Venerdì 4 Giugno sono andato al seminario diocesano di Fermo per incontrare ed intervistare Don Cesare Bussi che ha raggiunto e festeggiato lo scorso 26 Marzo un traguardo importante, i 50°anni di presbiterato.
Questo sacerdote, originario di Torino, ha dedicato gran parte della sua vita (circa 40 anni) all’evangelizzazione del continente e della popolazione africana. Inizialmente come missionario salesiano in Ruanda e Burundi, poi in un secondo momento come presbitero itinerante in Congo e Zambia.
Prima di farmi raccontare la sua vita, ho voluto chiedergli di parlarmi della sua vocazione, specificandomi come e quando aveva realmente capito che il Signore lo stava chiamando ad una vocazione presbiterale. Don Cesare mi ha risposto che “fu una chiamata del Signore chiarissima” perché, già all’età di sei anni, aveva compreso che la sua vocazione era quella sacerdotale e infatti, seppur giovane, diceva a tutti che si sarebbe fatto parroco.
Con il passare del tempo questa chiamata verso la quale sentiva una sempre maggiore propensione, fu messa a dura prova fino all’entrata in seminario perché, tra i suoi desideri, c’era quello di diventare geometra. Solamente grazie all’incontro con dei “preti validi”, riuscì a capire ed a confermare che la vocazione presbiterale era la sua strada, entrando nel seminario salesiano di Ivrea.
Spiegandomi l’iter formativo e vocazionale all’interno di un struttura salesiana, Don Cesare mi ha raccontato che, dopo aver svolto il seminario minore e il noviziato, fu inviato tre anni a studiare teologia e filosofia in un seminario salesiano in Belgio.
Fu poi mandato altri tre anni in una casa salesiana in Ruanda per svolgere un periodo di tirocinio durante il quale la sua principale occupazione era quella di insegnare quotidianamente ai seminaristi, presenti nella struttura, le materie di francese, storia, geografia, latino e greco.
Un particolare periodo storico fu quello in cui Don Cesare arrivò in Ruanda perché in quel momento c’era un conflitto per il controllo del territorio tra due gruppi etnici locali, gli Hutu e i Tutsi. Inizialmente la prima razza, più numerosa rispetto l’altra, era intenzionata solamente a spaventare ed a far indietreggiare la seconda e per questo motivo incendiavano le loro case e i loro campi. Quando tuttavia i Tutsi, chiamati anche Batussi, iniziarono a difendersi, lo scontro divenne più sanguinoso.
A proposito di questo conflitto, Don Cesare mi ha raccontato un particolare aneddoto capitatogli. Osservando un giorno l’altra riva del lago rispetto a dove si trovava la casa salesiana, i missionari osservarono i Tutsi che scendevano dalla collina perché scappavano dalla persecuzione degli Hutu. Il rettore, vedendoli in grande difficoltà e senza aiuti, chiese se c’era qualche seminarista che si offriva volontario per andargli a parlare e fargli presente che il seminario li avrebbe ospitati fino a quando sarebbe stato necessario.
Don Cesare e un altro ragazzo diedero la loro disponibilità e arrivati sul luogo, spiegarono le loro intenzioni e la possibilità di essere ospitati dalla casa salesiana. I Tutsi tuttavia rifiutarono per paura di essere inseguiti ed uccisi dall’altro gruppo con cui erano in conflitto. Dopo qualche settimana, la situazione si appianò momentaneamente poiché il governo centrale intervenne facendo arrivare dei camion per trasportare e mettere in sicurezza i Tutsi.
Trascorsa questa prima esperienza missionaria, Don Cesare fu ordinato presbitero. Inviato poi in Burundi per una decina d’anni, divenne poco tempo dopo il parroco di una parrocchia.
Come in Ruanda anche in quest’altro stato, c’era una situazione di tensione tra le razze dei Tutsi che governava il paese e gli Hutu. Quest’ultimi tentarono di mettere in atto un colpo di stato che fu però fallimentare perché mal organizzato e facilmente intuibile. Il governo infatti riuscì a gestire la situazione e colse l’occasione per far uscire allo scoperto i capi della ribellione per poterli così catturare.
Queste persone venivano prese e messe nei camion governativi per essere portate alla capitale del Burundi.
Da lì scomparivano e nessuno sapeva più che fine facevano. Quasi sicuramente, non appena giunte nella capitale, erano subito ammazzate e i loro corpi venivano poi gettati in delle fosse comuni. “300.000 in soli tre mesi” è il dato indicato dall’ intervistato che mi ha confessato la grande sofferenza e difficoltà di quel momento della sua vita perché molte persone che lui stesso conosceva molto bene, vennero arrestate e uccise.
