Flickr - CCEW - Mazur, CC BY-NC-SA 2.0

"Non siate giovani-divano. Siate protagonisti della storia e lasciate un'impronta!"

Monumentale discorso del Papa alla Veglia della Gmg al Campus Misericordiae: l’appello alla fine di ogni guerra e a non vegetare perché “Dio vuole titolari in campo, non riserve”

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Fraternità. Pace. Dialogo. Testimonianza. Preghiera. In un’Europa ferita da giovani che si fanno saltare in aria per false ideologie, anestetizzati davanti ad un iphone in cerca di Pokemon, o disperati davanti al non-senso della propria vita, Papa Francesco, nella Veglia di preghiera al Campus Misericordiae di Cracovia, offre una prospettiva diversa.

La prospettiva della felicità, ma non quella che equivale alla comodità: la “divano-felicità” che è una “paralisi silenziosa che ci può rovinare”, bensì la felicità data dall’incontro con Cristo e con gli altri. Dunque quel “costruire ponti e non muri” predicato dal primo istante del suo viaggio in Polonia. “Noi adesso non ci metteremo a gridare contro qualcuno, non ci metteremo a litigare, non vogliamo distruggere. Noi non vogliamo vincere l’odio con più odio, vincere la violenza con più violenza, vincere il terrore con più terrore” afferma il Papa dal grande palco, dove alle spalle c’è ancora l’immagine del Gesù Misericordioso di Santa Faustina Kowalska. 

In questa serata fulcro dell’intera Giornata Mondiale della Gioventù, alla quale – secondo gli organizzatori – si contano oltre un milione e seicentomila presenze, il Successore di Pietro parla al mosaico multiculturale di ragazzi e ragazze venuti da ogni angolo del globo, ma rivolge una parola personale ad ognuno di loro. Inizia a farlo rispondendo alla domanda di Rand, giovane siriano tra i tre chiamati ad offrire la loro testimonianza. “Vi chiedo sinceramente di pregare per il mio amato paese”, diceva il ragazzo al termine del suo coraggioso e commovente intervento. “Una storia segnata dalla guerra, dal dolore, dalla perdita, che termina con una richiesta: quella della preghiera. Che cosa c’è di meglio che iniziare la nostra veglia pregando?”, domanda Francesco.

“Veniamo da diverse parti del mondo da continenti, paesi, lingue, culture, popoli differenti – osserva -. Siamo ‘figli’ di nazioni che forse stanno discutendo per vari conflitti, o addirittura sono in guerra. Altri veniamo da paesi che possono essere in ‘pace’, che non hanno conflitti bellici, dove molte delle cose dolorose che succedono nel mondo fanno solo parte delle notizie e della stampa”. “Ma siamo consapevoli di una realtà: per noi, oggi e qui, provenienti da diverse parti del mondo, il dolore, la guerra che vivono tanti giovani, non sono più una cosa anonima, non sono più una notizia della stampa, hanno un nome, un volto, una storia, una vicinanza”.

Pertanto, la guerra in Siria non è un fatto di cronaca estera ma “il dolore e la sofferenza di tante persone, di tanti giovani”. “Ci sono situazioni che possono risultarci lontane fino a quando, in qualche modo, le tocchiamo” evidenzia il Pontefice, “ci sono realtà che non comprendiamo perché le vediamo solo attraverso uno schermo (del cellulare o del computer)”. Ma “quando prendiamo contatto con la vita, con quelle vite concrete non più mediatizzate dagli schermi, allora ci succede qualcosa di forte, sentiamo l’invito a coinvolgerci”.

“Basta città dimenticate” diceva Rand; e Bergoglio fa eco: “Mai più deve succedere che dei fratelli siano circondati da morte e da uccisioni sentendo che nessuno li aiuterà”. L’invito è quindi “a pregare insieme a motivo della sofferenza di tante vittime della guerra”, affinché una volta per tutte “possiamo capire che niente giustifica il sangue di un fratello, che niente è più prezioso della persona che abbiamo accanto”.

