Gli abusi sessuali nella Chiesa Cattolica e la successiva incapacità di affrontarli in modo aperto, responsabile ed efficace hanno causato una crisi sfaccettata che ha afflitto e ferito la Chiesa, per non parlare di coloro che sono stati abusati. Sebbene l’esperienza dell’abuso sembri drammaticamente presente in alcune parti del mondo, non è un fenomeno limitato. In effetti, l’intera Chiesa deve assumere un’ottica onesta, intraprendere rigorosi discernimenti e agire in modo decisivo per impedire che si verifichino abusi in futuro, facendo tutto il possibile per favorire la guarigione delle vittime.
L’importanza e la portata universale di questa sfida hanno spinto Papa Francesco a convocarci in questo incontro, sottolineando il suo impegno e l’impegno della Chiesa nell’affrontare tale crisi. Anzi, invitando i presidenti delle Conferenze Episcopali nazionali, sta evidenziando come la Chiesa debba affrontare questa crisi. Per lui, e per tutti noi riuniti con lui, sarà la via della collegialità e della sinodalità. Con l’aiuto di Dio, sarà possibile modellare e definire il modo in cui l’intera Chiesa, a livello regionale, nazionale, diocesano locale e persino parrocchiale, assumerà il compito di affrontare gli abusi sessuali al suo interno. Pertanto, la sinodalità può essere veramente vissuta incorporando tutte le decisioni e le misure derivanti da ognuno di questi differenti livelli, su base vincolante. Questo include il coinvolgimento di laici, uomini e donne.
Nel fare ciò, dovremmo essere onesti e chiederci: vogliamo davvero questo? Cosa stiamo realmente facendo al riguardo? Stiamo solo adottando misure alibi per una chiesa sinodale e desideriamo davvero rimanere tra di noi come vescovi – nelle “nostre” conferenze, nelle “nostre” commissioni, nelle “nostre” riunioni, in cui i nonvescovi e il non -clero giocano solo un ruolo insignificante? Questo non è il momento né il luogo per entrare nei dettagli; non basta parlare di una chiesa sinodale e se vogliamo davvero viverla, allora dobbiamo imparare anche a praticare altre forme di gestione e il modo in cui portare avanti processi sinodali. Se non facciamo tutto questo, allora il discorso sulla sinodalità nel contesto degli abusi serve solo a nascondere un comportamento incoerente, tanto più in un ambito così delicato e difficile, deviando la responsabilità verso laici (uomini e donne), ma negando comunque loro l’opportunità di assumersi tale responsabilità. Permettetemi di inquadrare ciò in una prospettiva personale. Nessun vescovo dovrebbe dire a se stesso: “Affronto questi problemi e le sfide da solo”. Poiché apparteniamo al collegio dei vescovi, in unione con il Santo Padre, condividiamo accountability (il dover rendere conto) e responsabilità.
La collegialità è un contesto essenziale per affrontare le ferite di abuso inflitte alle vittime e alla Chiesa in generale. Noi vescovi abbiamo bisogno di tornare spesso all’insegnamento del Concilio Vaticano II per trovarci nella più ampia missione e ministero della Chiesa. Ripensiamo a queste parole della Lumen gentium: “ I singoli vescovi, che sono preposti a Chiese particolari, esercitano il loro pastorale governo sopra la porzione del popolo di Dio che è stata loro affidata … Ma in quanto membri del collegio episcopale e legittimi successori degli apostoli, per istituzione e precetto di Cristo sono tenuti ad avere per tutta la Chiesa una sollecitudine” (n. 23). Il punto è chiaro. Nessun vescovo può dire a se stesso: “Questo problema di abuso nella Chiesa non mi riguarda, perché le cose sono diverse nella mia parte del mondo”. Ognuno di noi è responsabile per l’intera Chiesa. Condividiamo accountability (il dover rendere conto) e responsabilità. La nostra preoccupazione deve estendersi oltre la Chiesa locale per abbracciare tutte le chiese con le quali siamo in comunione. Nell’assumere il nostro collegiale e collettivo senso di accountability (il dover rendere conto) e responsabilità, incontreremo inevitabilmente una certa dialettica. Perché la nostra collegialità esprime davvero la varietà e l’universalità del Popolo di Dio, ma anche l’unità del gregge di Cristo. C’è, in altre parole, un costante bisogno di apprezzare la grande diversità nell’esperienza vissuta dalle chiese sparse nel mondo a causa della loro storia, cultura e costumi.
