Lesbo: da isola dei poeti ad approdo di profughi

Nella terra di Alceo e Saffo, papa Francesco vuole ricordare l’importanza dell’accoglienza e dell’aiutare chi soffre

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Terra geograficamente e storicamente di confine tra Grecia e Turchia, Europa e Asia, Occidente e Oriente, Lesbo è la terza maggiore isola greca per superficie, l’ottava complessivamente nel Mar Mediterraneo, con una popolazione di poco superiore alle 90mila persone, secondo il censimento del 2001. Ha una forma che ricorda quella di un triangolo e si trova a cinque miglia marine dalle coste turche, da quella che, in epoca classica, era la Ionia, uno dei cuori pulsanti dell’antica civiltà ellenica.
Proprio questa posizione strategica ha reso Lesbo e le altre isole del Mar Egeo orientale gli obbiettivi principali dei flussi di profughi che, attraverso la Turchia, fuggono dai conflitti in Siria, Afghanistan e Iraq, sperando di raggiungere l’Europa. E per molti di loro il sogno di una vita migliore assume i primi contorni concreti con lo sbarco sulle coste dell’isola che, nel VII secolo a.C., ha dato i natali ad Alceo e Saffo, due dei principali esponenti della lirica greca antica. Un’isola che Papa Francesco ha deciso di visitare per mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sull’emergenza migranti, per dare un segno di speranza a migliaia di persone che hanno dovuto abbandonare le proprie case, e per ricordare l’importanza dell’accoglienza, lodando l’esempio degli abitanti delle isole greche che, pur colpiti da una gravissima crisi economica, non hanno esitato ad aiutare e salvare chi è dovuto scappare da un Medio Oriente che non è mai stato così vicino.
Lesbo è passata alla storia per aver ospitato alcuni fra gli elitari circoli culturali (le eterie per soli uomini, i tiasi per sole donne) più prolifici dell’antica Grecia. Il suo nome è legato indissolubilmente a quello della poetessa Saffo e ai suoi versi incentrati sull’amore, incluso quello fra donne. Una tradizione tramandata fin dall’antichità sostiene che, all’interno dei tiasi, i legami fossero così stretti da prevedere, in alcuni casi, rapporti sessuali di natura iniziatica. Da tutto questo derivano i termini lesbico e saffico con i significati ben noti.
La storia dell’isola è legata anche a quella di un’altra importante figura femminile: l’imperatrice Irene, unica donna ad aver governato da sola (per pochi anni a cavallo fra VII e IX secolo d.C.) l’Impero bizantino. In pieno periodo iconoclasta succedette, come reggente del figlio Costantino VI, al marito, l’imperatore Leone IV, morto, secondo alcuni, avvelenato in una congiura di fautori del culto delle immagini sacre, posizione sostenuta dalla stessa Irene. Quando il figlio raggiunse la maggiore età avrebbe voluto governare da solo, ma entrò così in conflitto con la madre che non esitò a farlo uccidere pur di mantenere il trono. Irene restò così imperatrice unica dal 797 all’802, quando fu detronizzata da una congiura di palazzo ed esiliata proprio a Lesbo dove morì nell’803 dopo essersi ridotta a filare la lana per mantenersi. La sua ascesa al potere fu giudicata illegittima da Papa Leone III e fu uno dei motivi per giustificare l’incoronazione di Carlo Magno a imperatore dei romani nella notte di Natale dell’anno 800.
Ma a Lesbo, in questo momento, la storia passa purtroppo in secondo piano rispetto all’attualità. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) dall’inizio del 2016 fino a metà aprile sono arrivati in Grecia oltre 153mila migranti. Più la metà sono siriani, seguiti da afghani e iracheni. Il 40% sono bambini, il 38% uomini adulti e il 22% donne. A Lesbo ne sono sbarcati quasi 75mila fra novembre 2015 e aprile 2016. Arrivano in campi profughi pieni di latrine sporche, bottiglie di plastica e vetro, dove innalzano le loro tende su cumuli di spazzatura. Sono costretti a vivere con scarsi servizi igienici, poca acqua e assistenza sanitaria non certo ottimale. Elisabetta Faga, coordinatrice di Medici senza frontiere a Lesbo, ha dichiarato al giornale inglese Daily Mail: “Ci sono persone che dormono sulla carta e utilizzano le reti destinate a raccogliere le olive per cercare di costruirsi una sorta di rifugio. I campi non sono puliti. È come vivere in una discoteca piena di migliaia di persone sudate. L’odore è terribile”.
