«Di nuovo dall’assorta fronte i tuoi pensieri che ritrovi fra i famigliari oggetti incantano, ma, carezzevole, la tua parola rivivere già fa, più a fondo, il brevemente dolore assopito di chi t’amò e perdutamente a solo amarti nel ricordo è ora punito».
Gli struggenti versi di Giuseppe Ungaretti sono la porta che si apre sulla Giornata della Memoria, che martedì vedrà tutta l’Italia guardare a Locri ed alle manifestazioni promosse nella cittadina ionica a ricordo delle vittime delle mafie. Un giorno non di lutto, ma di fiducia e di speranza, a sottolineare l’importanza della memoria, ponte fra passato e presente e pungolo per la coscienza a non dimenticare i tanti che, per non piegarsi allo strapotere mafioso, sono stati uccisi.
La pubblica memoria di queste numerose vittime di mafia, curata con affettuosa dedizione da più di vent’anni dall’associazione “Libera”, è un modo, formando le coscienze, per prevenire e contrastare la cultura mafiosa. Per dire mai più: mai più morti, mai più delitti. È la consapevolezza da nutrire mentre ci si stringe ai familiari dei caduti in quella che, per molti aspetti, è una guerra. Memoria è pure un monito a non vanificare tanti dolori e così grandi sacrifici attraverso un’antimafia a volte solo di facciata, quasi fatta professione. Un’antimafia che urla, strepita, s’indigna e poi lascia che tutto resti com’è, in quel circuito autoreferenziale che, come scrive il giornalista Giacomo Di Girolamo, «mette in mostra le sue icone – il prete coraggioso, il giornalista minacciato, il magistrato scortato – e non aiuta a cogliere le complesse trasformazioni del fenomeno mafioso, facilitando impostori e speculatori. Così accanto ai tanti in buona fede c’è chi ne approfitta per arricchirsi, per fare carriera o per consolidare il proprio potere, in nome di un bene supremo che assolve tutto e tutti».
Ricordare, però, non significa solo richiamare dei numeri, bensì volti sorridenti ed eroici anche di fronte alla tragedia: Mattarella, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, Scopelliti, Lea Garofalo, il piccolo Cocò, preti come don Pino Puglisi e don Peppino Diana, e tanti laici (giornalisti, imprenditori, tutori dell’ordine semplici cittadini), eliminati dalla violenza mafiosa eppure vincitori proprio a causa della morte.
Sembra utopia, ma questo mondo è esistito. Esiste ancora. È abitato da gente che non cerca e non ha la gloria dei riflettori di effimera mondanità. Sono i tanti uomini e donne che quotidianamente, anonimi nel silenzio e nel sacrificio, pur se invisibili, si vestono di normalità. Persone da ammirare, alle quali essere grati; da imitare né più né meno di chi ora non c’è più; forse, quest’ultimi, – nonostante il loro tragico destino – da invidiare, perché hanno vissuto veramente. Testimoni di coerenza e coraggio, di impegno civile e passione cristiana, che giganteggiano sui pigmei che li hanno uccisi e la cui vita è ormai patrimonio di bellezza per chiunque voglia cambiare e sognare. Proprio come Jorge Luis Borges scriveva in “Cent’anni di solitudine”: «Ogni persona che passa nella nostra vita è unica. Sempre lascia un po’ di sé e si porta via un po’ di noi. Ci sarà chi si è portato via molto, ma non ci sarà mai chi non avrà lasciato nulla. Questa è la più grande responsabilità della nostra vita e la prova evidente che due anime non si incontrano per caso».
Tomba di don Puglisi, cattedrale di Palermo - Wikimedia Commons
Mons. Bertolone: "Ricordare per non dimenticare"
Il pensiero dell’arcivescovo di Catanzaro alle vittime della mafia