Alle ore 9 di questa mattina, nella Cappella Redemptoris Mater, alla presenza del Santo Padre Francesco, il Predicatore della Casa Pontificia, P. Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., ha tenuto la seconda Predica di Avvento sul tema: “Trovarono il bambino con Maria sua madre” (Matteo 2, 11).
La successiva ed ultima predica di Avvento avrà luogo venerdì 20 dicembre.
**
“L’ANIMA MIA MAGNIFICA IL SIGNORE”
Maria nella Visitazione
Seconda Predica di Avvento 2019
In questa meditazione saliamo con Maria “verso la montagna” ed entriamo nella casa di Elisabetta. La Madre di Dio ci parlerà in prima persona con il suo cantico di lode che è il Magnificat. Oggi tutta la Chiesa si stringe intorno al successore di Pietro che celebra il suo 50° di sacerdozio e il cantico della Vergine è la preghiera che più spontaneamente sale dal cuore in circostanze come questa. Una meditazione su di esso è un nostro piccolo modo di partecipare anche in questo momento a tale ricorrenza.
Per comprendere il posto e lo scopo che il cantico della Vergine ha nel vangelo di Luca, è necessario premettere qualche cenno sui cantici evangelici in genere. Gli inni disseminati nei vangeli dell’infanzia – Benedictus, Magnificat, Nunc dimittis – hanno la funzione di spiegare poeticamente il senso spirituale degli eventi narrati -Annunciazione, Visitazione, Natale -, conferendo a essi la forma di una confessione di fede e di lode.
Come tali, essi sono parte integrante della narrazione storica. Non sono degli intermezzi o dei brani staccati, perché ogni evento storico è costituito da due elementi: dal fatto e dal significato del fatto. I cantici inseriscono già la liturgia nella storia. “La liturgia cristiana – è stato scritto – ha i suoi inizi negli inni della storia dell’infanzia”[1]. Noi abbiamo, in altre parole, in questi cantici, un embrione della liturgia natalizia. Essi realizzano l’elemento essenziale della liturgia che è di essere celebrazione festosa e credente dell’evento di salvezza.
Molti problemi rimangono insoluti circa questi cantici, secondo gli studiosi: gli autori reali, le fonti, la struttura interna… Noi possiamo prescindere, fortunatamente, da tutti questi problemi critici e lasciare che essi continuino a essere studiati con frutto da quelli che si occupano di questo genere di problemi. Non dobbiamo attendere che siano risolti tutti questi punti oscuri, per poterci già edificare con questi cantici. Non perché tali problemi non siano importanti, ma perché esiste una certezza che relativizza tutte quelle incertezze: Luca ha accolto questi cantici nel suo vangelo e la Chiesa ha accolto il Vangelo di Luca nel suo canone.
Questi cantici sono “parola di Dio”, ispirata dallo Spirito Santo. Il Magnificat è di Maria perché a essa lo ha “attribuito” lo Spirito Santo e questo fa sì che esso sia più “suo” che se lo avesse scritto materialmente di suo pugno! Infatti a noi non interessa tanto sapere se il Magnificat l’ha composto Maria, quanto sapere se l’ha composto per ispirazione dello Spirito Santo. Se anche fossimo certissimi che esso fu composto direttamente da Maria, esso non ci interesserebbe per questo, ma perché in esso parla lo Spirito Santo.
Il cantico di Maria contiene uno sguardo nuovo su Dio e sul mondo; nella prima parte, che abbraccia i versetti 46-50, lo sguardo di Maria si porta su Dio; nella seconda parte, che abbraccia i restanti versetti, il suo sguardo si porta sul mondo e la storia.
Un nuovo sguardo su Dio
Il primo movimento del Magnificat è verso Dio; Dio ha il primato assoluto su tutto. Maria non si attarda a rispondere al saluto di Elisabetta; non entra in dialogo con gli uomini, ma con Dio. Ella raccoglie la sua anima e la inabissa nell’infinito che è Dio. Nel Magnificat è stata “fissata” per sempre un’esperienza di Dio senza precedenti e senza paragoni nella storia. È l’esempio più sublime del linguaggio cosiddetto numinoso. È stato osservato che l’affacciarsi della realtà divina all’orizzonte di una creatura produce, di solito, due sentimenti contrapposti: uno di timore e uno di amore. Dio si presenta come “il mistero tremendo e affascinante”, tremendo per la sua maestà, affascinante per la sua bontà. Quando la luce di Dio, per la prima volta, brillò nell’anima di Agostino, egli confessa che “tremò di amore e di terrore” e che anche in seguito il contatto con Dio lo faceva “rabbrividire e ardere” insieme[2].
