Il Processo matrimoniale più breve davanti al Vescovo costituisce probabilmente la più “sorprendente” innovazione del procedimento di accertamento della nullità del matrimonio delineata dalla recente riforma processuale (i motu proprio di Papa Francesco Mitis iudex e Mitis et misericors).
Il rev. prof. Massimo del Pozzo, docente di Diritto costituzionale canonico e di Diritto processuale canonico alla Pontificia Università della Santa Croce, autore del recente libro sull’argomento, Il Processo matrimoniale più breve davanti al Vescovo, Edusc, Roma 2016, pp. 230, ne affronta gli aspetti più importanti in questa intervista rilasciata a ZENIT.
Prof. del Pozzo, qual è lo stato di attuazione del processo matrimoniale più breve davanti al Vescovo?
Sinceramente non sono in grado di rispondere…, la situazione nel mondo è molto varia e articolata. C’è sicuramente molto entusiasmo e un po’ di smarrimento tra gli operatori, come per tutte le novità. Alcune diocesi hanno già cominciato ad applicarlo, sono state emanate le prime “sentenze episcopali”. In diversi luoghi (a cominciare dall’Italia) l’implementazione non è stata facile e immediata. Una riforma di questo tipo richiede logicamente tempo e pazienza.
Non è un po’ avventato intraprendere una ricerca scientifica su un oggetto ancora così oscuro e incerto?
Sicuramente è un po’ audace, ma bisogna pur iniziare… La prima, o, meglio, la seconda tappa di ogni riforma legislativa è l’analisi e l’approfondimento del testo da parte degli specialisti, lo studio e la riflessione critica. Penso sia un contributo utile per la causa della giustizia, per quanto possa essere precario e difficile. Non conveniva aspettare troppo. La letteratura canonistica comunque, grazie a Dio, ha iniziato a spiegare e commentare con piglio e competenza la riforma processuale. Anche la Rota Romana ha fornito un “sussidio applicativo” per aiutare gli operatori, ma c’è ancora parecchia strada da compiere nell’esposizione e nell’interpretazione della normativa.
Qual è l’intento di questa nuova forma processuale?
L’aspirazione di tutta la riforma del processo matrimoniale ‒ ciò che mi sembra stia a cuore al Papa ‒ è coniugare la celerità, la semplicità, la prossimità e l’economicità nell’accertamento della nullità matrimoniale con il principio dell’indissolubilità del matrimonio e la logica dello strumento giudiziario. Il processo più breve davanti al Vescovo (ogni processo dovrebbe essere breve…) è una risorsa, penso la più chiara ed esplicita, per realizzare questo fine e dimostrare la vicinanza e disponibilità della Chiesa, nella persona stessa dei suoi Pastori, alle famiglie ferite o in difficoltà. Il “processo breviore” insomma persegue il massimo di snellezza e velocità garantendo sempre la serietà della verifica. Alleggerisce la forma e il procedimento ma non cambia la sostanza…
…E quale sarebbe la sostanza?
Il principio di fondo è che “non ogni matrimonio fallito è un matrimonio nullo”, quindi bisogna provare e riscontrare con rigore la supposta invalidità: a questo serve un processo. Il messaggio fondamentale del mio libro è che il processo è un mezzo impegnativo ma accessibile. Alcuni pensano che il processo sia una macchina troppo complessa da far funzionare e non è vero. Il processo più breve davanti al Vescovo vorrebbe essere una dimostrazione pratica del fatto che il rispetto delle regole e dei principi processuali non si traduce nell’allungare indebitamente i tempi o appesantire senza necessità le incombenze. In presenza di particolari circostanze (una domanda congiunta o consensuale, un’istruttoria semplice, una fondata presunzione della nullità) si può procedere infatti con molta rapidità ed efficacia senza compromettere la verità. Comunque servono persone competenti…
Si è parlato di “divorzio cattolico” per risolvere su larga scala le situazioni matrimoniali irregolari…
Mi pare una ricostruzione falsa ed equivoca, smentita a viva voce dal Papa nella Conferenza stampa nel volo di rientro dagli Stati Uniti e dai suoi diversi interventi normativi. La Chiesa non stabilisce o concede ma si limita a riconoscere l’invalidità del matrimonio, dichiara in pratica che il vincolo coniugale non è mai sorto. La stampa (e conseguentemente la gente) purtroppo continua inesorabilmente a parlare di “annullamento” del matrimonio canonico, questo non è vero ed è fuorviante per comprendere la natura dell’accertamento giudiziario. Nel processus brevior c’è il minimo indispensabile per un giudizio equo: c’è un giudice imparziale, un reale contraddittorio delle parti (assicurato sempre dal Difensore del vincolo), un riscontro obbiettivo dei fatti, il diritto d’appello e soprattutto il presupposto ineludibile di ogni sentenza favorevole: la certezza morale del Vescovo.