Le autorità locali fanno ciò che possono, ma la situazione sarebbe già degenerata da tempo se non fosse stato per gli aiuti internazionali e per il contributo di volontari e organizzazioni non governative. Come i greci di Lifeguard Hellas, gli spagnoli di Pro-Activa o i tedeschi di Sea watch che, insieme alle unità della guardia costiera ellenica e ai mezzi di Frontex, l’agenzia dell’Unione europea incaricata di sorvegliare le frontiere, pattugliano il tratto di mare fra l’isola e le coste turche per prestare soccorso a chi rischia di annegare nella traversata. Ma ong e volontari possono solo scortare le imbarcazioni dei migranti e intervenire per salvare le persone solo in caso di pericolo effettivo. Rischiano altrimenti l’accusa di favoreggiamento di immigrazione clandestina.
“Abbiamo così tante incombenze – dichiarava al Corriere della Sera, nel novembre 2015, Djamal Zamoum, funzionario dell’Unhcr – e non si vede un piano a lungo termine. Nulla ci lascia pensare che tutto questo avrà fine a breve. Stiamo cercando di aumentare la capacità di accoglienza con altri container, tende, coperte, ma ancora non basta”. E anche i centri di identificazione sono diventati, a loro volta, dei campi profughi improvvisati con decine di persone costrette a dormire all’aperto. Al momento la situazione è migliorata, ma fino a pochi mesi fa, le file d’attesa potevano durare anche giorni. Condizioni estreme che possono provocare rabbia e malcontento, come accaduto il 4 e il 5 settembre 2015 quando circa tremila migranti hanno protestato contro le lunghe procedure di registrazione e altre centinaia sono fuggite da un campo di accoglienza, bloccando una delle strade principali dell’isola.
In una recente intervista sull’Osservatore Romano, il presidente dei vescovi cattolici greci Fragkiskos Papamanolis ha riconosciuto gli sforzi del governo ellenico in un momento così difficile, ma ha ammesso che l’esecutivo “si è trovato impreparato perché era la prima volta che affrontava un fenomeno migratorio di massa di profughi”. “Abbiamo visto – ha spiegato Papamanolis – gli abitanti accogliere con sentimenti caritatevoli questi profughi. Ognuno era disposto a fare quel che poteva per aiutarli. Vari organismi, prima tra tutti la nostra Caritas Hellas, hanno fornito molto materiale: tende, servizi igienici, vestiti, scarpe. A Lesbo abbiamo affittato un albergo da duecento letti. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’aiuto economico delle Caritas nazionali europee e degli Stati Uniti”.
Secondo Papamanolis tuttavia la situazione è peggiorata dopo l’accordo di marzo 2016 fra Unione europea e governo turco. I profughi “non vogliono tornare in Turchia” e quindi “tenderanno a fare sempre più resistenza alle forze dell’ordine”, rischiando quindi di far degenerare il rapporto con la popolazione locale in una situazione in cui entrambe le parti hanno le loro ragioni.
L’augurio ovviamente è che non si arrivi a tanto. Speranza condivisa da un gruppo di accademici di importanti università di tutto il mondo, fra cui Oxford, Princeton, Harvard, Cornell e Copenaghen, che hanno proposto di candidare gli abitanti di Lesbo al Premio Nobel per la pace, insieme a quelli delle altre isole greche di Kos, Chio, Rodi, Samo e Lero. Nel documento di richiesta si ricorda che “nelle più lontane isole greche, le nonne hanno cantato canzoni per far addormentare bambini terrorizzati, mentre insegnanti, pensionati e studenti hanno trascorso mesi offrendo cibo, riparo, vestiti e sostegno ai rifugiati che hanno rischiato la loro vita per scappare dalla guerra e dal terrore”. Il documento elogia “l’empatia e lo spirito di sacrificio” con cui i cittadini di una nazione ancora in crisi economica hanno risposto alla tragedia dei rifugiati, mettendo a disposizione le proprie case e risorse. Parole simili a quelle usate da Papa Francesco e che richiamano il significato più profondo del suo viaggio a Lesbo: celebrare la cultura dell’accoglienza e dell’aiuto al prossimo.
 
 
 
 
 

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Alessandro de Vecchi

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