Troviamo qualcosa di simile nel cantico di Maria, espresso in modo biblico, attraverso i titoli. Dio è visto come “Adonai” (che dice molto di più del nostro “Signore” con cui viene tradotto), come “Dio”, come “Potente” e soprattutto come Qadosh, “Santo”: Santo è il suo nome! Nello stesso tempo, però, questo Dio santo e potente, è visto, con infinita fiducia, come “mio Salvatore”, come realtà benevola, amabile, come “proprio” Dio, come un Dio per la creatura. Ma è soprattutto l’insistenza di Maria sulla misericordia che mette in luce questo aspetto benevolo e “affascinante” della realtà divina. “La sua misericordia si stende di generazione in generazione”: queste parole suggeriscono l’idea di un fiume maestoso che sgorga dal cuore di Dio e attraversa tutta la storia umana. Ora questo fiume è giunto a una “chiusa” e riparte a un livello superiore. “Si è ricordato della sua misericordia”: la promessa ad Abramo e ai Padri si è compiuta.
La conoscenza di Dio provoca, per reazione e contrasto, una nuova percezione o conoscenza di sé e del proprio essere, che è quella vera. L’io non si coglie che di fronte a Dio, “coram Deo. In presenza di Dio, la creatura, dunque, conosce finalmente se stessa nella verità. E così vediamo che avviene anche nel Magnificat. Maria si sente “guardata” da Dio, entra ella stessa in quello sguardo, si vede come la vede Dio. E come vede se stessa in questa luce divina? Come “piccola” (“umiltà” qui significa reale piccolezza e bassezza, non la virtù dell’umiltà!) e come “serva”. Si percepisce come un piccolo nulla che Dio si è degnato di guardare. Maria non attribuisce l’elezione divina alla sua virtù dell’umiltà, ma al favore divino, alla grazia. Pensare diversamente (come hanno fatto certi autori famosi) significa distruggere di colpo l’umiltà di Maria. L’umiltà ha uno statuto tutto speciale: ce l’ha chi non crede di averla; non ce l’ha chi crede di averla.
Da questo riconoscimento di Dio, di sé e della verità, si sprigiona la gioia e l’esultanza: “Il mio spirito esulta…”. Gioia prorompente della verità, gioia per l’agire divino, gioia della lode pura e gratuita. Maria magnifica Dio per se stesso, anche se lo magnifica per ciò che ha fatto in lei, cioè a partire dalla propria esperienza, come fanno tutti i grandi oranti della Bibbia. Il giubilo di Maria è il giubilo escatologico per l’agire definitivo di Dio ed è il giubilo creaturale di sentirsi creatura amata dal Creatore, al servizio del Santo, dell’amore, della bellezza, dell’eternità. È la pienezza della gioia. San Bonaventura, che aveva esperienza diretta degli effetti trasformanti della visita di Dio all’anima, parla della venuta dello Spirito Santo in Maria, al momento dell’Annunciazione, come di un fuoco che la infiamma tutta:
Sopravvenne in lei – scrive – lo Spirito Santo come fuoco divino che infiammò la sua mente e santificò la sua carne conferendole una perfettissima purità […]. Oh, se tu fossi capace di sentire, in qualche misura, quale e quanto grande fu l’incendio disceso dal cielo, quale refrigerio recato […]. Se potessi udire il canto giubilante della Vergine![3]
Anche l’esegesi scientifica più esigente e rigorosa si rende conto che qui ci troviamo davanti a parole che non si possono capire con i normali mezzi di analisi filologica e confessa: “Chi legge queste righe è chiamato a condividere il giubilo; solo la comunità concelebrante dei credenti in Cristo e dei suoi fedeli è all’altezza di questi testi”[4]. È un parlare “nello Spirito” che non si può capire se non nello Spirito.
