il dibattito sulla quaestio di san Valentino, minandone addirittura alcuni punti fermi, sia dal punto di vista cronologico che agiografico, arrivando a concludere che costui fosse veramente vissuto a Terni trovando la morte a Roma, ma non a causa delle persecuzioni e tanto meno per decapitazione – come invece vorrebbe la traditio supportata anche da un filone della rappresentazione figurativa moderna – ma per colpa dei frequenti conflitti tra cristiani e pagani. La Vita Santi Valentini ebbe il merito di sigillare la fama sanctitatis del personaggio ternano permettendone la regolamentazione del culto e la diffusione dell’immagine di vescovo e martire, specialmente in ambito benedettino.

Dal punto di vista storico questo testo non ha alcun valore in quanto non menziona alcun riferimento circa l’epoca in cui si svolge lasciando aperto un capitolo fondamentale per la veridicità del personaggio. Visto che il dibattito è ancora aperto – e sarà sicuramente ricco di ulteriori rivelazioni – si può cautelativamente sintetizzare la questione affermando con Scorza Barcellona ciò che dicono i documenti in nostro possesso e cioè che “Valentino di Roma fu un martire venerato in quella cittàgià prima della metà del IV secolo, quando sul suo sepolcro fu eretta da papa Giulio I una basilica cimiteriale. La sua identità si confuse con quella di un omonimo santo, Valentino di Terni, il cui culto fu documentato per la città umbra alla metà del secolo V ivi venerata fino a giungere alla città di origine. (…) Nella storia del culto dei santi, Valentino di Terni – vescovo e taumaturgo secondo la sua Passione, anch’essa di nessun valore storico – ha avuto una fortuna preponderante sull’omonimo martire romano, tanto più per quella tradizione, già documentata tra Medioevo ed Età moderna, che ne ha fatto il patrono degli innamorati”, anche se un ruolo fondamentale lo hanno avuto gli scriptoria monastici, che ne diffusero il modello agiografico all’interno delle abbazie.

Questo testo sarebbe servito da lectioper l’Ufficio del 14 febbraio; ne è una conferma il calendario liturgico e zodiacale, dipinto nella chiesa di San Pellegrino a Bominaco in Abruzzo, riferibile alla prima metà del XIII secolo dove al 14 febbraio si fa memoria di “Sanctus Valentinus episcopus et martyr” modello perfetto della condotta spirituale di un buon abate. E il fatto che il Valentino di Terni venga descritto come un vescovo lo si potrebbe dedurre considerando che, all’epoca della stesura della Vita, la diocesi di Terni era amministrata dal presule di Narni. Il monastero valentiniano con le pertinenze limitrofe potrebbe allora aver goduto per un certo periodo dell’abate mitrato, preposto cioè ad un’abbazia nullius dioecesis, capace di governare il territorio sottratto alla giurisdizione  episcopale; pertanto, l’icona agiografica di san Valentino divenne quella del pastore e guida di coloro per cui è stato chiamato, così come fa l’abate nei confronti dei suoi monaci.

È quindi merito dei benedettini se l’icona di san Valentino scavalcò i confini d’Italia penetrando nell’Europa centrale ed in particolare in Germania, dove il culto si fuse con quello per un altro santo omonimo patrono della diocesi di Passau, vescovo della Rezia (Lorch), documentato nel VI secolo, festeggiato il 7 gennaio, anch’egli invocato contro l’epilessia (caratteristica apportatagli dal Valentino romano/ternano) e come protettore degli animali domestici (soprattutto nel Sud-Tirolo). Una considerazione a parte merita però il san Valentino venerato a Viterbo il 3 novembre, anch’egli presbitero e martire, da molti erroneamente identificato con il santo ternano. Si tratta di un personaggio documentato da una Passione dell’VIII secolo che narra le gesta taumaturgiche dello stesso associate a quelle del diacono Ilario, che gli procurarono la denuncia e il martirio sotto l’imperatore Diocleziano (284-305) in un luogo denominato Camillarius. Il culto di questo Santo si sparse soprattutto nella Tuscia fomentato dai monaci dell’abbazia di Farfa, che assunsero per secoli la custodia delle reliquie nella propria chiesa.

* Testo tratto da GIUSEPPE CASSIO, “San Valentino”Velar-Elledici. 

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ZENIT Staff

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