Dopo qualche mese dal colpo di stato, Don Cesare fu accusato da alcuni parrocchiani, appartenenti al gruppo etnico dei Tuzi, di sobillare il popolo contro il governo nazionale perché capitò una volta che durante le istruzioni quaresimali sottolineò l’importanza che i due gruppi ostili dovessero perseguire i valori di unità, di comunione e di perdono vicendevole dal momento che erano davanti agli occhi di tutti i danni causati da quella situazione conflittuale.
A causa di questa denuncia passò inizialmente 6 mesi di domicilio coatto all’interno dell’Episcopato e subito dopo dovette presentarsi in giudizio davanti ad un tribunale militare per cercare di discolparsi dall’accusa rivolta a suo carico. Il processo, mandato in diretta radio-fonica nazionale, fu fatto, secondo Don Cesare, “per far paura agli altri missionari che parlavano” alla popolazione dei fatti accaduti e lui fu preso come capro espiatorio.
La sentenza, già decisa prima dell’inizio del processo, fu di otto anni di prigione. Il governo lo mise momentaneamente in isolamento dove era sorvegliato giorno e notte dai militari. Appena dopo due settimane di carcere, Don Cesare fu espulso dal paese e rispedito in Italia.
Ritornato a Torino, nella parrocchia Gesù Adolescente, frequentata dalla madre, il Signore fece incontrare a Don Cesare il Cammino Neocatecumenale. Dopo aver udito le catechesi iniziali, entrò in una comunità neocatecumenale della parrocchia, incominciando così un nuova esperienza di fede.
Dopo due anni di “cammino”, sentendosi la “chiamata” all’itineranza, si alzò e partecipò alla convivenza generale con Kiko Arguello, iniziatore del Cammino Neocatecumenale insieme a Carmen e a Padre Mario, a Porto San Giorgio, località marittima delle Marche.
Nella sera stessa in cui si concluse l’incontro, in piena comunione con la congregazione salesiana, Don Cesare riuscì ad incontrare il Vescovo della diocesi di Fermo, sua eccellenza Cleto Bellucci. Quest’ultimo, ascoltata la richiesta, la avvallò subito inserendolo “ad esperimentum” nella diocesi.
Da lì a qualche anno sarebbe stato poi incardinato all’interno della stessa. Ciò permise di partire immediatamente come itinerante.
La sua prima destinazione fu il Congo dove evangelizzò la città di Kisangani insieme ad una famiglia itinerante, la famiglia Pastore.
L’inizio non fu dei migliori perché, appena arrivati, il prete che li aveva contattati, appena li vide, chiese a loro se avessero ricevuto il telegramma nel quale si faceva presente che non erano ben accetti nella diocesi. Ciò significava che l’evangelizzazione si sarebbe fermata sul nascere. Dal momento però che non arrivò nessuna comunicazione, l’equipe itinerante partì e giunse in Congo.
Essendo arrivati a destinazione, la missione iniziò con le catechesi svolte in due parrocchie della città.
Ci furono subito i frutti dell’evangelizzazione: nella prima parrocchia in cui erano ospitati nacque subito una comunità, mentre nella seconda, situata dall’altra parte del fiume Congo, si formarono ben sei comunità contemporaneamente, visto il grandissimo numero delle persone che vennero ad ascoltare gli incontri.
Il Signore in seguito lo fece arrivare in Zambia, nella città di Kitwe, dove portò avanti le catechesi per una decina d’anni. Il Vescovo poi gli diede una parrocchia da “guidare” per altri dieci anni. In quel periodo tuttavia sorsero alcune difficoltà che indussero il Vescovo a mandare via Don Cesare dalla diocesi, ritenendo questa la soluzione migliore per l’occasione.
Dopo un po’ tempo, Don Cesare ritornò in un’altra diocesi dello Zambia per svolgere un’ altra attività missionaria e rimase lì per altri 5 anni, passati i quali dovette ritornare in Italia per motivi di salute.
Prima di concludere l’intervista, ho chiesto ad Don Cesare di descrivermi quali sono state le sue sensazioni ed emozioni per l’importante traguardo raggiunto mi ha risposto di essere “contento perché il Signore mi ha mantenuto fino ad esso, anche in queste condizioni di precarietà fisica e di malattia”.
Ha poi subito aggiunto: “Ringrazio il Signore, ringrazio il Cammino perché non avrei mai creduto di riuscire ad andare in missione, soprattutto in Africa, a predicare il vangelo”.
ACN
Un sacerdote che ha donato la sua vita per l’Africa
Don Cesare Bussi, racconta i suoi 50 anni di missione in Ruanda, Burundi, Congo e Zambia