Un nuovo sguardo sul mondo
Il Magnificat si compone di due parti. Quello che cambia, nel passaggio dalla prima alla seconda parte, non è né il mezzo espressivo né il tono; da questo punto di vista, il cantico è un flusso continuo che non presenta cesure; continua la serie dei verbi al passato che narrano ciò che Dio ha fatto, o meglio ha “cominciato a fare”. Quello che cambia è solo l’ambito dell’agire di Dio: dalle cose che ha fatto “in lei”, si passa a osservare le cose che ha fatto nel mondo e nella storia. Si considerano gli effetti del definitivo manifestarsi di Dio, i suoi riflessi sull’umanità e sulla storia. Qui osserviamo una seconda caratteristica della sapienza evangelica che consiste nell’unire all’ebbrezza del contatto con Dio la sobrietà nel guardare il mondo, nel conciliare tra loro il più grande trasporto e abbandono nei confronti di Dio al più grande realismo critico nei confronti della storia e degli uomini.
Con una serie di potenti verbi all’aoristo, Maria descrive, a partire dal versetto 51, un rovesciamento e un radicale mutamento delle parti tra gli uomini: “Ha rovesciato – ha innalzato; ha ricolmato – ha rimandato a mani vuote”. Una svolta improvvisa e irreversibile, perché opera di Dio che non cambia e non torna indietro, come invece fanno gli uomini nelle loro cose. In questo mutamento emergono due categorie di persone: da una parte la categoria dei superbi-potenti-ricchi, dall’altra la categoria degli umili-affamati.
È importante che noi comprendiamo in che consiste un tale rovesciamento e dove si produce, perché diversamente c’è il rischio di fraintendere tutto il cantico e con esso le beatitudini evangeliche che sono qui anticipate quasi con le stesse parole. Guardiamo alla storia: che cosa è accaduto, di fatto, quando ha preso a realizzarsi l’avvenimento cantato da Maria? C’è forse stata una rivoluzione sociale ed esterna, per cui i ricchi sono, di colpo, impoveriti e gli affamati sono stati saziati di cibo? C’è stata forse una più giusta distribuzione dei beni tra le classi? No. Forse che i potenti sono stati rovesciati materialmente dai troni e gli umili innalzati? No; Erode ha continuato a essere chiamato “il Grande” e Maria e Giuseppe sono dovuti fuggire in Egitto a causa sua.
Se dunque quello che ci si aspettava era un cambiamento sociale e visibile, c’è stata una smentita totale da parte della storia. Allora dove è accaduto quel rovesciamento? (Perché esso è accaduto!). È accaduto nella fede! Si è manifestato il regno di Dio e questa cosa ha provocato una silenziosa, ma radicale rivoluzione. Come se si fosse scoperto un bene che, di colpo, ha svalutato la moneta corrente. Il ricco appare come un uomo che ha messo da parte un’ingente somma di denaro, ma nella notte c’è stata una svalutazione del cento per cento e al mattino si è alzato che era un povero miserabile. I poveri e gli affamati, al contrario, sono avvantaggiati, perché sono più pronti ad accogliere la nuova realtà, non temono il cambiamento; hanno il cuore pronto. Il rovesciamento cantato da Maria è dello stesso tipo – dicevo – di quello proclamato da Gesù con le beatitudini e con la parabola del ricco epulone.
Maria parla di ricchezza e povertà a partire da Dio; ancora una volta, parla “coram Deo”, prende come misura Dio, non l’uomo. Stabilisce il criterio “definitivo”, escatologico. Dire dunque che si tratta di un rovesciamento avvenuto “nella fede”, non significa dire che esso è meno reale e radicale, meno serio, ma che lo è infinitamente di più. Questo non è un disegno creato dall’onda sulla sabbia del mare che l’onda successiva cancella. Si tratta di una ricchezza eterna e di una povertà ugualmente eterna.
Il Magnificat sulla bocca della Chiesa
Sant’Ireneo, commentando l’Annunciazione, dice che “Maria, piena di esultanza, gridò profeticamente in nome della Chiesa: “L’anima mia magnifica il Signore”[5]. Maria è come la voce solista che intona per prima un’aria che deve essere poi ripetuta dal coro. È questa una pacifica convinzione della Tradizione. Anche Origene la fa sua: “È per costoro (cioè per quelli che credono) che Maria magnifica il Signore”15. Anche lui parla di una “profezia di Maria”, a proposito del Magnificat16. Questo vuol dire l’espressione “Maria figura della Chiesa” (typus Ecclesiae), usata dai Padri e accolta dal concilio Vaticano II (cf LG 63). Dire che Maria è “figura della Chiesa” significa dire che ne è la personificazione, la rappresentazione in forma sensibile di una realtà spirituale; significa dire che è modello della Chiesa. Ella è figura della Chiesa anche nel senso che nella sua persona si realizza, fin dall’inizio e in maniera perfetta, l’idea di Chiesa; che ella ne costituisce, sotto il capo che è Cristo, il membro principale, e la primizia.