Allo stesso tempo, dobbiamo anche apprezzare e promuovere la nostra unità, la nostra singola missione e il nostro scopo che deve essere “… il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (LG, 1). Nella nostra Chiesa, abbiamo urgente bisogno di sviluppare ulteriormente le competenze interculturali, che alla fine devono dimostrare il loro valore attraverso una comunicazione interculturale di successo e un relativo processo decisionale fondato. In pratica, questo significa che mentre affrontiamo insieme il flagello dell’abuso sessuale, cioè collegialmente, dobbiamo farlo con una visione singolare e unitaria, nonché con la flessibilità e l’adattabilità che deriva dalla diversità di persone e situazioni nella nostra cura universale. In questo contesto, dobbiamo poi soprattutto chiederci se viviamo adeguatamente ciò che si intende con i concetti di collegialità e sinodalità. La collegialità e la sinodalità non devono rimanere solo concetti teorici, ampiamente descritti ma non messi in pratica. A questo proposito, vedo ancora un ampio margine di ulteriori sviluppi. Forse potremmo fare progressi, riuscendo a chiarire i seguenti punti.
Non si può ignorare che nella Chiesa abbiamo avuto difficoltà ad affrontare la questione dell’abuso nel modo giusto, per vari motivi. Anche noi, come vescovi, abbiamo tale responsabilità. Questo mi solleva una domanda: ci impegniamo davvero in una conversazione aperta e segnaliamo onestamente i nostri fratelli vescovi o preti quando notiamo che hanno un comportamento problematico? Dovremmo coltivare la cultura della correctio fraterna, senza offenderci, e allo stesso tempo considerando le critiche di un fratello come un’opportunità per eseguire meglio i nostri compiti.
• Strettamente collegato a questo punto è la volontà di ammettere personalmente gli errori l’uno con l’altro e chiedere aiuto, senza voler fingere di essere perfetti. Abbiamo davvero una relazione fraterna, per cui in tali casi non dobbiamo preoccupare di danneggiarci, semplicemente perché mostriamo debolezza?
• Per un vescovo, il rapporto con il Santo Padre ha un significato costitutivo. Ogni vescovo è obbligato a obbedire direttamente al Santo Padre e a seguirlo. Dovremmo chiederci onestamente se di conseguenza, talvolta, non pensiamo che la nostra relazione con gli altri vescovi non sia così importante, specialmente se i fratelli hanno un’opinione diversa e/o sentono il bisogno di correggerci. Forse ignoriamo il contributo dei nostri fratelli, perché in definitiva solo il Papa può darci ordini; la collegialità è quindi facile da ignorare o in questo caso non ha peso rilevante?
• In tali contesti facciamo sempre riferimento a Roma e dovremmo chiederci se un certo centralismo romano non tenga abbastanza conto della diversità nella fratellanza, se le nostre competenze e capacità come pastori responsabili delle chiese locali non siano usati in modo appropriato, con la conseguente sofferenza di una collegialità vissuta in modo pratico. Se vogliamo, e dobbiamo, rivitalizzare la nostra collegialità, allora abbiamo bisogno anche di un confronto tra la Curia Romana e le nostre Conferenze Episcopali. Possiamo sempre assumerci la responsabilità di qualcosa nella misura in cui siamo autorizzati a farlo; più responsabilità ci viene concessa, meglio possiamo servire il nostro stesso gregge.
• Sia che si tratti della relazione tra noi vescovi locali e Roma, sia del rapporto dei vescovi tra loro, dovrebbe essere chiaro che la collegialità può essere vissuta e praticata solo sulla base della comunicazione. Dobbiamo chiederci se utilizziamo realmente tutte le forme di comunicazione moderna, regolare e sostenibile o se continuiamo ad essere in ritardo. Onestamente, penso che potremmo migliorare nella velocità per lo scambio di informazioni e anche nella partecipazione per elaborare pareri e avviare discussioni.