Oltre alle guerre che segnano il mondo, il Vescovo di Roma parla anche di altri tipi di guerre: quelle “interiori” denunciate nei loro discorsi da Natalia e Miguel. “La nostra migliore parola, il nostro miglior discorso sia unirci in preghiera” dice, e domanda di fare un momento di silenzio e pregare per tutti coloro per cui “la famiglia è un concetto inesistente, la casa solo un posto dove dormire e mangiare”, o per quelli “che vivono nella paura di credere che i loro errori e peccati li abbiano tagliati fuori definitivamente”.

“Mettiamo alla presenza del nostro Dio anche le vostre ‘guerre’, le lotte che ciascuno porta con sé, nel proprio cuore”, esorta Bergoglio. Poi, dopo una pausa di intenso silenzio interrotta da un applauso, riprende la catechesi e parla di paura la stessa che attanagliava gli Apostoli prima della Pentecoste e che porta alla “chiusura”. Quando “la paura si rintana nella chiusura, va sempre in compagnia di sua ‘sorella gemella’, la paralisi; sentirci paralizzati”, spiega. “Sentire che in questo mondo, nelle nostre città, nelle nostre comunità, non c’è più spazio per crescere, per sognare, per creare, per guardare orizzonti, in definitiva per vivere, è uno dei mali peggiori che ci possono capitare nella vita. La paralisi ci fa perdere il gusto di godere dell’incontro, dell’amicizia, il gusto di sognare insieme, di camminare con gli altri”.

Ma nella vita, ammonisce il Papa, c’è un’altra paralisi ancora più pericolosa “che nasce quando si confonde la felicità con un divano”. Si crede, cioè, “che per essere felici abbiamo bisogno di un buon divano” che “ci aiuti a stare comodi, tranquilli, ben sicuri”. Un divano “come quelli che ci sono adesso, moderni, con massaggi per dormire inclusi, che ci garantiscano ore di tranquillità per trasferirci nel mondo dei videogiochi e passare ore di fronte al computer”. Un divano “contro ogni tipo di dolore e timore”, che “ci faccia stare chiusi in casa senza affaticarci né preoccuparci”.

Ma questa “divano-felicità” è invece una paralisi silenziosa che “senza rendercene conto” ci fa ritrovare “addormentati, imbambolati e intontiti mentre altri – forse più vivi, ma non più buoni – decidono il futuro per noi”. “Sicuramente, per molti è più facile e vantaggioso avere dei giovani imbambolati e intontiti”, piuttosto “che avere giovani svegli, desiderosi di rispondere al sogno di Dio e a tutte le aspirazioni del cuore”, osserva il Pontefice.

Ma la verità è un’altra: “Non siamo venuti al mondo per ‘vegetare’, per passarcela comodamente, per fare della vita un divano che ci addormenti; al contrario, siamo venuti per un’altra cosa, per lasciare un’impronta”. “È molto triste – rileva Francesco – passare nella vita senza lasciare un’impronta. Ma quando scegliamo la comodità, confondendo felicità con consumare, allora il prezzo che paghiamo è molto ma molto caro: perdiamo la libertà”.

Attenzione allora a pensare che è felice chi nella vita cammina “addormentato o narcotizzato” e che “l’unico modo di essere felice è stare come intontito”. “È certo che la droga fa male, ma ci sono molte altre droghe socialmente accettate che finiscono per renderci molto o comunque più schiavi. Le une e le altre ci spogliano del nostro bene più grande: la libertà”, sottolinea il Papa.

E indica, dunque, l’unica direzione dove libertà e felicità raggiungono la loro pienezza: Gesù. Lui “è il Signore del rischio, del sempre oltre” e non “il Signore del confort, della sicurezza e della comodità”. “Per seguire Gesù – afferma il Santo Padre – bisogna avere una dose di coraggio, bisogna decidersi a cambiare il divano con un paio di scarpe che ti aiutino a camminare su strade mai sognate e nemmeno pensate, su strade che possono aprire nuovi orizzonti, capaci di contagiare gioia, quella gioia che nasce dall’amore di Dio”.

