I nostri governi europei, compreso quello italiano, sono da anni in continuo fermento per determinare quelle nuove politiche economiche che, assieme a strategie e condizioni sociali più idonee, siano in grado di sollecitare una crescita stabile, equa e più sostenibile. Un nuovo sistema capace di risollevare il vecchio continente da una crisi che, in questi ultimi anni, lo ha attraversato in tutta la sua estensione geografica e ad ogni livello produttivo pubblico e privato. Le cose come tutti sanno in Europa e nel mondo non vanno per come potrebbero e dovrebbero andare.
Escluse le fasce privilegiate, comunque colpite dalla crisi economica attuale in relazione al loro reddito storico, ogni Paese fa i conti con una classe media sempre più povera ed una presenza di emarginazione sociale in espansione, pur vivendo in un tempo in cui era stato promesso un benessere comune e per di più diffuso. Oggi si misura tutto con il PIL (Prodotto Interno Lordo). Il suo amento o flessione determina, secondo i parametri della agenzie preposte alle valutazioni finanziare e di mercato, il futuro di una comunità nazionale in termini di crescita o di calo complessivo.
Il PIL, in altre parole, può essere spiegato, in termini tecnici di routine, come la produzione totale di beni e servizi dell’economia (diminuita dei consumi intermedi e aumentata delle imposte nette sui prodotti), compreso il totale della spesa fatta dalle famiglie per i consumi (spesa, gas, luce, …) e dalle imprese per gli investimenti (sede, risorse umane, benefit, …). Strettamente legato a questi due parametri appena accennati, il PIL può quindi essere considerato, in linea di massima, dipendente dalla somma dei redditi dei lavoratori e dei profitti delle imprese. Ma la ripresa economica o meno di una nazione può essere solo considerata attraverso un discorso strettamente numerico?
Se il prossimo anno il PIL dovesse, tanto per dire, attestarsi sul 2% o 3%, potremmo dire di aver imboccato la strada giusta in modo definitivo? Oltre alle misure tecniche di contenimento dell’incremento raggiunto, non bisognerebbe guardare anche in altre direzioni? La società potrà dirsi ormai più sicura e sulla strada opportuna? Oltre ai maggiori consumi e ad una produzione più diffusa, non ci saranno altri elementi da prendere in seria considerazione? Qualcuno potrebbe giustamente evidenziare la fondamentale importanza di una legalità senza macchie e una amministrazione più efficiente in ogni sua forma territoriale. Indicazioni da condividere, ma non sufficienti! Bisognerebbe fermarsi un attimo e alzare il tiro politico e istituzionale! Bene i sani propositi e il rispetto assoluto delle norme; così come necessari le previsioni fornite da illuminati economisti o politologi, ma non si potrà evirare di guardare oltre.
In primo luogo sarà necessario capire che il PIL, nonostante i suoi graditi miglioramenti, senza un alto e costante PIMES ( Prodotto interno lordo morale e spirituale ) è destinato a rimanere nella sua altalenante condizione di indicatore finanziario, mentre la collettività si ritroverà a fare i conti con i suoi problemi; le nuove disuguaglianze e le “mascherate” dipendenze. Immediato e chiarificatore un tweet del teologo mons. Di Bruno: ”Il bene d’un popolo non è il suo PIL, ma il suo Prodotto interno Morale e Spirituale. Quando il PIMES è zero, il popolo è zero”. Ma non è tutto! In un altro “cinguettio” sull’argomento il sacerdote precisa: “Un popolo a zero PIMES e a zero coscienza spirituale e morale. È privo della vera ricchezza. L’altra non gli serve. Neanche la saprà usare”.
Chi governa in una democrazia o in un altro sistema, se vuole concretamente l’avanzamento reale dei suoi cittadini, non può non valutare seriamente che i fallimenti economici e finanziari odierni siano il frutto di una moralità e spiritualità ridotte, quando tutto va bene, a comparse “domenicali”.
Se una qualsiasi comunità, grande o piccola che sia, riduce al minimo la sua coscienza spirituale e morale, si priva autonomamente della vera grande ricchezza. In uno Stato così “ridotto” si rischia di non far fruttare una pur economia favorevole; paradossalmente non le serve, perché, come la storia insegna, spesso non si è nelle condizioni di metterla in circolo per il bene comune.
Saprà invece indirizzarla, come succede più volte, su traiettorie che se da una parte favoriscono alcune specifiche classi sociali, dall’altra determinano guasti verso quelle nuove e vecchie generazioni da sempre in attesa di migliorarsi, attraverso gli “immancabili benefici” annunciati dai governi di turno. Ne consegue una semplice logica deduzione: Niente moralità, niente vita. Mi riferisco alla vita economica, sociale, politica, dottrinale, spirituale, familiare o di qualsiasi altro genere.
Chi governa ha il dovere di vigilare per non cadere nelle dinamiche che ormai hanno sposato gli effetti e le ragioni di un relativismo, sempre di più consolidato in ogni importante decisione amministrativa e legislativa. Per giustificare un risultato, magari privo di riferimenti etici universali, si parla in molti casi di un voto laico. Lo si fa come se esistesse anche un suffragio religioso da tenere ben separato e non piuttosto una valutazione prettamente umana, capace in ogni situazione di saper rispondere a dei principi universali che dovrebbero sovrintendere le leggi terrene.
Al di là di comprensibili differenze, politiche e strategiche, non si può non riconoscere la presenza nella storia dell’uomo di valori non negoziabili, necessari a salvaguardare la sua esistenza in ogni suo aspetto interiore ed esteriore. Quando una società è in declino, perché la sua moralità si trova in piena agonia, chi ha responsabilità legislative o gestionali, manifesta purtroppo di non possedere alcuna coscienza né morale e né spirituale. Se allora la salute morale di un conteso sociale rischia di frantumarsi, è dovere degli organi e soggetti competenti preoccuparsi di ricorrere ai ripari.
L’onere di chiunque abbia incombenze decisionali non è solo sul piano della salute fisica e dell’efficenza finanziaria e sociale, ma anche sul piano morale e spirituale. È poi ancora cosa più grave il distacco quotidiano di un popolo, credente per scelta, dalla Parola del Vangelo, sempre attuale e viva. Una separazione che porta ad ignorare di fatto che lo stesso Cristo non è altro che l’intelligenza dell’economia, della sociologia, della psicologia, delle finanze, della politica e di ogni cosa che l’uomo rappresenta e porta a termine.
Seguire la Chiesa nel suo discernimento, al di là delle storture che in essa da secoli in parte permangono, come evidenzia spesso lo stesso Papa Francesco, significa foggiarsi interiormente ad una responsabilità matura verso l’equilibrio “sacro” della natura e i suoi principi ontologici. Scrive il mio maestro spirituale: “Dove la Chiesa non ha spazio nella città degli uomini, lì neanche c’è spazio per l’elevazione morale e spirituale dell’uomo”. Si dia perciò importanza non solo al PIL, ma anche al PIMES e le cose, in ogni campo, compreso l’uso di un diritto degradato a desiderio di gruppo, saranno di certo indirizzate verso una nuova stagione di prosperità globale.
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Piazza Venezia / © ZENIT - HSM
Il fallimento socio-economico di uno Stato è legato al suo basso PIMES
“Il bene d’un popolo non è il suo PIL, ma il suo Prodotto Interno Morale e Spirituale. Quando il PIMES è zero, il popolo è zero”