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Siria. 250mila bambini nelle città assediate, malati, affamati e arruolati già a 8 anni

Nel rapporto “Infanzia sotto assedio”, Save the Children denuncia la drammatica condizione delle città siriane assediate, dove mancano cibo, medicine ed elettricità e scarseggiano gli aiuti umanitari

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Sono almeno 250mila i bambini che vivono nelle aree assediate della Siria, il 46,6% delle vittime in queste zone sono bambini al di sotto dei 14 anni. I bambini vivono privi di tutto, sono gravemente malnutriti perché costretti a mangiare cibo per animali o foglie, muoiono perché hanno accesso a medicinali che si trovano soltanto dall’altro lato dei checkpoint, in zone in cui meno dell’1% della popolazione è riuscita a ricevere aiuti alimentari e solo il 3% ha ricevuto assistenza sanitaria. Bambini che vagano in cerca di qualcosa da bruciare per scaldarsi e resistere al gelo dell’inverno, terrorizzati dai bombardamenti e dalle tremende violenze a cui assistono. Tanti i bambini arruolati, alcuni di soli 8 anni. Nel solo 2015, il 22% dei bombardamenti aerei è avvenuto su aree assediate, dove si registra un aumento nell’uso della droga da parte dei giovanissimi, nonché degli abusi sessuali su adolescenti e dei matrimoni precoci.

“Le immagini del bambino che muore di fame a Madaya nel gennaio scorso hanno scosso il mondo, ma lontano dalle macchine fotografiche ci sono molte comunità che stanno vivendo la stessa situazione e la stessa disperazione”, afferma Valerio Neri. “I bambini stanno morendo per mancanza di cibo, di medicine o per cause assurde come l’ingestione accidentale di veleni mentre scavano alla ricerca di qualcosa da mangiare. E a pochi chilometri da loro ci sono magazzini colmi di aiuti. I bambini vivono in vere e proprie prigioni a cielo aperto, dove i cecchini sparano a chiunque tenti di scappare. Sono tagliati fuori dal mondo, insieme alle loro famiglie e circondati da gruppi armati che utilizzano l’assedio ai civili come arma di guerra. Questi bambini stanno pagando il prezzo dell’immobilismo del mondo”. Questa la denuncia lanciata da Valerio Neri, Direttore Generale di Save the Children, l’Organizzazione dedicata dal 1919 a salvare i bambini in pericolo e tutelarne i diritti, che dal 2103 lavora all’interno delle città assediate della Siria, attraverso organizzazioni partner.
Per questo, a cinque anni dall’inizio del conflitto in Siria, Save the Children lancia il rapporto “Childhood under siege – Infanzia sotto assedio”. Basato sulle testimonianze di coloro che sono ancora all’interno delle aree assediate e di chi è riuscito a scappare nei Paesi confinanti, il rapporto denuncia la condizione in cui sono costretti a vivere i bambini e le loro famiglie, a cui è interdetto l’accesso a cibo, medicine, carburante e a tutti i beni necessari per sopravvivere.
Dall’inizio della guerra in Siria sono 6,6 milioni le persone sfollate all’interno del Paese e 4,7 milioni quelle che sono fuggite nei Paesi confinanti e in Europa. Si stima che i morti siano tra i 250mila e i 400mila. L’assedio ai civili è diventata una tattica di guerra dall’inizio del 2011, quando a Dara’a il governo decise di privare la popolazione di elettricità, acqua e cibo per 11 giorni. Da allora il numero delle città e delle aree assediate continua ad aumentare.