Ma cosa vuol dire qui “Chiesa” e al posto di quale Chiesa Ireneo dice che Maria intona il Magnificat? Non al posto della Chiesa nominale, ma della Chiesa reale, cioè non della Chiesa in astratto, ma della Chiesa concreta, delle persone e delle anime che compongono la Chiesa. Il Magnificat non è solo da recitare, ma da vivere, da far proprio da ciascuno di noi; è il “nostro” cantico. Quando diciamo: “L’anima mia magnifica il Signore”, quel “mia” è da prendere in senso diretto, non riportato.
Sia in ciascuno – scrive sant’Ambrogio – l’anima di Maria per magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria per esultare in Dio […]. Se infatti secondo la carne una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo; ognuna infatti accoglie in sé il Verbo di Dio[6].
Alla luce di questi princìpi, proviamo ora ad applicare a noi – alla Chiesa e all’anima – il cantico di Maria, e vedere cosa dobbiamo fare per “somigliare” a Maria non solo nelle parole, ma anche nei fatti.
Una scuola di conversione evangelica
Là dove Maria proclama il rovesciamento dei potenti e dei superbi, il Magnificat ricorda alla Chiesa qual è l’annuncio essenziale che deve proclamare al mondo. Le insegna a essere anch’essa “profetica”. La Chiesa vive e attua il cantico della Vergine quando ripete con Maria: “Ha rovesciato i potenti, ha rimandato i ricchi a mani vuote!”, e lo ripete con fede, distinguendo questo annuncio da tutti gli altri pronunciamenti che pure ha diritto di fare, in materia di giustizia, di pace, di ordine sociale, in quanto interprete qualificata della legge naturale e custode del comandamento di Cristo dell’amore fraterno.
Se le due prospettive sono distinte, non sono però separate e senza alcun influsso reciproco. Al contrario, l’annuncio di fede di ciò che Dio ha fatto nella storia della salvezza (che è la prospettiva in cui si colloca il Magnificat) diventa la migliore indicazione di ciò che l’uomo deve fare, a sua volta, nella propria storia umana e, anzi, di ciò che la Chiesa stessa ha il compito di fare, in forza della carità che deve avere anche per il ricco, in vista della sua salvezza. Più che “un incitamento a rovesciare i potenti dai troni per innalzare gli umili”, il Magnificat è un salutare ammonimento rivolto ai ricchi e ai potenti circa il tremendo pericolo che corrono, esattamente come sarà, nelle intenzioni di Gesù, la parabola del ricco epulone.
Quello del Magnificat non è dunque l’unico modo di affrontare il problema, oggi così sentito, di ricchezza e povertà, fame e sazietà; ce ne sono altri anch’essi legittimi che partono dalla storia, e non dalla fede, e ai quali giustamente i cristiani danno il loro appoggio e la Chiesa il suo discernimento. Ma questo modo evangelico è quello che la Chiesa deve proclamare sempre e a tutti come suo mandato specifico e con il quale deve sostenere lo sforzo comune di tutti gli uomini di buona volontà. Esso è universalmente valido e sempre attuale. Se per ipotesi (ahimè, remota!) ci fossero un tempo e un luogo in cui non ci fossero più ingiustizie e disuguaglianze sociali tra gli uomini, ma tutti fossero ricchi e sazi, non per questo la Chiesa dovrebbe cessare di proclamare lì, con Maria, che Dio rimanda i ricchi a mani vuote. Anzi, lì dovrebbe proclamarlo con ancora maggiore forza. Il Magnificat è attuale nei paesi ricchi, non meno che nei paesi del terzo mondo.
Ci sono piani e aspetti della realtà che non si colgono a occhio nudo, ma solo con l’ausilio di una luce speciale: o con i raggi infrarossi, o con i raggi ultravioletti. L’immagine ottenuta con questa luce speciale è molto diversa e sorprendente per chi è abituato a vedere quello stesso panorama alla luce naturale. La Chiesa possiede, grazie alla parola di Dio, un’immagine diversa della realtà del mondo, l’unica definitiva, perché ottenuta con la luce di Dio e perché è quella stessa che ha Dio. Essa non può occultare tale immagine. Deve anzi diffonderla, senza mai stancarsi, renderla nota agli uomini, perché ne va del loro destino eterno. È l’immagine che alla fine resterà quando sarà passato “lo schema di questo mondo”. Renderla nota, a volte, con parole semplici, dirette e profetiche, come quelle di Maria, come si dicono le cose di cui si è intimamente e tranquillamente persuasi. E questo anche a costo di sembrare ingenua e fuori dal mondo, di fronte all’opinione dominante e allo spirito del tempo.