Sono fermamente convinto che non ci siano alternative reali alla collegialità e alla sinodalità nella nostra interazione. Ma prima di esaminare alcune considerazioni pratiche per affrontare gli abusi sessuali nella Chiesa da una prospettiva collegiale, permettetemi di riassumere la sfida che affrontiamo insieme.
La sfida degli abusi sessuali nella Chiesa
L’abuso sessuale di minori e adulti vulnerabili nella Chiesa rivela una complessa rete di fattori interconnessi tra cui: psicopatologia, decisioni morali peccaminose, ambienti sociali che consentono l’abuso, risposte istituzionali e pastorali spesso inadeguate o chiaramente dannose o mancanza di risposta. L’abuso perpetrato dai chierici (vescovi, sacerdoti, diaconi) e da altri che servono nella Chiesa (ad esempio insegnanti, catechisti, allenatori) si traduce in danni incalcolabili sia diretti che indiretti. Soprattutto, l’abuso infligge danni ai sopravvissuti. Questo danno diretto può essere fisico. È inevitabilmente psicologico, con tutte le conseguenze a lungo termine di ogni grave trauma emotivo legato a un profondo tradimento della fiducia. Molto spesso, è una forma di danno spirituale diretto che scuote la fede e interrompe drasticamente il cammino spirituale di coloro che subiscono abusi, facendoli sprofondare a volte nella disperazione.
Il danno indiretto dell’abuso deriva spesso da una risposta istituzionale fallita o inadeguata all’abuso sessuale. In questo tipo di risposta indiretta e dannosa ci potrebbe essere: mancato ascolto delle vittime, non prendendo sul serio le loro affermazioni; mancanza di assistenza e sostegno alle vittime e alle loro famiglie, dando invece priorità alle questioni istituzionali e finanziarie (ad esempio, nascondendo “Abusi e abusati”) piuttosto che alla cura delle vittime; non rimuovere i molestatori da situazioni che potrebbero consentirgli di abusare di altre vittime e non offrire programmi di formazione e screening per coloro che lavorano con bambini e adulti vulnerabili. Per quanto gravi siano gli abusi diretti di bambini e adulti indifesi, il danno indiretto inflitto da coloro che hanno responsabilità direttive all’interno della Chiesa può essere peggiore ri-vittimizzando coloro che hanno già subito abusi. Affrontare gli abusi sessuali nella Chiesa rappresenta una sfida complessa e sfaccettata, forse senza precedenti nella storia a causa delle moderne comunicazioni e delle connessioni globali. Ciò rende la collegialità ancora più decisiva nella situazione attuale. Ma una Chiesa collegiale come dovrebbe rispondere a questa sfida? Se usiamo gli elementi della collegialità come obiettivo per guardare e affrontare la crisi, possiamo forse iniziare a fare qualche progresso. Sicuramente, affrontare la crisi non significa una soluzione rapida o definitiva. Avremo bisogno di iniziare coraggiosamente e perseverare fermamente su questa strada, insieme.
Per ora, voglio indicare tre temi che considero particolarmente importanti per la nostra riflessione: giustizia, guarigione e pellegrinaggio.
