Proponiamo il testo integrale della quarta predica di Quaresima pronunciata stamattina, 24 marzo 2017, nella Casa Pontificia da padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia.
***
Abbiamo riflettuto nelle prime due meditazioni di Quaresima sullo Spirito Santo che ci introduce alla piena verità sulla persona di Cristo, facendocelo proclamare Signore e vero Dio. Nell’ultima meditazione siamo passati dall’essere all’agire di Cristo, dalla sua persona al suo operato, e in particolare sul mistero della sua morte redentrice. Oggi ci proponiamo di meditare sul mistero della sua e della nostra risurrezione.
San Paolo attribuisce apertamente la risurrezione di Gesú da morte all’opera dello Spirito Santo. Dice che Cristo “è stato costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti” (Rom 1,4). In Cristo è diventata realtà la grande profezia di Ezechiele sullo Spirito che entra nelle ossa aride, le risuscita dalle loro tombe e fa di una moltitudine di morti “un esercito grande, sterminato” di risorti alla vita e alla speranza (cf. Ez 37, 1-14).
Ma non è su questa linea che vorrei proseguire la mia meditazione. Fare dello Spirito Santo il principio ispiratore di tutta la teologia (l’intento della cosiddetta Teologia del terzo articolo!) non significa far entrare a forza lo Spirito Santo in ogni affermazione, nominandolo a ogni piè sospinto. Non sarebbe nella natura del Paraclito che, come quella della luce, è di illuminare ogni cosa restando lui stesso, per così dire, nell’ombra, come dietro le quinte. Più che parlare “dello” Spirito Santo, la Teologia del terzo articolo consiste nel parlare “nello” Spirito Santo, con tutto ciò che questo semplice cambio di preposizione comporta.
- La risurrezione di Cristo: approccio storico
Diciamo anzitutto qualcosa sulla risurrezione di Cristo come fatto “storico”. Possiamo definire la risurrezione un evento storico, nel senso comune di questo termine, cioè di realmente accaduto, nel senso, cioè, in cui storico si oppone a mitico e a leggendario? Per esprimerci nei termini del dibattito recente: Gesù è risorto solo nel kerigma, cioè nell’annuncio della Chiesa (come qualcuno ha affermato sulla scia di Rudolf Bultmann), o invece è risuscitato anche nella realtà e nella storia? Ancora: è risorto lui, la persona di Gesù, o è risorta solo la sua causa, nel senso metaforico in cui risorgere significa il sopravvivere, o il riemergere vittorioso di un’idea, dopo la morte di chi l’ha proposta?
Vediamo dunque in che senso si dà un approccio anche storico alla risurrezione di Cristo. Non perché qualcuno di noi qui abbia bisogno di essere persuaso di questo, ma, come dice Luca all’inizio del suo vangelo, “perché possiamo renderci conto della solidità degli insegnamenti che abbiamo ricevuto” (cf Lc 1, 4) e che trasmettiamo agli altri.
La fede dei discepoli, salvo qualche eccezione (Giovanni, le pie donne), non regge alla prova della sua tragica fine. Con la passione e la morte, il buio ricopre tutto. Il loro stato d’animo traspare dalle parole dei due discepoli di Emmaus: “Noi speravamo che fosse lui… ma ormai sono passati tre giorni” (Lc 24, 21). Siamo a un punto morto della fede. Il caso Gesù è considerato chiuso.
Adesso – sempre in veste di storici – portiamoci a qualche anno, anzi a qualche settimana, dopo. Che incontriamo? Un gruppo di uomini, lo stesso che era stato accanto a Gesù, il quale va ripetendo, a voce alta, che Gesù di Nazareth è lui il Messia, il Signore, il Figlio di Dio; che è vivo e che verrà a giudicare il mondo. Il caso di Gesù non solo è riaperto, ma è portato in breve tempo a una dimensione assoluta e universale. Quell’uomo interessa non solo il popolo d’Israele, ma tutti gli uomini di tutti i tempi. “La pietra scartata dai costruttori, – dice san Pietro – è diventata testata d’angolo” (1 Pt 2, 4), cioè principio di una nuova umanità. D’ora in poi, lo si sappia o no, non c’è alcun altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è possibile essere salvati, se non quello di Gesù di Nazareth (cf At 4, 12).
