La vita: il tutto nel frammento

XXI Domenica del Tempo Ordinario, 23 agosto 2009

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di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 21 agosto 2009 (ZENIT.org).- “Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: ‘Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?’. Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: ‘Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dove era prima? E’ lo Spirito che da’ la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono’. Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: ‘Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre’. Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: ‘Volete andarvene anche voi?’. Gli rispose Simon Pietro: ‘Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio’. Gesù riprese: ‘Non sono forse io che ho scelto voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!’. Parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: costui infatti stava per tradirlo, ed era uno dei Dodici” (Gv 6,60-71).

Il capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, di cui abbiamo ascoltato oggi la conclusione, inizia col racconto del segno della automoltiplicazione di cinque pani e due pesci dentro un cesto distribuito alla mensa di cinquemila uomini (senza contare le donne e i bambini): un segno clamoroso che fa pensare a quello annunciato sette secoli prima dal profeta Isaia: “Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele” (Is 7,14). Il Dioconnoi annunciato non poteva offrirci una comunione con Lui più piena e perfetta dell’Eucaristia: è l’unione inseparabile ed insuperabile di Dio con noi.

Per la Scrittura il segno è una freccia puntata che invita a proseguire, indica una meta da raggiungere, suggerisce un compimento, impegna a trovare la giusta diagnosi, come un sintomo in medicina. Il grande segno dei pani moltiplicati nel cesto orienta verso qualcosa di materialmente “piccolissimo”, poichè punta dritto dritto al “cesto” del grembo di Maria, dove il Figlio di Dio si è fatto carne umana e sangue umano, Pane vivo per noi (un “per” che significa dono vitale): perché noi lo mangiassimo per vivere.

Sì, Pane divino-umano vivo: prima un minutissimo “Pane unicellulare” (il diametro del corpo umano alla fecondazione è circa 500 volte minore rispetto all’Ostia di pane consacrata tra le mani del sacerdote), già pieno di vita, poi il medesimo Pane che, “lievitando”, diventa corpo di due, quattro, otto, sedici,..milioni di cellule, poi miriadi di miliardi, sempre rimanendo un unico Pane vivo destinato a saziare la fame di vita di tutta l’umanità, per tutti i secoli dei secoli.

E’ questa la precomprensione con la quale suggerisco di rileggere per intero i 71 versetti di Gv 6, affinchè queste Parole divine, lungi dall’indurirsi nell’impatto con il timpano della nostra intelligenza, possano permearla con quello stesso Spirito che fecondò la Vergine. Riflettiamo: dall’istante dell’Incarnazione di Gesù fino al parto, Maria ha ininterrottamente “mangiato” la carne e “bevuto” il sangue del suo figlio divino.

Cosa significa questo linguaggio volutamente…duro? Significa che, in quanto madre, Ella ha goduto un rapporto di comunione con Gesù, tanto diversa rispetto a quella che si può avere a tu per tu con una persona, quanto lo è un rapporto di assimilazione rispetto ad un contatto esterno. Per nove mesi in Maria è avvenuta una trasfusione continua della Vita eterna di Dio nella sua vita di donna. Sta in questa intima e trasformante comunione d’amore il significato delle parole del Signore: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” (Gv 6,54).

Ecco come e perché l’Eucaristia ci conforma a Cristo, mentre va “formando” in noi il suo modo di pensare e di sentire, al punto da poter esclamare con gioia stupefatta: “non vivo più io, ma Cristo è la mia vita!” (Gal 2,20). Non si tratta di sostituzione di persona, ma di comunione di innamorati, in cui l’Amato è anche l’Amante, poiché è l’Amore che fa amare.

Allo stupore incantato degli Israeliti davanti alla manna che ricopriva il deserto (Es 16,15: “Che cos’è?”) si oppone, nel Vangelo, lo stupore infastidito di alcuni discepoli di Gesù: “Questa parola è dura! chi può ascoltarla?” (Gv 6, 60). Per essi fu davvero uno shock, anzitutto per il contenuto del discorso (un pasto a base di carne e sangue umano!), poi per il modo incalzante di ribadirlo. Infatti, nonostante l’evidente, prevedibilissimo scandalo dei presenti, Gesù per ben sei volte insiste sulla necessità di (alla lettera) “masticare” la sua carne, e quattro volte quella di bere il suo sangue. Un discorso francamente raccapricciante.

Parole dure anche per noi, oggi, se solo ci fermiamo a riflettere. A prenderle realmente sembrano pura follia! Eppure la Chiesa dichiara che l’Eucaristia è realmente il corpo del Signore, ed il credente ne è certissimo per l’unico motivo che ad affermarlo inequivocabilmente è stato (ed è ogni giorno nella persona del sacerdote) il Signore Gesù: “Questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi. Questo è il calice del mio sangue..”.