Giustizia
L’abuso sessuale, in particolare dei minori, è radicato in un ingiusto senso di diritto: “Posso rivendicare questa persona per il mio uso e abuso”. Sebbene l’abuso sessuale sia molte cose, tra cui violazione e tradimento della fiducia, alla radice è un atto di grave ingiustizia. Le vittime sopravvissute parlano del loro sentimento di essere ingiustamente violati. Un compito fondamentale che appartiene a tutti noi, individualmente e collegialmente, è di ridare giustizia a coloro che sono stati violati. Ci sono più livelli di lavoro in questo processo di risanamento. Certo, dobbiamo difendere e promuovere la giustizia di Dio e attuare gli standard di giustizia che appartengono alla nostra comunità ecclesiale. La legge e il processo ecclesiastico devono essere implementati in modo equo ed efficace. C’è, tuttavia, dell’altro in questa storia. L’abuso sessuale di minori e persone vulnerabili non solo infrange la legge divina ed ecclesiastica, ma è anche un comportamento criminale pubblico. La Chiesa non vive in un mondo isolato di sua creazione. La Chiesa vive nel mondo e con il mondo. Coloro che si sono resi colpevoli di un comportamento criminale sono giustamente responsabili nei confronti dell’autorità civile per quello che hanno fatto. Sebbene la Chiesa non sia un agente dello stato, essa tuttavia riconosce l’autorità legittima della legge civile e dello stato. Pertanto, la Chiesa collabora con le autorità civili in tali contesti per rendere giustizia ai sopravvissuti e all’ordine civile. Le complicazioni derivano quando vi sono relazioni antagoniste tra la Chiesa e lo stato o, ancor più drammaticamente, quando lo stato perseguita o è pronto a perseguitare la Chiesa. Questo tipo di circostanze sottolinea l’importanza della collegialità. Solo in una rete di forti relazioni tra i vescovi e le Chiese locali che lavorano insieme, la Chiesa può navigare nelle acque turbolente del conflitto con lo Stato e, allo stesso tempo, affrontare in modo appropriato il crimine degli abusi sessuali. C’è un doppio bisogno che solo la collegialità può affrontare: la necessità di una saggezza condivisa e la necessità di un incoraggiamento di supporto.
Guarigione
Oltre a difendere la giustizia, una Chiesa collegiale rappresenta la guarigione. Certamente, quella guarigione deve raggiungere le vittime degli abusi. Deve anche estendersi ad altre persone colpite, incluse le comunità la cui fiducia è stata tradita o severamente messa alla prova. Perché una guarigione avvenga in modo efficace, deve esserci una comunicazione chiara, trasparente e coerente da parte di una Chiesa collegiale alle vittime, ai membri della Chiesa e alla società in generale. In quella comunicazione, la Chiesa offre diversi messaggi.
Il primo messaggio, rivolto in particolare alle vittime, è una solidarietà rispettosa e il riconoscimento onesto del loro dolore e della loro sofferenza. Sebbene ciò sembrerebbe ovvio, non è sempre stato manifestato. Ignorare o minimizzare ciò che le vittime hanno sperimentato esaspera il loro dolore e ritarda la loro guarigione. All’interno di una Chiesa collegiale, possiamo unirci nella considerazione e nella compassione per giungere alla comprensione.
Il secondo messaggio deve essere una proposta per guarire. Esistono molti percorsi per la guarigione, dalla consulenza professionale al supporto di gruppi di coetanei, e altri mezzi. In una Chiesa collegiale, possiamo esercitare la nostra immaginazione e sviluppare questi percorsi di guarigione per indicarli anche a coloro che stanno facendo del male.
Un terzo messaggio importante è identificare e attuare misure per proteggere i giovani e le persone vulnerabili dagli abusi futuri. Ancora una volta, ci vuole una saggezza collettiva e un pensiero condiviso per sviluppare il modo di proteggere i giovani ed evitare la tragedia degli abusi. Ciò può accadere in una Chiesa collegiale che si assume la responsabilità per il futuro.
Un quarto e ultimo messaggio è diretto alla società in generale. Il nostro Santo Padre ha saggiamente e correttamente affermato che l’abuso è un problema umano. Non è, naturalmente, limitato alla Chiesa. In realtà, è una realtà pervasiva e dolorosa che si riscontra in ogni ambito dell’esistenza. Da questo momento particolarmente impegnativo nella vita della Chiesa, in un contesto collegiale, possiamo attingere e sviluppare risorse di grande utilità per un mondo più vasto. La grazia di questo momento può effettivamente essere la nostra capacità di prestare servizio a una grande urgenza nel mondo, dal punto di vista della nostra esperienza nella Chiesa.