Che cosa ha determinato un cambiamento tale per cui gli stessi uomini che prima avevano rinnegato Gesù o erano fuggiti, adesso dicono in pubblico queste cose, fondano Chiese e si lasciano perfino imprigionare, flagellare, uccidere per lui? Essi ci danno, in coro, questa risposta: “È risorto! L’abbiamo visto!”. L’ultimo atto che può compiere lo storico, prima di cedere la parola alla fede, è verificare quella risposta.
La risurrezione è un evento storico, in un senso particolarissimo. Essa è al limite della storia, come quel filo che divide il mare dalla terra ferma. Vi è dentro e fuori nello stesso tempo. Con essa, la storia si apre a ciò che è al di là della storia, all’escatologia. È quindi, in certo senso, la rottura della storia e il suo superamento, così come la creazione ne è l’inizio. Questo fa sì che la risurrezione sia un evento in se stesso non testimoniabile e non attingibile con le nostre categorie mentali che sono tutte legate all’esperienza del tempo e dello spazio. E difatti nessuno assiste all’istante in cui Gesù risorge. Nessuno può dire di aver visto Gesù risorgere, ma solo di averlo visto risorto.
La risurrezione dunque si conosce a posteriori, in seguito. Come è la presenza fisica del Verbo in Maria che dimostra il fatto che si è incarnato; così la presenza spirituale di Cristo nella comunità, attestata dalle apparizioni, dimostra che è risorto. Questo spiega il fatto che nessuno storico profano fa parola della risurrezione. Tacito, che pure ricorda la morte di “un certo Cristo” al tempo di Ponzio Pilato[1], tace della risurrezione. Quell’evento non aveva rilevanza e senso se non per chi ne sperimentava le conseguenze, in seno alla comunità.
In che senso allora parliamo di un approccio storico alla risurrezione? Quello che si offre alla considerazione dello storico e gli permette di parlare della risurrezione, sono due fatti: primo, l’improvvisa e inspiegabile fede dei discepoli, una fede così tenace da resistere perfino alla prova del martirio; secondo, la spiegazione che di tale fede gli interessati ci hanno lasciato. Ha scritto un eminente esegeta: “Nel momento decisivo, quando Gesù fu catturato e giustiziato, i discepoli non nutrivano alcuna attesa di una risurrezione. Essi fuggirono e dettero per finito il caso di Gesù. Dovette quindi intervenire qualcosa che in poco tempo, non solo provocò il cambiamento radicale del loro stato d’animo, ma li portò anche a un’attività del tutto nuova e alla fondazione della Chiesa. Questo ‘qualcosa’ è il nucleo storico della fede di Pasqua”[2].
È stato giustamente notato che, se si nega il carattere storico e oggettivo della risurrezione, la nascita della fede e della Chiesa diventerebbe un mistero ancora più inspiegabile della risurrezione stessa: “L’idea che l’imponente edificio della storia del cristianesimo sia come un’enorme piramide posta in bilico su un fatto insignificante è certamente meno credibile dell’affermazione che l’intero evento – e cioè il dato di fatto più il significato a esso inerente – abbia realmente occupato un posto nella storia paragonabile a quello che gli attribuisce il Nuovo Testamento”[3].
Qual è allora il punto di approdo della ricerca storica a proposito della risurrezione? Possiamo coglierlo nelle parole dei discepoli di Emmaus. Alcuni discepoli il mattino di Pasqua sono andati al sepolcro di Gesù e hanno trovato che le cose stavano come avevano riferito le donne, andate prima di loro, “ma lui non l’hanno visto” (cf. Lc 24, 24). Anche la storia si reca al sepolcro di Gesù e deve constatare che le cose stanno così come i testimoni hanno detto. Ma lui, il Risorto, non lo vede. Non basta constatare storicamente i fatti, bisogna “vedere” il Risorto, e questo non lo può dare la storia, ma solo la fede[4]. Chi arriva correndo dalla terraferma al sponda del mare deve arrestarsi di colpo; può spingersi oltre con lo sguardo, ma non con i piedi.
- Significato apologetico della risurrezione
Passando dalla storia alla fede, cambia anche il modo di parlare della risurrezione. Quello del Nuovo Testamento e della liturgia della Chiesa è un linguaggio assertivo, apodittico, che non si fonda su dimostrazioni dialettiche. “Ora invece Cristo è risuscitato dai morti” (1 Cor 15, 20), dice Paolo. Qui si è ormai sul piano della fede, non più della dimostrazione. È quello che chiamiamo il kerygma. “Scimus Christum surrexisse a mortuis vere”, canta la liturgia il giorno di Pasqua: “Noi sappiamo che Cristo è veramente risorto”. Non solo crediamo, ma avendo creduto, sappiamo che è così, ne siamo sicuri. La prova più sicura della risurrezione si ha dopo, non prima, che si è creduto, perché allora si sperimenta che Gesú è vivo.