Nella città assediata di Moadamiyeh, pochi chilometri a sud-ovest di Damasco, i medici non hanno più flebo per i neonati e sono costretti ad utilizzare le sacche per i cateteri. Molte vite sono state salvate, ma tre neonati sono morti a causa di un’infezione. Questo tipo di situazioni sono ormai all’ordine del giorno nelle città assediate, dove gli ospedali e le cliniche sono quotidianamente sotto bersaglio e le medicine salvavita non arrivano. I medici operano con i mezzi che hanno, alla luce delle candele e utilizzando vecchi tubi per l’acqua come tubi per la ventilazione. Le famiglie vagano per le strade cercando scarti di lenzuola o vestiti abbandonati che fanno poi bollire, nel tentativo di sterilizzarli, per utilizzarli come bende. Anche i pochi medicinali che arrivano all’interno delle città sono stati per ore sotto il sole fermi ai checkpoint e non possono essere conservati al fresco per mancanza di energia elettrica, risultando spesso inutilizzabili: la principale conseguenza è che i bambini non possono essere vaccinati per le malattie prevenibili.
“Molti bambini sono morti a causa della rabbia; le malattie della pelle e dell’apparato digerente sono diffusissime perché è stata interrotta la fornitura dell’acqua e le persone utilizzano quella che trovano nei pozzi di superficie, spesso inquinata dai liquami. I bambini in particolare soffrono di infezioni e infiammazioni respiratorie causate dal fumo delle esplosioni”, racconta un medico che lavora nell’est di Ghouta.
Oltre a non avere accesso alle cure mediche, gli abitanti delle aree assediate non possono lasciarle per andare a farsi curare fuori. A Madaya più di 400 persone avevano bisogno di essere trasferiti per motivi medici, ma solo 37 hanno ottenuto il permesso. Negli ultimi mesi, almeno 17 persone dializzate a nord di Homs non hanno avuto il premesso di raggiungere la città per curarsi: questi pazienti sono tra i più a rischio se interrompono il trattamento, insieme ai pazienti diabetici che non hanno a disposizione l’insulina.
“I medici non possono effettuare trasfusioni perché mancano le sacche per il sangue. A un mio amico hanno dovuto amputare una gamba perché non avevano il materiale necessario a curarla. Un bambino ha perso entrambi gli occhi perché mancavano gli strumenti per estrarre le schegge. Tutto questo poteva essere evitato se avessero avuto a disposizione le attrezzature necessarie”, testimonia un operatore umanitario.
In Siria, molti medici sono stati uccisi o arrestati o sfollati, anche se sono molti quelli che hanno scelto di restare nel Paese. Spesso, al posto dei dottori, sono i volontari a operare: in alcuni casi l’unico medico è il veterinario e in città come Moadamiyeh, che conta 45mila abitanti, ci sono solo otto medici, che prima del conflitto facevano i dentisti. Nonostante questi uomini e donne facciano del loro meglio per curare i pazienti, la mancanza di formazione adeguata può avere gravi conseguenze, soprattutto per i bambini che soffrono di malnutrizione e che rischiano di perdere la vita per ipoglicemia, ipotermia, arresto cardiaco da iper-idratazione o per infezioni che non vengono notate.
Bambini malnutriti ovunque
La fame nelle aree assediate non ha altra causa che la volontà umana: gli alimenti di base sono spesso disponibili a pochi chilometri dai checkpoint, ma non possono essere portati all’interno. Gli abitanti di Yarmouk raccontano che le persone sopravvivono con una cucchiaiata di miele al giorno e qui, a metà del 2015, il 40% dei bambini soffriva di malnutrizione. A Deir Ezzor, la maggior parte della popolazione sopravvive a pane e acqua e molti bambini si nutrono regolarmente di mangimi per animali e foglie. Alcuni insegnanti delle aree rurali di Damasco raccontano che i bambini svengono a scuola perché non mangiano da giorni. “Molti bambini non hanno mai visto una mela o una pera. Non hanno mai assaggiato un pollo e non mangiano verdura da un mese. Vagano stravolti dalla fame”, racconta un operatore.
