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Armenia. Ministero Esteri: "Turchi non cambiano la storia. Genocidio riconosciuto da Wojtyla e Bergoglio"

Intervista al vice ministro Garen Nazarian che racconta le grandi aspettative della popolazione per l’imminente viaggio di Papa Francesco

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Da un lato un popolo colmo di passione ed entusiasmo per la visita del Papa, dall’altro un territorio bagnato dal sangue come quello del Nagorno-Karabakh, da decenni teatro di un violento conflitto territoriale. Alle spalle un dramma così cruento come il genocidio da provocare ferite profonde, dopo oltre un secolo. Sono tante le implicazioni storiche, politiche e anche spirituali che accompagnano la visita di Papa Francesco in Armenia del prossimo 24-26 giugno. Visita che la popolazione attende con fervore e che suggellerà le relazioni da sempre amichevoli tra la Santa Sede e la Chiesa Armeno Apostolica. Visita che si spera possa portare, a livello politico e diplomatico, pace e stabilità nella regione. Sono alte e numerose, infatti, le aspettative della popolazione, come conferma a ZENIT Garen Nazarian, vice ministro degli Affari Esteri della Repubblica d’Armenia con delega europea, nell’intervista esclusiva che riportiamo di seguito.
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Quali sono le speranze per la visita del Papa in Armenia?
La visita di Papa Francesco in Armenia ha un significato pan-cristiano, in quanto è la visita alla nazione che per prima abbracciò il cristianesimo come religione di stato. La passione con cui il popolo armeno aspetta la visita del Pontefice si giustifica anche con il fatto che il 12 aprile dello scorso anno, il Papa ricevendo il Catholicos in Vaticano, in occasione della Messa per i fedeli di rito armeno nella Basilica di San Pietro per il centenario del genocidio, ha condiviso il dolore della nazione armena e, in un certo senso, ha invitato la Turchia a fare i conti con il proprio passato. Questa visita permette anche alla nostra gente in Armenia e quella nella diaspora di estendere la gratitudine e l’apprezzamento a Sua Santità per la posizione di principio sulla questione del riconoscimento del genocidio armeno e il ripristino di una giustizia storica. È noto che durante gli eventi che segnarono il 91° anniversario del genocidio armeno a Buenos Aires, l’allora arcivescovo Jorge Mario Bergoglio esortò la Turchia a riconoscere il genocidio come “il più grave crimine della Turchia ottomana contro il popolo armeno e l’intera umanità “. Inoltre, la visita del Pontefice durante l’anno in cui il mondo cattolico celebra il Giubileo straordinario della Misericordia è un messaggio solido di per sé e cioè che la Misericordia è garantita anche dalla dimostrazione di coraggio di affrontare il passato e di non nascondere la verità dietro un muro di silenzio.
Tra le tappe del Pontefice vi è anche quella al Tzitzernakaberd Memorial Complex, un momento importante durante il quale il Papa ricorderà le vittime del Grande Male… Cosa si aspetta da quell’appuntamento?
Il Tsitsernakaberd Memorial Complex è divenuto nel tempo meta di pellegrinaggio, nonché una tappa quasi obbligatoria per i grandi ospiti dell’Armenia, visto che commemora il milione e mezzo di armeni uccisi nel primo genocidio del XX secolo, per mano del governo turco. Certo la visita del capo della Chiesa cattolica è di massima importanza per l’umanità, quale riconoscimento del genocidio; inoltre la celebrazione dedicata alla memoria delle vittime vi si terrà sarà un’ottimo strumento di prevenzione, condannando quegli orrendi crimini commessi contro l’umanità affinché non si ripetano mai più.
Nell’aprile 2015, il Papa provocò l’ira della Turchia pronunciando la parola “genocidio” durante la succitata Messa del centenario in Vaticano. Recentemente il copione si è ripetuto dopo la risoluzione approvata dal Bundestag. Perché, secondo lei, il governo turco persevera in questo atteggiamento?