Ma che cosa è la risurrezione considerata dal punto di vista della fede? È la testimonianza di Dio su Gesù Cristo. Dio Padre che, in vita, aveva già accreditato Gesù di Nazareth con prodigi e segni, ora ha posto un sigillo definitivo al suo riconoscimento, risuscitandolo da morte. Nel discorso di Atene, san Paolo formula così la cosa: “Dio lo ha risuscitato dai morti dando così a tutti gli uomini una prova sicura su di lui” (At 17, 31). La risurrezione è il potente “Sì” di Dio, il suo “Amen” pronunciato sulla vita del suo Figlio Gesù.
La morte di Cristo non era, per se stessa, sufficiente a testimoniare la verità della sua causa. Molti uomini – ne abbiamo una tragica riprova ai nostri giorni – muoiono per cause sbagliate, addirittura per cause inique. La loro morte non ha reso vera la loro causa; ha solamente testimoniato che essi credevano nella verità di essa. La morte di Cristo non è la garanzia della sua verità, ma del suo amore, giacché “nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per la persona amata” (Gv 15, 13).
Soltanto la risurrezione costituisce il sigillo dell’autenticità divina di Cristo. Ecco perché, a chi gli chiedeva un segno, Gesù rispose: “Distruggete questo tempio ed io in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2, 18 s) e in altro luogo dice: “Non sarà dato a questa generazione nessun segno se non il segno di Giona” che dopo tre giorni nel ventre del pesce rivide la luce (Mt 16,4). Paolo ha ragione di edificare sulla risurrezione, come sul suo fondamento, tutto l’edificio della fede: “Se Cristo non fosse risorto, sarebbe vana la nostra fede. Noi saremmo falsi testimoni di Dio… Saremmo da compiangere più di tutti gli uomini” (1 Cor 15, 14-15.19). Si capisce perché sant’Agostino può dire che “la fede dei cristiani è la risurrezione di Cristo”. Che Cristo sia morto tutti lo credono, anche i pagani, ma che sia risorto, solo i cristiani lo credono, e non è cristiano chi non lo crede[5].
- Significato misterico della risurrezione
Fin qui il significato apologetico della risurrezione di Cristo, teso cioè a stabilire l’autenticità della missione di Cristo e la legittimità della sua pretesa divina. Ad esso bisogna aggiungere tutto un altro significato che potremmo chiamare misterico o salvifico, in quanto riguarda anche noi che crediamo. La risurrezione di Cristo ci riguarda ed è un mistero “per noi”, perché fonda la speranza della nostra stessa risurrezione da morte:
“Se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rom 8,11).
La fede in una vita ultraterrena appare, in maniera chiara ed esplicita, solo verso la fine dell’Antico Testamento. Il Secondo libro dei Maccabei ne costituisce la testimonianza più avanzata: “Dopo che saremo morti — esclama uno dei sette fratelli ucciso sotto Antioco — (Dio) ci risusciterà a vita nuova ed eterna” (cf. 2 Macc 7,1-14). Ma questa fede non nasce improvvisamente, dal nulla; si radica vitalmente in tutta la precedente rivelazione biblica, di cui rappresenta la conclusione attesa e, per così dire, il frutto più maturo.
Soprattutto due certezze spinsero a questa conclusione: la certezza dell’onnipotenza di Dio e quella della insufficienza e dell’ingiustizia della retribuzione terrena. Appariva sempre più evidente — specie dopo l’esperienza dell’esilio — che la sorte dei buoni in questo mondo è tale che, senza la speranza di una retribuzione diversa dei giusti dopo la morte, sarebbe impossibile non cadere nella disperazione. In questa vita, infatti, tutto capita allo stesso modo al giusto e all’empio, sia la felicità che la sventura. Il libro del Qoelet rappresenta l’espressione più lucida di questa amara conclusione (cf. Qo 7, 15).
Il pensiero di Gesú sull’argomento è espresso nella discussione con i Sadducei sul caso della donna che aveva avuto sette mariti (Lc 20, 27-38). Attenendosi alla rivelazione biblica più antica, quella mosaica, essi non avevano accettato la dottrina della risurrezione dei morti che consideravano una novità. Rifacendosi alla legge del levirato (Deut 25: la donna rimasta vedova, senza figli maschi, viene sposata dal cognato), essi ipotizzano il caso limite di una donna che è passata, in questo modo, attraverso sette mariti. Alla fine, sicuri di aver dimostrato l’assurdità della risurrezione, domandano: “Questa donna, nella risurrezione, di chi sarà moglie”?
