San Francesco durante il suo transito, ossia passaggio dalla nuda terra al paradiso, circondato dai suoi fedeli compagni mentre uno è intento a scrivere le sue ultime parole consegnate all’ordine dei frati Minori. Questa è una delle raffigurazioni che nel manoscritto Vittorio Emanuele 1167 della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma inframezzano il più antico volgarizzamento delle Chronicae di Angelo Clareno († 1337). Tale testo del frate marchigiano è una lettura sapienziale e teologica della storia del primo secolo dell’ordine minoritico e in esso vi sono presenti anche diverse profezie attribuite al Santo d’Assisi, soprattutto concernenti una futura tribolazione sia della Chiesa che dei frati. Ora si sa che tali oracoli profetici, custoditi quali verba secreta da alcuni gruppi di frati, in realtà sono profezie post eventum, ossia redatte a fatto compiuto ma retrodatate e poste in bocca nientemeno che al santo fondatore dell’ordine (cfr. Francesco profeta. La costruzione di un carisma, Roma 2020). Esse riguardano vari avvenimenti tra cui l’elezione non canonica di un pontefice intendendo con esso Bonifacio VIII che succedette alla cattedra di Roma dopo la rinuncia di Celestino V e le tribolazioni dei frati decisi a osservare la Regola dell’Assisiate alla lettera, come avvenne in diverse regioni.
Era solito spesso in quei secoli, ma non solo, per dare maggior autorevolezza alle profezie attribuirle a personaggi autorevoli del passato e così non meraviglia che i frati le pongano in bocca nientemeno che a san Francesco stesso. Considerando ciò la suddetta raffigurazione rappresenta acquista un significato diverso: non tanto un frate nell’atto di raccogliere le ultime parole dell’Assisiate, ma l’attribuzione di quanto steso sul manoscritto – precisamente le profezie presenti nella Cronaca di Angelo Clareno – al Serafico Padre.
Una vera e propria falsificazione per motivi interni all’Ordine si direbbe oggi e quindi degna di nessuna considerazione. Ma in realtà tali profezie furono stese in un momento di tribolazione ed esse sono da leggere in connessione al bisogno di una speranza per se e da comunicare agli altri. Infatti narrano sì di un malessere e scompiglio generale, ma soprattutto indicano che durerà un periodo di tempo e quindi vi sarà un termine in cui al buio della tribolazione farà seguito la luce della vittoria del bene. Inoltre esse indicano anche come comportarsi durante la prova e nel presente caso specifico che la vittoria avverrà grazie a un gruppo di frati che vivranno con fedeltà la loro vocazione evangelica, soprattutto nell’osservanza di una stretta povertà. Chi scrive è interpellato dall’esigenza personale di guardare la realtà come Balaam di Beor, “l’uomo dall’occhio penetrante” (Nm 24,2) o, per usare i termini usati da frate Francesco nella Ammonizione prima, di vedere e credere in cui il credere non elimina il vedere la realtà nella sua complessità e contraddittorietà, ma vede più profondamente riconoscendo in tutto la presenza del Signore che fa nuove tutte le cose. Inteso in questo modo la profezia non lascia spazio all’utopia o al sogno alienante ma è espressione del realismo cristiano che scaturisce dall’Incarnazione. Non è un caso che secondo quanto narra Tommaso da Celano a soli cinque anni dai fatti, Francesco a Greccio nella notte di Natale del 1223 volle “fare memoria di quel Bambino che è nato a Betlemme, in qualche modo intravedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato; come fu adagiato in una mangiatoia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”. E così sopra la mangiatoia – in latino praesepe – fu celebrata la Messa; in questo modo “il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce” (Is 9,1), cioè il compimento della profezia dell’Emmanuele, l’umile compagnia di Dio all’uomo.