La reazione della leadership turca è l’ennesima prova che la Turchia prosegue la sua politica negazionista perseguita a livello statale, mantenendo così il peso della responsabilità per il crimine efferato commesso dalle autorità dell’Impero Ottomano. Con la decisione di utilizzare la parola “genocidio” nel titolo e nel testo della risoluzione, il Bundestag ammette che la Germania – all’epoca della Prima Guerra mondiale alleata degli ottomani – ha qualche senso di colpa per non aver fatto nulla per fermare le uccisioni. Ma la Turchia non condivide questo punto di vista e non è d’accordo con i numerosi paesi e le organizzazioni internazionali che hanno riconosciuto il genocidio armeno. Questo la dice lunga sui valori della leadership di quel paese. Il continuo processo di riconoscimento del genocidio armeno da parte della comunità internazionale dovrebbe essere invece un segnale forte alle autorità turche che il negazionismo impedisce di sviluppare i valori e le realtà del XXI secolo.
La verità storica sul genocidio sta emergendo anche grazie agli archivi della Santa Sede. Qual è il legame tra il governo armeno e il Vaticano su questo oscuro capitolo storico?
Gli Archivi Segreti del Vaticano sul genocidio sono stati aperti dal 1990. Tuttavia, non sono tanti gli storici che hanno avuto accesso ad essi. Il contenuto dei documenti sul “più grande crimine della Prima Guerra mondiale”, rivelano però come Papa Benedetto XV e la diplomazia vaticana cercarono di fermare le deportazioni programmate degli armeni nel deserto siriano, di salvare le vittime e di prevenire il massacro di un’intera nazione. Benedetto XV scrisse una lettera al Sultano, chiedendo pietà per gli armeni innocenti. L’allora Pontefice fece riferimento anche al fallimento di qualsiasi intervento diplomatico, menzionando “il popolo armeno sofferente, quasi completamente condotto al suo sterminio”. Le relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Repubblica di Armenia sono state poi istituite nel 1992: a partire da quell’anno si sono realizzate numerose visite da parte del Presidente dell’Armenia e del Catholicos in Vaticano. Poi nel 2001, Giovanni Paolo II visitò l’Armenia e durante quel viaggio firmò insieme a Sua Santità Karekin II una dichiarazione comune che riportava un passaggio storico, ovvero che: “Lo sterminio di un milione e mezzo di cristiani armeni, durante quello che è generalmente indicato come il primo genocidio del XX secolo, e la successiva distruzione di migliaia sotto il precedente regime totalitario sono tragedie che vivono ancora nella memoria delle generazioni di oggi”. La Chiesa cattolica riconosce la nazione armena come la prima cristiana, e, oggi insieme condividiamo la reciproca volontà di superare le sfide affrontate dai cristiani in Medio Oriente, il rispetto per il loro diritto umano e la conservazione dei valori cristiani. Cooperiamo inoltre attivamente in ambito internazionale per la creazione della pace e della giustizia in tutto il mondo.
Nel febbraio scorso un comunicato stampa della Santa Sede relativo al libro La Squadra Pontificia ai Dardanelli 1657 è stato interpretato come segno di un disgelo tra la diplomazia vaticana e il governo turco. In questo comunicato, tuttavia, non si utilizza il termine “genocidio”. È stato motivo di delusione per voi?
La posizione del Vaticano sul riconoscimento del genocidio armeno, come dicevo, è stata chiaramente espressa nella Dichiarazione comune firmata da Giovanni Paolo II e Karekin II durante la visita del Papa in Armenia, così come nella Messa di Francesco dell’aprile 2015, in cui nel cuore del Vaticano si affermava che lo sterminio perpetrato dall’Impero Ottomano contro gli armeni fosse “il primo genocidio del XX secolo”. Le manipolazione turche non possono cambiare o influenzare la posizione circa la verità e la giustizia storica.
Spostando l’attenzione sulla situazione nel Nagorno Karabakh, volevo ricordare le parole del presidente dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev: “Se l’Armenia proseguirà con le provocazioni, noi useremo tutte le nostre capacità per il recupero del nostro territorio”. Quindi, sono le vostre provocazioni a rendere incandescente la situazione nella regione?