I neonati corrono rischi fortissimi: nelle aree assediate, dove il cibo scarseggia, l’allattamento al seno (che già prima del conflitto era diffuso in via esclusiva per i primi 6 mesi solo nel 44% dei casi) potrebbe salvare la vita a molti bambini, consentendo anche di prevenire infezioni, ma le condizioni di salute delle madri sono molto precarie. “La situazione per le madri che allattano è terribile e spesso le donne non hanno latte a sufficienza per i bambini perché non mangiano abbastanza e così peggiora la salute sia delle madri che dei bambini”, testimonia una mamma nel nord di Homs.
A ottobre 2015, le Nazioni Unite hanno potuto distribuire cibo solo a 10.500 persone, meno del 2% di coloro che vivono sotto assedio, ma anche per i pochi che hanno accesso agli aiuti, le razioni non sono comunque sufficienti: secondo uno studio fatto da organizzazioni locali sulla base delle distribuzioni delle Nazioni Unite a Madaya, le quantità distribuite per ogni persona e che dovrebbero servire per un mese, equivalgono a 14.079 calorie, ovvero 470 calorie al giorno. Meno di un quarto di quanto sarebbero raccomandate dagli standard minimi di assistenza durante le crisi umanitarie.
L’accesso degli aiuti alle aree assediate
Nel 2015 meno del 10% delle richieste di accesso alle aree assediate da parte delle Nazioni Unite ha avuto esito positivo e alcune aree ricevono aiuti solo una volta l’anno, altre anche meno. La popolazione di Darayya, ad esempio, non riceve aiuti dall’ottobre del 2012. Nonostante il miglioramento a seguito delle disposizioni dell’International Syria Support Group, i convogli diretti a molte delle aree con più urgente necessità di aiuti non sono stati ancora autorizzati a entrare e non c’è alcuna garanzia che i piccoli passi in avanti nell’accesso siano mantenuti. Ci sono casi in cui, anche se l’ingresso degli aiuti viene approvato, questi ultimi non raggiungono le persone che ne avrebbero più bisogno. È il caso ad esempio di Moadamiyeh, dove a gennaio 2016 la richiesta di ingresso dei convogli è stata autorizzata a condizione che i carichi venissero lasciati al confine della città in un’area controllata. Le Nazioni Unite si sono rifiutate di accettare queste condizioni, ma alcune agenzie hanno lasciato ugualmente gli aiuti e secondo le testimonianze raccolte, la maggior parte delle persone non vi ha avuto accesso, perché non sono state autorizzate a superare il checkpoint. Quando invece nel luglio scorso le Nazioni Unite ottennero il permesso di far entrare i convogli a Douma per la prima volta dopo 18 mesi, vennero sequestrati antibiotici e altri medicinali necessari al trattamento delle infezioni. Secondo quanto riportato da alcune organizzazioni locali, i checkpoint sarebbero infatti dotati di apparecchiature che individuano qualunque tipo di medicina liquida per evitare che possano entrare nelle città assediate.
“L’accesso per le organizzazioni umanitarie a queste aree è di fatto inesistente e si è fortemente ridotto negli ultimi anni. Meno dell’1% della popolazione delle aree assediate riceve aiuti alimentari dalle Nazioni Unite e solo il 3% ha ricevuto assistenza sanitaria”, spiega Valerio Neri. “A dicembre dello scorso anno gli unici aiuti che le Nazioni Unite sono state in grado di consegnare sono stati libri di testo per 2.661 bambini. L’ingresso alle aree assediate dopo il via libera del febbraio 2016 ha consentito alle popolazioni di ricevere solo una piccola parte degli aiuti di cui avrebbero bisogno, poiché di fatto alcune medicine vitali, carburante e alimenti ad alto contenuto nutrizionale non possono ancora entrare con i convogli. Nonostante i rischi e le difficoltà, le organizzazioni siriane stanno lavorando con le comunità locali per portare aiuto laddove è possibile e anche Save the Children, attraverso i suoi partner, sta facendo di tutto per aiutare le popolazioni. Dobbiamo però dire che la maggior parte delle famiglie e dei bambini restano esclusi dagli aiuti”.