L’Apocalisse ci dà un esempio di questo linguaggio profetico, diretto e coraggioso, in cui, all’opinione umana, viene contrapposta la verità divina: “Tu dici [e questo “tu” può essere la singola persona, come può essere un’intera società]: “Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla!”, ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo” (Ap 3, 17).
In una celebre favola di Andersen, si parla di un re a cui è stato fatto credere, da lestofanti, che esiste una stoffa meravigliosa che ha la prerogativa di essere invisibile agli sciocchi e inetti e visibile solo ai savi. Egli, per primo, naturalmente, non la vede, ma ha paura di dirlo, per tema di passare per uno degli sciocchi, e così fan tutti i suoi ministri e tutto il popolo. Il re sfila per le strade senza nulla addosso, ma tutti, per non tradirsi, fingono di ammirare il bellissimo vestito, finché si ode la vocina di un bambino che grida tra la folla: “Ma il re è nudo!”, rompendo l’incantesimo, e tutti finalmente hanno il coraggio di ammettere che quel famoso vestito non esiste.
La Chiesa deve essere come la vocina di quel bambino, la quale, a un certo mondo tutto infatuato delle proprie ricchezze e che induce a ritenere pazzo e sciocco chi mostra di non credere in esse, ripete, con le parole dell’Apocalisse: “Tu non sai di essere nudo!”. Qui si vede come davvero Maria, nel Magnificat, “parla profeticamente per la Chiesa”: ella, per prima, partendo da Dio, ha messo a nudo la grande povertà della ricchezza di questo mondo. Il Magnificat, da solo, giustifica il titolo di “Stella dell’evangelizzazione” che san Paolo VI ha attribuito a Maria nella sua “Evangelii nuntiandi”.
Il Magnificat, richiamo alla conversione
Sarebbe fraintendere completamente questa parte del Magnificat che parla dei superbi e degli umili, dei ricchi e degli affamati, se la confinassimo solo nell’ambito delle cose che la Chiesa e il credente devono predicare al mondo. Qui non si tratta di qualcosa che si deve solo predicare, ma di qualcosa che si deve anzitutto praticare. Maria può proclamare la beatitudine degli umili e dei poveri perché è lei stessa tra gli umili e i poveri. Il rovesciamento da lei prospettato deve avvenire anzitutto nell’intimo di chi ripete il Magnificat e prega con esso. Dio – dice Maria – ha rovesciato i superbi “nei pensieri del loro cuore”.
Di colpo, il discorso è portato da fuori a dentro, dalle discussioni teologiche, in cui tutti hanno ragione, ai pensieri del cuore, in cui tutti abbiamo torto. L’uomo che vive “per se stesso”, il cui Dio non è il Signore, ma il proprio “io”, è un uomo che si è costruito un trono e vi siede sopra dettando legge agli altri. Ora Dio – dice Maria – rovescia questi tali dal loro trono; mette a nudo la loro non-verità e ingiustizia. C’è un mondo interiore, fatto di pensieri, volontà, desideri e passioni, dal quale – dice san Giacomo – provengono le guerre e le liti, le ingiustizie e i soprusi che sono in mezzo a noi (cf Gc 4, 1) e finché nessuno comincia con il risanare questa radice, nulla cambia veramente nel mondo e se qualcosa cambia è per riprodurre, di lì a poco, la stessa situazione di prima.
Come ci raggiunge da vicino il cantico di Maria, come ci scruta a fondo e come mette davvero “la scure alla radice”! Che stoltezza e incoerenza sarebbe mai la mia, se ogni giorno, ai Vespri, ripetessi, con Maria, che Dio “ha rovesciato i potenti dai troni” e intanto continuassi a bramare il potere, un posto più alto, una promozione umana, un avanzamento di carriera e perdessi la pace se esso tarda ad arrivare; se ogni giorno proclamassi, con Maria, che Dio “ha rimandato i ricchi a mani vuote” e intanto bramassi senza posa di arricchire e di possedere sempre più cose e cose sempre più raffinate; se preferissi essere a mani vuote davanti a Dio, anziché a mani vuote davanti al mondo, vuote dei beni di Dio, piuttosto che vuote dei beni di questo mondo. Che stoltezza sarebbe la mia se continuassi a ripetere, con Maria, che Dio “guarda verso gli umili”, che si accosta a loro, mentre tiene a distanza i superbi e i ricchi di tutto, e poi fossi di quelli che fanno esattamente il contrario.
