La prima parte è stata pubblicata ieri, mercoledì 5 febbraio 2014.
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Una terza osservazione si impone e va fatta intorno al significato del termine greco digamos. Il primo significato del termine è identico all’italiano bigamo: un uomo con due mogli (simultanee). Ma evidentemente vale qui il secondo significato, frequente del resto negli autori cristiani dei primi secoli: uomo convenuto a seconde nozze, una volta terminate le prime. La discussione sulla legittimità delle seconde nozze in effetti si protrae dal secondo al quinto secolo e oltre, ma non riguarda affatto i divorziati risposati: il termine digamos (e digamia), insieme all’opposto termine monogamos (e monogamia) diventano presto i termini tecnici che accompagnano l’annosa polemica sulle seconde nozze dei vedovi.
L’importanza della questione deriva evidentemente dal fatto che da un lato le parole del Signore sulla “unica carne” formata dagli sposi sembravano escludere questa possibilità, d’altra parte però la durata media della vita di allora, molto inferiore a quella di oggi, e la giovane età delle ragazze all’atto del matrimonio, comportava la presenza nella comunità di un numero molto significativo di vedovi e soprattutto di vedove in età da marito. Inoltre quest’ultima condizione, su base scritturistica, era tenuta in alta considerazione, tanto che le vedove, com’è noto, costituivano un ordo istituzionale.
La Chiesa ha solo lentamente riconosciuto la piena legittimità delle seconde nozze dei vedovi, bisogna per questo attendere almeno la fine del IV secolo; in precedenza venivano concesse ma non certo incoraggiate. I rigoristi invece consideravano i vedovi risposati alla stregua degli adulteri: un “adulterio presentabile”, secondo la definizione di Atenagora, apologeta del secondo secolo che neanche è considerato un rigorista (Supplica, 33,2).
Sono numerosi i testi che testimoniano dell’uso del termine digamos o del corrispettivo monogamos per indicare la condizione vedovile nei confronti delle seconde nozze. Un esempio dall’epistolario di Girolamo testimonia ancora a ridosso del quinto secolo della valenza tecnica dei termini, conservati in greco, in riferimento allo stato vedovile: «qui de monogamia sacerdos est, quare viduam hortatur ut digamos sit?» (ep. 52,16).
Spesso il significato di tali termini è dato per scontato dall’autore, quindi la lettura rimane esposta a interpretazioni scorrette, ma in alcuni casi il loro uso è davvero indubitabile, ad esempio nelle Costituzioni Apostoliche (in due passi: 3,2,2 e 6.17.1), una collezione canonistica, in cui è definito monogamos colui che non si risposa. Un testimone molto chiaro del significato tecnico di digamos nel terzo secolo è Origene, che parla della condizione della vedova rispetto al secondo matrimonio nel quarto paragrafo della ventesima omelia su Geremia; a proposito di questo testo, bisogna rilevare il diverso atteggiamento degli autori moderni: Pierre Nautin, il grande patrologo che ha curato l’edizione di Sources Chrétiennes delle omelie su Geremia, annota puntualmente che si tratta della questione delle seconde nozze delle vedove (SC 238, pp. 268-269, note 1 e 2); Luciana Mortari, traduttrice italiana della Collana di Studi Patristici, al contrario, afferma che si tratta della questione dei divorziati risposati, adducendo come giustificazione la prassi penitenziale della Chiesa orientale (in realtà: Ortodossa) (Collana di Studi Patristici 123, p. 265, nota 43); infine nel Dizionario di Origene, alla voce “Matrimonio” di Giulia Sfameni Gasparro, tra i maggiori esperti della materia, il testo in questione è di nuovo correttamente collocato nell’ambito della questione del matrimonio delle vedove (p. 269).
Un “monumento” alla questione è costituito dal trattato De monogamia di Tertulliano, del suo periodo montanista, che quindi esclude totalmente la possibilità delle seconde nozze per chi è rimasto vedovo. Questa ultima notazione ci aiuta a tornare al significato del canone di Nicea. Infatti Socrate Scolastico, uno storico dell’inizio del quinto secolo sempre ben documentato, che oltretutto manifesta chiare simpatie per i novaziani, asserisce che i novaziani che erano “intorno alla Frigia” non accoglievano i digami (in Storia della Chiesa, 5,22,60), precisamente la questione affrontata dal canone di Nicea. I montanisti (detti anche frigi o catafrigi, dal loro luogo originario) e i novaziani si erano infatti uniti in un unico movimento rigorista, detto appunto dei “puri”, come sono definiti nel canone ottavo del Concilio di Nicea.
Quale dunque il senso del canone? I “puri” per rientrare nella Chiesa cattolica dovevano accettare di vivere in comunione con i vedovi e le vedove che si sono risposati (e che non avevano affatto bisogno di penitenza pubblica) e con gli apostati che siano stati riconciliati con la Chiesa dopo l’opportuna penitenza. Digamos, privo di ulteriori specificazioni, è usato come termine tecnico nel senso di vedovi risposati, come è logico che sia in un canone disciplinare. Nulla a che vedere con divorziati risposati. L’equivoco evidentemente è nato dall’idea idea che una presunta prassi tollerante in materia matrimoniale della Chiesa antica si sia conservata nell’attuale prassi della Chiesa Ortodossa: un’ipotesi suggestiva ma tutt’altro che dimostrata, mi sembra. In realtà, come abbiamo visto per i vedovi, nella Chiesa antica la tendenza prevalente riguardo alle nozze era più vicina al rigorismo che a posizioni “tolleranti”.
Personalmente non saprei dire se e come oggi i divorziati risposati possano essere riammessi ai sacramenti; è una questione complessa dove sono in gioco l’indissolubilità del matrimonio e l’accoglienza da offrire a tutti. Non si tratta quindi di una semplice questione disciplinare, come ha ricordato il Papa di recente. Quello che mi sembra chiaro è che se si vogliono apportare argomenti a sostegno della riammissione dei divorziati risposati ai sacramenti, non si può certo fare appello alla prassi della Chiesa antica.