Commenta una grande mistica del XX secolo: “Essi avrebbero ascoltato più volentieri un insegnamento che fosse sceso ai particolari, che si fosse occupato del miglioramento dei loro difetti, della cancellazione dei loro peccati..Giorno dopo giorno avrebbero registrato volentieri un piccolo progresso, imparato qualcosa di nuovo al riguardo, un qualcosa di accuratamente suddiviso secondo le loro attitudini e capacità. Allora la sua parola non avrebbe avuto bisogno di alcuna interpretazione; ognuno di essi l’avrebbe seguita alla lettera, tutti secondo la medesima scuola, in cui si sarebbero consultati e confrontati a vicenda. E invece al posto di ciò solo e sempre la medesima direttiva: mangiate la mia carne. Cioè: amatemi!

In quest’unica frase – (“chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna”) – vengono poste le esigenze più alte, che vanno molto al di là di quanto essi riescono ad immaginarsi. In essa è anzitutto contenuta la somma dell’amore del Signore, l’immensità di quest’amore, l’eternità di questo amore. Tutto ciò è così sterminato, così unitario ed incondizionato, contiene in sé un amore così sublime ed esigenze così enormi, che il tutto appare assolutamente impraticabile ai discepoli.

Non riescono a spiegarsi come mai il Signore cominci proprio col tutto.

In questo incipiente riconoscimento della loro insufficienza..si limitano a domandarsi l’un l’altro: chi può? Non si tratta di una disperazione nei confronti del Signore, ma del disorientamento di colui che spiritualmente affaticato e non tiene il passo” (A. von Speyr, “I discorsi polemici”, Esposizione contemplativa del Vangelo di San Giovanni, p. 66-68).

Quando si afferma la verità scientifica che l’essere umano comincia al concepimento, la verità che qui è già un uomo colui che lo sarà, la verità che in questo istante l’essere umano è già un corpo, la verità che da questo momento l’essere umano è già interamente persona creata “a immagine e somiglianza di Dio” per un progetto di eterna felicità, molti di quelli che
ascoltano rimangono disorientati e persino scandalizzati. Un simile discorso, in effetti, è “duro” da accettare psicologicamente: come può quel microscopico frammento di vita umana meritare il valore, la dignità, il rispetto totale dovuto ad una persona che posso abbracciare e baciare? Ma l’obiezione intransigente indica la resistenza colpevole a riconoscere che l’essere umano comincia proprio col tutto.

E il motivo ultimo, a mio parere, non è di ordine intellettuale, ma spirituale. Non basta, infatti, la necessaria ma non da sola sufficiente conoscenza scientifica per comprendere ed accogliere tutta intera la verità della vita umana, essendo tale verità trascendente.

Trascendente non vuol dire nascosta tra le nuvole, ma ragionevole e soprannaturale, nascosta nel senso rivelato da Gesù duemila anni fa: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25). Questi piccoli sono proprio coloro che non si scandalizzano, nella semplicità della loro fede, di mangiare la Carne e di bere il Sangue di Cristo. Essi non possono spiegare il mistero dell’Eucaristia, ma lo conoscono per esperienza. Sono assolutamente certi che l’Eucaristia è Gesù, Vita divina realmente e totalmente presente anche in un solo frammento dell’Ostia consacrata.

Ascoltiamo, in conclusione le parole di un grande e “piccolo” sapiente, cardinale, padre spirituale della von Speyr: “Dove dobbiamo rivolgere il nostro sguardo per scorgere, nella frammentarietà della nostra esistenza, una tensione verso l’Intero? Ogni frammento di un pezzo di ceramica suggerisce la totalità del vaso, ogni “torso” di marmo viene visto nella luce dell’intera statua. Sarà la nostra esistenza a costituire un’eccezione? Ci lasceremo persuadere forse che quello stesso frammento che è la nostra esistenza costituisce l’intero? Ma se noi facessimo questo, non avremmo forse abbandonato l’idea di trovare un senso alla frammentarietà stessa, rassegnandoci al non-senso? E’ così che noi ci interroghiamo su noi stessi, e in questo domandare siamo convinti di essere di più di una semplice domanda. Noi pensiamo che Qualcuno dovrebbe sapere con certezza. E pensiamo che Egli possa rispondere alla domanda su noi stessi” (H.U. von Balthasar, “Il tutto nel frammento”, pp. XXIII-XXIV).

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

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ZENIT Staff

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