Pellegrinaggio
Dal momento in cui affrontiamo la tragedia degli abusi sessuali nella Chiesa, dal momento in cui incontriamo la sofferenza delle vittime, non siamo mai più consapevoli del nostro status di popolo pellegrino di Dio. Sappiamo che non siamo ancora arrivati a destinazione. Siamo consapevoli che il nostro viaggio non è stato un percorso rettilineo. Il Concilio Vaticano II ha espresso bene tale concetto nella Lumen gentium: “Già dunque è arrivata a noi l’ultima fase dei tempi. La rinnovazione del mondo è irrevocabilmente acquisita e in certo modo reale è anticipata in questo mondo: difatti la Chiesa già sulla terra è adornata di vera santità, anche se imperfetta. Tuttavia, fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali la giustizia ha la sua dimora, la Chiesa peregrinante nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo; essa vive tra le creature, le quali ancora gemono, sono nel travaglio del parto e sospirano la manifestazione dei figli di Dio” (n 48). Essere il popolo pellegrino di Dio non significa semplicemente che abbiamo uno status incompleto, anche se è proprio così. Essere il popolo pellegrino di Dio significa che siamo una comunità chiamata al continuo pentimento e al continuo discernimento. Dobbiamo pentirci e farlo insieme collegialmente, perché lungo il cammino abbiamo fallito. Dobbiamo cercare il perdono. Dobbiamo essere in un processo di discernimento continuo. In altre parole, insieme o collegialmente, dobbiamo guardare, aspettare, osservare e scoprire la direzione che Dio ci sta indicando nelle circostanze della nostra vita. C’è molto davanti a noi. Con l’evolversi della crisi degli abusi, siamo venuti a sapere che non esiste una soluzione facile o rapida. Siamo sintonizzati per andare avanti, passo dopo passo e insieme. Ciò richiede discernimento.
Conclusione
Recentemente, in un contesto molto diverso, i vescovi del Congo si sono riuniti e hanno agito collegialmente. Con grande coraggio e determinazione, hanno affrontato le sfide sociali e politiche della loro nazione. Lo hanno fatto non uno a uno, ma insieme, collegialmente. Con il sostegno reciproco e condiviso, hanno reso una testimonianza sul significato della collegialità vissuta e sulla sua efficacia. Nel riflettere sulla crisi degli abusi che ha afflitto la Chiesa, faremmo bene a trarre esempio dai vescovi del Congo e a riconoscere il potere della collegialità nell’affrontare le questioni più difficili che ci attendono. Per consentirci di andare avanti con un chiaro senso di accountability (il dover rendere conto) e responsabilità in un contesto di collegialità, ci sono – come vedo – almeno quattro requisiti che sottopongo alla vostra considerazione. Per assumere la collegialità, al fine di affrontare la nostra accountability (il dover rendere conto) e responsabilità, dobbiamo:
• rivendicare, o meglio reclamare, la nostra identità nel collegio apostolico unito al successore di Pietro, e dobbiamo farlo con umiltà e franchezza;
• invocare coraggio e audacia, perché il percorso non è tracciato con grande precisione ed esattezza;
• abbracciare la via del discernimento pratico, perché vogliamo realizzare ciò che Dio vuole da noi nelle circostanze concrete della nostra vita;
• essere disposti a pagare il prezzo di seguire la volontà di Dio in circostanze incerte e dolorose. Se facciamo queste cose, saremo in grado di andare avanti collegialmente su un percorso di accountability (il dover rendere conto) e responsabilità. Ma considerate che tutte queste azioni non sono semplicemente le nostre azioni, sono opera dello Spirito Santo: rivendicare l’identità, sapere chi siamo, vivere con coraggio e forza d’animo, saper discernere ed essere generosi nel servizio. Quindi, che l’ultima parola sia. Veni, Sancte Spiritus, veni.
Incontro su "La Protezione dei Minori nella Chiesa" (terza sessione) - Foto © Copyright Vatican Media
Cardinal Oswald Gracias: "Ognuno di noi è responsabile per l'intera Chiesa" – "Dobbiamo cercare il perdono"
Incontro su “La Protezione dei Minori nella Chiesa” – “Accountability (il dover rendere conto) in una Chiesa Collegiale e Sinodale”