La parola a Parolin

Il nuovo Segretario di Stato traccia le linee della politica estera di Bergoglio

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La prima caratteristica dei diplomatici, quale si rivela agli interlocutori – e si accentua inevitabilmente quando il colloquio è destinato alla pubblicazione – è quel modo di esprimersi indiretto e allusivo che si designa per l’appunto con lo stesso nome della loro funzione. 

Monsignor Parolin, nuovo Segretario di Stato del Vaticano e prossimo Cardinale, sembra fare vistosamente eccezione a questa regola.  Chi è abituato a leggere le interviste con i nostri politici, trova che essi sono molto “diplomatici” nel modo di esprimersi, e dunque constata con soddisfazione come il diplomatico Parolin parli invece con assoluta franchezza, senza perifrasi né oscurità di linguaggio. Questa è l’impressione che si trae dalla lettura della sua intervista con “Avvenire” di domenica 9 febbraio. 

Il Segretario di Stato esordisce, in un ambiente in cui molti solgono accentuare, se non millantare, antiche amicizie e relazioni personali privilegiate, dicendo con franchezza: “Effettivamente conoscevo poco Papa Francesco”. Ciò significa che il Papa venuto da lontano, non avendo particolare familiarità con le persone inserite nella Curia, è ben lungi dall’intenzione di costituire o di favorire le cosiddette “cordate” di alti prelati. 

Dovendo scegliere un nuovo Segretario di Stato, essendo stata procrastinata la nomina da parte del predecessore, Bergoglio ha dunque attinto dal personale diplomatico della Santa Sede, riprendendo una tradizione che privilegia l’esperienza professionale e la competenza guadagnata sul campo. 

Ci sono dunque tutti i presupposti perché la politica estera del Vaticano ritrovi in pieno quel prestigio e quella efficienza che l’hanno contraddistinta per tradizione secolare. 
Quanto alla concordanza nell’ispirazione e nei fini con il Papa, Parolin – che ha svolto tutta la sua carriera nei Paesi in sviluppo, ed in particolare nell’America Latina – dice di essere “profondamente identificato” in uno stile fatto di “semplicità, apertura, vicinanza, serenità e gioia. Uno stile il più possibile simile a quello di Gesù Buon Pastore”. 

La Segreteria di Stato è perfettamente allineata con il Pontefice: essa dovrà “assumere con cordiale e totale disponibilità la conversione pastorale proposta da Papa Francesco; anzi, diventarne, in un certo senso, un modello per l’intera Chiesa”. Qualcuno, dice l’intervistatore, contrappone il dialogo alla “intransigenza nella difesa dei principi. Sono contrapposizioni vere?”. 

Il cattolico, risponde Parolin, “è la persona dello “et – et” e non dello “aut – aut” Cristiani, dice Parolin, devono ispirarsi alle parole di San Pietro: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi, ma fatelo con dolcezza, rispetto e retta coscienza”. I cristiani non devono dunque imporre, ma proporre la loro fede. Ed è compito della diplomazia dedicarsi “alla libertà religiosa e alla pace nel mondo”: non la libertà religiosa soltanto per i Cattolici, ma per tutti, non la pace soltanto per i Cattolici, ma per tutti. 

Tra le diverse confessioni, soltanto la Chiesa Cattolica, per via della personalità di Diritto Internazionale attribuita alla Santa Sede, può agire nella Comunità degli Stati, ma essa agisce non soltanto a beneficio proprio, bensì di tutte le religioni, e questo contribuisce ad accrescere la loro complessiva influenza. 

Mons. Parolin non sembra animato da intenzioni egemoniche: “In un mondo plurale, che anzi rischia la frammentazione, la diplomazia vaticana può e deve affiancarsi agli uomini e ai popoli per aiutarli a rendersi conto che le loro differenze sono una ricchezza e una risorsa, e per contribuire a fare convergere tali differenze, nella maniera più armoniosa possibile, alla costruzione di un mondo umano e fraterno”. 

L’esaltazione delle identità religiose, nella condizione attuale del mondo, aumenterebbe inevitabilmente le contrapposizioni, e finirebbe per compromettere la solidarietà necessaria per ricercare insieme la giustizia. Tuttavia, dato che le differenze costituiscono una risorsa, la Chiesa non si oppone alla loro preservazione, né alla loro affermazione, quale si esprime – Parolin lo sa bene, in quanto studioso del Diritto Internazionale – con l’autodeterminazione dei popoli. 

Il mondo che il Papa ed il Segretario di Stato hanno in mente è dunque “e pluribus unum”, dove l’unità è vissuta nello spirito, nella fede e nella ricerca solidale della giustizia, mentre il pluralismo si afferma nelle diverse culture. 

La Curia, nel suo complesso – e qui Parolin prescinde dalla specifica funzione della Segreteria di Stato – non deve essere né centrale di comando, né organo di controllo. 
“C’è sempre – egli dice – il pericolo di abusare del potere, grande o piccolo, che abbiamo nelle nostre mani”; e dunque “non basta una riforma delle strutture, che pure ci deve essere, se non è accompagnata da una permanente conversione personale”. 

“I compiti e gli obiettivi della diplomazia pontificia sono quelli indicati” dal Papa: “Costruire ponti, nel senso di promuovere il dialogo e il negoziato come mezzo di soluzione dei conflitti, diffondere la fraternità, lottare contro la povertà, edificare la pace”. Il primo esempio di questa politica è stato rappresentato, dice Parolin, dall’intervento del Papa sulla crisi in Siria. 
Questa situazione è d’altronde paradigmatica di molte altre: da un lato si deve impedire la degenerazione e l’ampliamento dei conflitti, che deriva da ogni intervento esterno, ma il necessario negoziato conduce altrettanto inevitabilmente al riconoscimento dei diritti che sono stati conculcati. 

Parolin respinge con sdegno l’accusa di essere “marxista”, rivolta al Papa da certi ambienti tradizionalisti, che d’altronde lo imputano anche di “massoneria” o di “modernismo”. 
“E’ marxismo, dice il Segretario di Stato, esortare alla solidarietà disinteressata e a un ritorno dell’economia e della finanza a un’etica in favore dell’essere umano?”. “Dulcis in fundo”, l’inevitabile domanda sul contenzioso tra Conferenza Episcopale e Segreteria di Stato per quanto riguarda i rapporti con l’Italia. 

Qui la risposta è addirittura folgorante, e si può riassumere nel “né tu, né io”. Premesso che il bene comune “è l’aspirazione sincera nei confronti del Paese”, e cade dunque quel richiamo ai “valori non negoziabili” per cui l’Italia ha rischiato di ritornare a contrapposizioni artificiose, che avrebbero compromesso il necessario sforzo solidale di tutti i cittadini, Parolin dice “che, come afferma il Concilio Vaticano II, l’animazione cristiana dell’ordine temporale è compito specifico dei laici”. 

Nessuno dei quali, ci permettiamo di aggiungere, può attaccarsi l’etichetta di rappresentante ufficiale della Santa Sede. Il metro torna ad essere la coscienza, e la Chiesa si propone per l’appunto di affermare la libertà di coscienza. Non rimane che offrire a monsignor Parolin la nostra modesta interlocuzione, e il granello di sabbia della nostra collaborazione, augurandogli di cuore buon lavoro. 

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Alfonso Maria Bruno

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