Bisogna allora “andare per le strade seguendo la ‘pazzia’ del nostro Dio che ci insegna a incontrarlo nell’affamato, nell’assetato, nel nudo, nel malato, nell’amico che è finito male, nel detenuto, nel profugo e nel migrante, nel vicino che è solo”. Andare per le strade del nostro Dio “che ci invita ad essere attori politici, persone che pensano, animatori sociali” e che “ci stimola a pensare un’economia più solidale”.   

Forse qualcuno può dire: “Padre, ma questo non è per tutti, è solo per alcuni eletti!”; gli eletti “sono tutti quelli che sono disposti a condividere la loro vita con gli altri”, spiega il Papa. “Tutti – dice – siamo chiamati a sperimentare”, perché Dio da tutti si aspetta qualcosa. “Dio vuole qualcosa da te, Dio aspetta te. Dio viene a rompere le nostre chiusure, viene ad aprire le porte delle nostre vite, delle nostre visioni, dei nostri sguardi. Dio viene ad aprire tutto ciò che ti chiude. Ti sta invitando a sognare, vuole farti vedere che il mondo con te può essere diverso”.

E “se tu non ci metti il meglio di te, il mondo non sarà diverso”. Soprattutto il mondo di oggi che – insiste il Papa – “non ha bisogno di giovani-divano, ma di giovani con le scarpe, meglio ancora, con gli scarponcini calzati. Accetta solo giocatori titolari in campo, non c’è posto per riserve”. “Il mondo di oggi vi chiede di essere protagonisti della storia perché la vita è bella sempre che vogliamo viverla, sempre che vogliamo lasciare un’impronta. La storia oggi ci chiede di difendere la nostra dignità e non lasciare che siano altri a decidere il nostro futuro”. E questo si può fare con le nostre mani, anche se sono quelle di un peccatore, perché “quando il Signore ci chiama non pensa a ciò che siamo, a ciò che eravamo, a ciò che abbiamo fatto o smesso di fare” rassicura Bergoglio. 

“Per questo, amici, oggi Gesù ti invita, ti chiama a lasciare la tua impronta nella vita. Un’impronta che segni la storia, che segni la tua storia e la storia di tanti”, conclude. Prima, però, raccomanda di costruire ponti perché “la vita di oggi ci dice che è molto facile fissare l’attenzione su quello che ci divide, su quello che ci separa. Vorrebbero farci credere che chiuderci è il miglior modo di proteggerci da ciò che ci fa male. Oggi noi adulti – ribadisce Francesco – abbiamo bisogno di voi, per insegnarci a convivere nella diversità, nel dialogo, nel condividere la multiculturalità non come una minaccia ma come un’opportunità: abbiate il coraggio di insegnarci che è più facile costruire ponti che innalzare muri!”

E il primo ponte da costruire si può realizzare subito. Come? “Stringerci la mano, darci la mano. Forza, fatelo adesso, qui, questo ponte primordiale, e datevi la mano” urla Papa Francesco dal palco. “È il grande ponte fraterno, e possano imparare a farlo i grandi di questo mondo! Ma non per la fotografia che si danno la mano e poi pensano ad un’altra cosa, bensì per continuare a costruire ponti sempre più grandi”. Ricordando che “chi non rischia, non vince”. 

[Dal nostro inviato a Cracovia]

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Salvatore Cernuzio

Crotone, Italia Laurea triennale in Scienze della comunicazione, informazione e marketing e Laurea specialistica in Editoria e Giornalismo presso l'Università LUMSA di Roma. Radio Vaticana. Roma Sette. "Ecclesia in Urbe". Ufficio Comunicazioni sociali del Vicariato di Roma. Secondo classificato nella categoria Giovani della II edizione del Premio Giuseppe De Carli per l'informazione religiosa

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