Senza discostarsi dal terreno scelto dagli avversari, con poche parole, Gesù dapprima svela dov’è l’errore dei sadducei e lo corregge, poi dà alla fede nella risurrezione la sua fondazione più profonda e più convincente. Gesù si pronuncia su due cose: sul modo e sul fatto della risurrezione. Quanto al fatto che ci sarà una risurrezione dei morti, Gesù ricorda l’episodio del roveto ardente dove Dio si proclama “Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Se Dio si proclama “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”, quando Abramo, Isacco e Giacobbe sono morti da generazioni, e se, d’altra parte, “Dio è Dio dei vivi e non dei morti”, allora vuol dire che Abramo, Isacco e Giacobbe da qualche parte sono vivi!
Più che sulla risposta di Gesú ai Sadducei, la fede nella risurrezione si fonda però sul fatto della sua risurrezione da morte. “Se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, esclama Paolo, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato!” (1 Cor. 15, 12-13). È assurdo pensare a un corpo, il cui capo regna glorioso in cielo e il cui corpo marcisce eternamente sulla terra o finisca nel nulla.
La fede cristiana nella risurrezione dei morti risponde, del resto, al desiderio più istintivo del cuore umano. Noi — dice Paolo — non vogliamo essere spogliati del nostro corpo, ma sopravvestiti, cioè non vogliamo sopravvivere con una parte sola del nostro essere — l’anima —, ma con tutto il nostro io, anima e corpo; perciò, non desideriamo che il nostro corpo mortale venga distrutto, ma che “venga assorbito dalla vita” e si vesta, esso stesso, di immortalità (cf. 2 Cor. 5, 1-5; 1 Cor. 15, 51-53).
Della vita eterna noi non abbiamo in questa vita soltanto una promessa: ne abbiamo anche “le primizie” e la “caparra”. Non bisognerebbe mai tradurre il termine greco arrabôn usato da san Paolo a proposito dello Spirito (2 Cor 1, 22; 5,5; Ef 1,14)) con “pegno” (pignus), ma solo con caparra (arra). Sant’Agostino ha spiegato bene la differenza. Il pegno, dice, non è l’inizio del pagamento, ma qualcosa che viene dato in attesa del pagamento; una volta effettuato il pagamento, il pegno viene restituito. Non così la caparra. Essa non viene restituita al momento del pagamento, ma completata. Fa parte già del pagamento. “Se Dio, attraverso il suo Spirito, ci ha dato come caparra l’amore, quando ci verrà data tutta la realtà, ci verrà forse tolta la caparra? No certo, ma quanto ha già dato lo completerà” [6].
Come “le primizie” annunciano il raccolto pieno e sono parte di esso, così la caparra è parte del pieno possesso dello Spirito. È lo “Spirito che abita in noi” (cf Rom 8,11), più che l’immortalità dell’anima, che assicura, come si vede, la continuità tra la nostra vita presente e quella futura.
Circa il modo della risurrezione, in quella stessa occasione Gesù afferma la condizione spirituale dei risorti: “Quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio”.
Si è tentato di illustrare il passaggio dalla condizione terrestre a quella di risorti con esempi tratti dalla natura: il seme da cui sboccia l’albero, la natura morta in inverno che risorge a primavera, il bruco che si trasforma in farfalla. Paolo si limita a dire: “Viene seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale” (1 Cor 15, 42- 44).
La verità è che tutto ciò che riguarda la nostra condizione nell’aldilà resta un mistero impenetrabile; non perché Dio abbia voluto tenercelo nascosto, ma perché, costretti come siamo, a pensare ogni cosa dentro le categorie del tempo e dello spazio, ci mancano gli strumenti per rappresentarcelo. L’eternità non è un’entità che esiste a parte e che si possa definire in se stessa, quasi fosse un tempo allungato all’infinito. Essa è il modo di essere di Dio. L’eternità è Dio! Entrare nella vita eterna significa semplicemente essere ammessi, per grazia, a condividere il modo di essere di Dio.