Che cosa implica questa “certezza morale” del Vescovo?
La riforma ha voluto opportunamente codificare questa nozione basilare: la certezza morale del giudice esclude ogni dubbio prudente e positivo di errore circa la nullità del matrimonio. Il Vescovo, in base alla sua scienza e coscienza, deve giungere al convincimento che le prove e gli indizi dimostrano l’invalidità del coniugio. Se il Vescovo non è sicuro della nullità del matrimonio non potrà che rinviare la causa al tribunale che esaminerà più approfonditamente la questione.
Quali sono le preoccupazioni maggiori nell’attuazione del processo brevior dinanzi al Vescovo?
Penso che la principale insidia sia il buonismo o l’accondiscendenza ingiustificata da parte dei Pastori. Ogni domanda di giustizia merita sicuramente rispetto e considerazione ma non può essere accolta o esaudita in assenza di validi elementi e riscontri. Una misericordia non rispondente alla verità in realtà non ha nulla a che vedere con la carità, l’omissione di giustizia è una patente negazione della misericordia e una dolorosa falsificazione della verità. Un altro rischio consiste nel lasciar fare troppo al Vicario giudiziale, all’assessore o all’istruttore, fidarsi degli “esperti” (ammesso che lo siano) e delegare la decisione alla loro coscienza. Un pericolo non meno grave sarebbe però la disapplicazione pratica del processo per mancanza di tempo o di capacità, sarebbe una denegazione di giustizia verso i fedeli.
Allora non si chiede troppo ai Vescovi?
Sicuramente si chiede molto, come ad ogni buon giudice: scienza, virtù e tempo. Il Vescovo non fa eccezione a questa triade, senza però che debba diventare un giudice di professione. Sono stati il Sinodo e il Papa a indirizzare la Chiesa in questa direzione. Il Santo Padre ha parlato espressamente di una “conversione” delle strutture ecclesiastiche. La conversione richiesta è anche personale e si fonda sul recupero della centralità del Vescovo diocesano. Fermo restando la rettitudine e la buona disposizione, l’aggiornamento e l’approfondimento delle conoscenze e la programmazione del tempo da dedicare saranno sofferte conquiste. “Il Vescovo ha ben altro da fare…”, si sente spesso dire a ragione, il compito giudiziario tuttavia non è residuale o marginale nella pastorale familiare. L’esempio di Ambrogio e di Agostino è molto eloquente: si lamentavano dell’onerosità dell’attività giudiziaria (principalmente l’episcopalis audientia) ma la svolgevano con solerzia e abnegazione. Un recupero dello stile patristico porta allora ad avvalorare anche questo nuovo e “antico” fronte della carità pastorale. In questa linea ancora più preziosa sarebbe la mistagogia del sacramento, la spiegazione del mistero nuziale, l’accompagnamento previo e successivo dei coniugi: prevenire è sempre meglio che curare…
Robert Cheaib
Nullità matrimoniale: la sfida del “processo breve” davanti al Vescovo
Secondo il canonista Massimo del Pozzo, parlare di “divorzio cattolico” è “falso ed equivoco”