In primo luogo, vorrei sottolineare che è ben noto chi è che fa provocazioni, chi utilizza la retorica bellicosa a livello presidenziale e diffonde minacce di una soluzione militare alla questione del Nagorno-Karabakh. Nonostante il fatto che i negoziati si stiano svolgendo sotto gli auspici dei vicepresidenti del gruppo Osce di Minsk, che è l’unico format a livello internazionale ad avere mandato sulla risoluzione del conflitto, l’Azerbaigian falsa l’essenza e le ragioni principali delle conseguenze del conflitto, tenta di coinvolgere altre organizzazioni internazionali nell’accordo e avvia processi paralleli che ostacolano il processo di negoziazione. L’Azerbaijan sta inoltre accusando l’Armenia come pure la comunità internazionale, il gruppo Osce, rappresentato da Usa, Russia e Francia, della mancanza di progressi nei negoziati. Di fronte a queste accuse senza fondamento, ci si potrebbe fare alcune domande, anche se la risposta è scontata: Chi sta rifiutando le proposte del gruppo di Minsk alla base dei negoziati? Chi si sta opponendo alla costruzione di misure di fiducia, a partire dalla preparazione delle società per una soluzione pacifica e la creazione di un meccanismo d’indagine per le violazioni del ‘cessate il fuoco’? Chi sta accusando i paesi dei vice-presidenti dell’Osce di Minsk, definendoli “provocatori” e “islamofobi”? Chi sta continuamente provando a spostare i negoziati del Nagorno-Karabakh ad altri format che non hanno il mandato internazionale per trovare una soluzione al conflitto e che mai hanno risolto un conflitto prima? Queste domande hanno una sola risposta: l’Azerbaijan. 
Da più parti si è parlato di episodi di violenza sanguinosi…
Nei primi giorni di aprile di quest’anno, l’Azerbaigian ha scatenato azioni militari aggressive contro la popolazione del Nagorno-Karabakh. Distaccamenti dell’esercito hanno commesso atti barbari come bombardamenti a delle scuole che hanno ucciso e ferito bambini innocenti, torture brutali, mutilazione e uccisione di tre persone anziane, tra cui una donna di 92 anni. Poi, in uno stile che ricorda quello dell’Isis, hanno decapitato tre soldati prigionieri delle forze armate del Nagorno-Karabakh, ricevendo pure un premio a livello presidenziale. Tra l’altro il presidente dell’Azerbaigian sta presentando rivendicazioni per l’Armenia, dichiarando che il territorio separa Turchia e Azerbaigian e che il collegamento di quei territori è una ingiustizia storica. Da diversi punti di vista, l’Armenia ha confermato il suo impegno per una risoluzione pacifica della situazione. La posizione dell’Armenia è in linea con quella dei mediatori dell’Osce e della comunità internazionale, ovvero la certezza che non vi è alcuna alternativa al problema se non quella di una soluzione pacifica, e che la determinazione dello status giuridico finale del Nagorno-Karabakh è possibile solo attraverso una espressione giuridicamente vincolante della volontà del popolo del Karabakh.
Considerando questo scenario difficile, cosa troverà il Papa in Armenia?
Troverà un popolo che lo attende con entusiasmo e grandi aspirazioni. La nostra gente crede che Sua Santità Francesco consegnerà un messaggio di pace e armonia, in modo da rafforzare il legame tra le due Chiese e sviluppare ulteriormente i valori cristiani. L’Armenia davvero prevede di ospitare una visita storica, unica per la sua ampiezza e per il desiderio tra la gente. Siamo più che certi, inoltre, che il viaggio del Santo Padre suggellerà le relazioni amichevoli che da secoli legano  l’Armenia e il Vaticano; speriamo anche che la visita possa portare stabilità in tutta la regione.

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Salvatore Cernuzio

Crotone, Italia Laurea triennale in Scienze della comunicazione, informazione e marketing e Laurea specialistica in Editoria e Giornalismo presso l'Università LUMSA di Roma. Radio Vaticana. Roma Sette. "Ecclesia in Urbe". Ufficio Comunicazioni sociali del Vicariato di Roma. Secondo classificato nella categoria Giovani della II edizione del Premio Giuseppe De Carli per l'informazione religiosa

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