Tutto questo non sarebbe stato possibile se l’eternità non fosse prima entrata nel tempo. È in Cristo risorto e grazie a lui che noi possiamo rivestire il modo di essere di Dio. San Paolo si rappresenta quello che lo aspetta dopo morte come un “andare a stare con Cristo” (Fil 1,23). La stessa cosa si deduce dalla parola di Gesú al buon ladrone: “Oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23, 43). Il paradiso è un essere “con Cristo”, come suoi “coeredi”. La vita eterna è un ricongiunsi delle membra al capo, un fare “massa” con lui nella gloria, dopo essere stati uniti a lui nella sofferenza (Rom 8,17).
Un simpatica storia narrata da uno scrittore tedesco moderno ci aiuta a darci un senso della vita eterna più che tutti i tentativi di spiegazione razionale. In un monastero medievale vivevano due monaci legati tra loro da profonda amicizia spirituale. Uno si chiamava Rufus e l’altro Rufinus. In tutto il loro tempo libero non facevano che cercare di immaginare e descrivere come sarebbe stata la vita eterna nella Gerusalemme celeste. Rufus che era un capomastro se l’immaginava come una città con porte d’oro, tempestata di pietre preziose; Rufinus che era organista, come tutta risonante di celesti melodie.
Alla fine fecero un patto: quello di loro che sarebbe morto per primo sarebbe tornato la notte successiva, per assicurare l’amico che le cose stavano proprio come le avevano immaginate. Sarebbe bastata una parola. Se era come avevano pensato, avrebbe detto semplicemente: taliter!, cioè proprio così; se – ma la cosa era del tutto impossibile – fosse stato diversamente, avrebbe detto: aliter, diverso!
Una sera, mentre era all’organo, il cuore di Rufino si fermò. L’amico vegliò trepidante tutta la notte, ma niente; attese in veglie e digiuni per settimane e mesi, e niente. Finalmente, nell’anniversario della morte, ecco che di notte, in un alone di luce, entra nella sua cella l’amico. Vedendo che tace, è lui a chiedergli, sicuro della risposta affermativa: taliter? È così vero? Ma l’amico scuote il capo in segno negativo. Disperato, grida: aliter? È diverso? Di nuovo un segno negativo del capo. E finalmente dalle labbra chiuse dell’amico escono, come in un soffio, due parole: Totaliter aliter: Totalmente altro! È tutt’un’altra cosa! Rufus capisce in un lampo che il cielo è infinitamente di più di quello che avevano immaginato, che non si può descrivere, e di lì a poco muore anche lui, per il desiderio di raggiungerlo [7].
Il fatto, naturalmente, è una leggenda, ma il suo contenuto è quanto mai biblico. “Occhio non vide, né orecchio udì, né mai è entrato in cuore di uomo ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano” (cf. 1 Cor 2, 9). San Simeone, il Nuovo Teologo, uno dei santi più amati nella Chiesa Ortodossa, ebbe un giorno una visione; era certo di aver contemplato Dio in persona e, sicuro che non ci potesse essere nulla di più grande e radioso di ciò che aveva visto, disse: ”Se il cielo non è che questo, mi basta!” Il Signore gli rispose: “Sei veramente ben meschino, se ti accontenti di questi beni, perché, in rapporto ai beni futuri, essi sono come un cielo dipinto su carta, in confronto al cielo vero” [8].
Quando si vuole attraversare un braccio di mare, diceva sant’Agostino, la cosa più importante non è starsene sulla riva e aguzzare la vista per vedere cosa c’è sulla sponda opposta, ma è salire sulla barca che porta a quella riva. E anche per noi la cosa più importante non è speculare su come sarà la nostra vita eterna, ma fare le cose che sappiamo portano ad essa[9]. Che la nostra giornata di oggi sia un piccolo passo verso di essa.
[1] Tacito, Annali 25.
[2] Martin Dibelius, Iesus, Berlino 1966, p. 117.
[3] Charles H. Dodd, History and the Gospel, London 1964, p.76 (ed. Italiana Storia ed Evangelo, Brescia 1976, p. 87).
[4] Cf. Søren Kierkegaard, Diario, X, 4, A, 523.
[5] Cf. S. Agostino, Enarr. in Psalmos, 120, 6 (CCL, 40, p 1791).
[6] S. Agostino, Discorsi, 23, 9 (CC 41, p. 314).
[7] H. Franck, Der Regenbogen. Siebenmalsieben Geschichten, Leipzig 1927.
[8] S. Simeone Nuovo Teologo, Seconda preghiera di ringraziamento (SCh 113, p. 350).
[9] Agostino, La Trinità IV,15,30; Confessioni, VII, 21.