Educazione, la “generazione perduta”
Nel disperato tentativo di trovare cibo e medicine, l’esigenza dell’istruzione è spesso messa in secondo piano. La distruzione del sistema educativo rischia invece di creare una “generazione perduta” nelle aree assediate della Siria, in alcune delle quali più della metà dei bambini non frequenta la scuola per mancanza di strutture o problemi di sicurezza. Negli ultimi quattro anni, una scuola su quattro è stata attaccata (per un totale di 4.000 scuole attaccate) e un insegnante su cinque è stato ucciso. Sono 2,8 milioni i bambini che non vanno a scuola, eppure prima del conflitto la Siria aveva un tasso di iscrizione a scuola del 99%. Anche molti di coloro che invece vanno a scuola, fanno lunghe assenze di mesi o addirittura anni a causa degli spostamenti e dei bombardamenti delle scuole.
“Nelle zone assediate ci sono ospedali, cliniche ma anche fabbriche e scuole che operano come meglio possono in scantinati nella speranza di proteggersi dai bombardamenti”, spiega Valerio Neri. “C’è addirittura una scuola in cui gli insegnanti hanno cominciato a tenere lezioni sotto terra, dopo che era stata colpita per ben due volte dai missili, che oggi è frequentata da 1.300 bambini, la maggior parte dei quali orfani”.
“Non ci sono più bambini, ma solo piccoli adulti”
Nel solo 2015, il 22% dei bombardamenti aerei è avvenuto su aree assediate, infestate da barili-bomba, mine e cecchini. I luoghi dove i bambini dovrebbero sentirsi al sicuro, come la scuola o i parchi giochi, si trasformano in luoghi di morte. Quasi tutti i genitori raccontano che i bambini hanno cominciato ad avere comportamenti aggressivi legati a sentimenti di rabbia e paura, molti si isolano e non vogliono uscire di casa per il terrore dei bombardamenti. Alcuni di questi comportamenti sono acuiti anche dalle conseguenze della malnutrizione. “Qui non ci sono più bambini, ma solo piccoli adulti”, dice una mamma nell’est di Ghouta.
Molti bambini, a causa della povertà o della morte dei genitori, si devono prendere responsabilità che spetterebbero agli adulti e sono obbligati ad andare al lavoro o a rovistare per le strade in cerca di qualcosa che si possa vendere o mangiare. Molti passano le giornate a raccogliere pezzi di legno o plastica da bruciare e sono stati riportati casi di bambini rapiti mentre svolgevano queste attività. Gli operatori umanitari segnalano un incremento nell’uso delle droghe da parte dei giovanissimi e degli abusi sessuali su adolescenti. Si registra un incremento anche dei casi di matrimoni precoci, soprattutto quando i genitori sono scomparsi o non sono più in grado di occuparsi dei figli.
I gruppi armati approfittano della disperazione dei bambini e li reclutano per andare a combattere sulla linea del fronte, perché per loro è l’unico modo di avere garantito un pasto al giorno. Alcuni gruppi armati pagano fino a 150 dollari al mese, altri solo 50 dollari. “Al compimento dei 12 anni hanno già chi fa loro pressione per impugnare una pistola e combattere”, racconta un operatore umanitario. In alcune aree i bambini vengono reclutati già a otto anni.
“Tutto questo è troppo. Dopo quasi cinque anni di conflitto in Siria è necessario porre fine agli assedi”, conclude Valerio Neri. “Per questo chiediamo che venga consentito immediatamente l’accesso libero e permanente agli aiuti umanitari e che cessino gli attacchi su scuole, ospedali e infrastrutture civili vitali”. Save the Children chiede inoltre ai leader mondiali che la distribuzione di aiuti umanitari non sia legata agli accordi di pace e che non venga utilizzata come merce di scambio nei negoziati politici.

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ZENIT Staff

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