Tutti i giorni – ha scritto Lutero commentando il Magnificat – dobbiamo constatare che ognuno si sforza di elevarsi al di sopra di sé, a una posizione d’onore, di potenza, di ricchezza, di dominio, a una vita agiata e a tutto ciò che è grande e superbo. E ognuno vuole stare con tali persone, corre loro dietro, le serve volentieri, ognuno vuol partecipare alla loro grandezza […]. Nessuno vuole guardare in basso, dove c’è povertà, vituperio, bisogno, afflizione e angoscia, anzi tutti distolgono lo sguardo da una tale condizione. Ognuno sfugge le persone così provate, le scansa, le lascia sole, nessuno pensa di aiutarle, di assisterle e di far sì che esse pure divengano qualche cosa: devono rimanere in basso ed essere disprezzate[7].
Dio – ci ricorda Maria – fa l’opposto di questo: tiene a distanza i superbi e innalza fino a sé gli umili e i piccoli; sta più volentieri con i bisognosi e gli affamati che lo tempestano di suppliche e di richieste, che non con i ricchi e i sazi che non hanno bisogno di lui e non gli chiedono nulla. Così facendo, Maria ci esorta, con dolcezza materna, a imitare Dio, a far nostra la sua scelta. Ci insegna le vie di Dio. Il Magnificat è davvero una meravigliosa scuola di sapienza evangelica. Una scuola di conversione continua.
Come tutta la Scrittura, esso è uno specchio (cf Gc 1, 23) e sappiamo che dello specchio si possono fare due usi molto diversi. Lo si può usare rivolto verso l’esterno, verso gli altri, come specchio ustorio, proiettando la luce del sole verso un punto lontano fino a incendiarlo, come fece Archimede con le navi romane, oppure lo si può usare tenendolo rivolto verso di sé, per vedere in esso il proprio volto e correggerne i difetti e le brutture. San Giacomo ci esorta a usarlo soprattutto in questo secondo modo, per mettere “a fuoco” noi stessi, prima che gli altri.
“La Scrittura – diceva san Gregorio Magno – cresce a forza di essere letta”[8]. Lo stesso avviene del Magnificat, le sue parole sono arricchite, non consunte, dall’uso. Prima di noi schiere di santi o di semplici credenti hanno pregato con queste parole, ne hanno assaporato la verità, messo in pratica il contenuto. Per la comunione dei santi nel corpo mistico, tutto questo immenso patrimonio aderisce ora al Magnificat. È bene pregarlo così, in coro, con tutti gli oranti della Chiesa. Dio lo ascolta così.
Per entrare in questo coro che attraversa i secoli, basta che noi intendiamo ripresentare a Dio i sentimenti e il trasporto di Maria che per prima lo intonò “in nome della Chiesa”, dei dottori che lo commentarono, degli artisti che lo musicarono con fede, dei pii e degli umili di cuore che lo vissero. Grazie a questo meraviglioso cantico, Maria continua a magnificare il Signore per tutte le generazioni; la sua voce, come quella di una corifea, sostiene e trascina quella della Chiesa.
Un orante del salterio invita tutti a unirsi a lui, dicendo: “Magnificate il Signore con me” (Sal 34, 4). Maria ripete ai suoi figli le stesse parole. Se posso osare interpretare il suo pensiero, il Santo Padre, nel giorno del suo Giubileo sacerdotale, rivolge a tutti noi lo stesso invito: “Magnificate il Signore con me”. E noi, Santità, promettiamo di farlo.
[1] 1 H. Schürmann, Il Vangelo di Luca, I, Paideia, Brescia 1983, p. 251.
[2] Cf S. Agostino, Confessioni, VII, 16; XI, 9.
[3] S. Bonaventura, Lignum vitae, I, 3.
[4] H. Schürmann, Il Vangelo di Luca, cit., p. 172.
[5] S. Ireneo, Contro le eresie, III, 10, 2 (SCh 211, p. 118).
[6] S. Ambrogio, Commento al Vangelo di Luca, II, 26 (CC 14, p. 42).
[7] Ed. Weimar, 7, p. 547.
[8] S. Gregorio Magno, Moralia, 20, 1 (PL 76, 135).