Padre Raniero Cantalamessa ofmcap - Foto © Servizio Fotografico - L'Osservatore Romano

P. Raniero Cantalamessa ofmcap: Il Dio vivente è la vivente Trinità

Seconda predica di Avvento 2018

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Alle ore 9 di questa mattina nella Cappella Redemptoris Mater, alla presenza del Santo Padre Francesco, il Predicatore della Casa Pontificia, P. Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., ha tenuto la seconda Predica di Avvento sul tema: “L’anima mia ha sete del Dio vivente” (Salmo 42, 2).
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IL  DIO VIVENTE È LA VIVENTE TRINITÀ
Seconda Predica di Avvento

Una esperienza del Dio vivente

Quando si tratta della conoscenza del Dio vivente, una esperienza vale più di molti ragionamenti e io vorrei iniziare questa seconda meditazione proprio con una esperienza. Tempo fa ricevetti la lettera  di una persona che seguivo spiritualmente, una donna sposata e vedova, deceduta da alcuni anni. L’autenticità delle sue esperienze è confermata dal fatto che le ha portate con sé nella tomba, senza parlarne mai a nessuno, fuori che al suo padre spirituale. Ma tutte le grazie appartengono alla Chiesa e voglio perciò condividerla con voi, ora che lei è presso Dio. Essa a me ha fatto ricordare l’esperienza di Mosè davanti al roveto ardente. Diceva:
Non avevo ancora quattro anni e mi trovavo in campagna dalla nonna. Una mattina, mentre aspettavo nella mia camera che venissero a vestirmi, guardavo un gran tiglio che spiegava i rami davanti alla finestra. Il sole nascente lo investiva sul davanti. Ero incantata dalla sua bellezza, quando di colpo la mia attenzione fu attirata da uno splendore insolito, d’un bianco straordinario. Ogni foglia, ogni ramo si mise a vibrare come fiammelle di mille candele. Ero più meravigliata di quando vidi cadere la prima neve della mia vita. E la mia meraviglia aumentò quando –non so se con gli occhi del corpo o no – al centro di tutto quel luccichio vidi come uno sguardo e un sorriso di una bellezza e di una benevolenza indicibili. Avevo il cuore che batteva all’impazzata; sentii quella potenza d’amore penetrarmi ed ebbi la sensazione di essere amata fin nel più intimo del mio essere. Durò un minuto, un minuto e mezzo, non lo so, per me era l’eternità. Fui riportata alla realtà da un brivido di freddo che mi passò per il corpo e con grande tristezza mi resi conto che lo sguardo e il sorriso erano svaniti e che a poco a poco lo splendore dell’albero si spegneva. Le foglie ripresero il loro aspetto ordinario e il tiglio, anche se investito dalla luce radiosa di un sole d’estate, in confronto al suo splendore precedente, con mia grande delusione mi apparve oscuro come sotto un cielo piovoso.
Non parlai a nessuno di questo fatto, ma poco tempo dopo, sentii la cuoca e un’altra donna parlare tra di loro di Dio. Trasalii e chiesi: “Dio? Chi è?”, intuendo qualcosa di misterioso. “Povera piccola -disse la cuciniera all’altra donna-, la nonna è una pagana e non le insegna queste cose! Dio -disse rivolta verso di me – è colui che ha fatto il cielo e la terra, gli uomini e gli animali. È onnipotente e abita nel cielo”. Rimasi in silenzio, ma tra di me dissi: “È lui che ho visto!”.
E tuttavia ero molto confusa. Ai miei occhi, la nonna era ben superiore a queste donne di servizio, eppure la cuoca aveva detto che era una pagana perché non conosceva Dio e io avevo capito che era un termine dispregiativo. Chi aveva ragione?  Un mattino aspettavo di nuovo che venissero a vestirmi. Ero impaziente e deploravo il fatto che i miei abiti di bambina si abbottonavano sul di dietro. Alla fine non aspettai più e dissi: “Dio, se tu esisti e sei veramente onnipotente, abbottonami il vestito sulla schiena perché possa scendere in giardino”. Non avevo finito di pronunciare queste parole che il mio vestito si trovò abbottonato. Restai a bocca aperta, atterrita dall’effetto delle mie parole. Le gambe che mi tremavano, mi sedetti davanti allo specchio dell’armadio per costatare se era vero e per riprendere fiato. Non sapevo ancora cosa significasse la frase “tentare Dio” , ma capivo che sarei stata ridotta in polvere se mi fossi opposta alla sua volontà.
Tutto un cammino di santità seguito a quella esperienza conferma che non si era trattato di una fantasia infantile.
Dio è amore e perciò è Trinità
Ora proseguiamo la nostra riflessione sul Dio Vivente. A chi ci rivolgiamo, noi cristiani, quando pronunciamo la parola “Dio”, senza altra specificazione? A chi si riferisce quel “tu”, quando, con le parole del salmo, diciamo: “O Dio, tu sei il mio Dio”(Sal 63,2)? Chi risponde ad esso, per così dire, dall’altro capo del filo? Quel “tu” non è semplicemente Dio-Padre, la prima persona divina, quasi che essa sia esistita o sia pensabile, un solo istante, senza le altre due. Non è neppure  l’essenza divina indeterminata, quasi che esista un’essenza divina che solo in un secondo momento si specifica in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo.
L’unico Dio è il Padre che genera il Figlio e che con lui spira lo Spirito, comunicando ad essi l’intera sua divinità. È il Dio comunione d’amore, in cui unità e trinità provengono dalla stessa radice e dallo stesso atto e formano  una   Triunità, in cui nessuna delle due cose -unità e pluralità- precede l’altra, o  esiste senza l’altra, nessuno dei due livelli è superiore all’altro o più “profondo” dell’altro.
Quel “tu” a cui ci rivolgiamo nella preghiera, secondo i casi e la grazia di ognuno, può essere una delle tre divine persone in particolare: il Padre, il Figlio Gesù Cristo, o lo Spirito Santo, senza che si perda l’intero. Per la comunione trinitaria infatti in ogni persona divina sono presenti le altre due. La Trinità è come uno di quei triangoli musicali che da qualsiasi lato si tocchi vibra tutto e dà lo stesso suono.
Il Dio vivente dei cristiani non è altro, in conclusione, che la vivente Trinità. La dottrina della Trinità è  contenuta, come in nuce, nella rivelazione di Dio come amore. Dire: “Dio è amore” (1 Gv 4,8) è dire: Dio è trinità. Ogni amore implica un amante, un amato e un amore che li unisce. Ogni amore è amore di qualcuno o di qualcosa; non si dà un amore “a vuoto”, senza oggetto. Ora chi ama Dio, per essere definito amore? L’uomo?  Ma allora è amore solo da qualche centinaio di milioni di anni. Ama l’universo? Ma allora è amore solo da qualche decina di miliardi di anni. E prima chi amava Dio per essere l’amore?
I pensatori greci e, in genere, le filosofie religiose di tutti i tempi, concependo Dio soprattutto come “pensiero”, potevano rispondere: Dio pensava se stesso; era “puro pensiero”,”pensiero di pensiero”. Ma questo non è più possibile, nel momento in cui si dice che Dio è anzitutto amore, perché il “puro amore di se stesso” sarebbe puro egoismo, che non è l’esaltazione massima dell’amore, ma la sua totale negazione. Ed ecco la risposta della rivelazione, esplicitata dalla Chiesa. Dio è amore da sempre, ab aeterno, perché prima ancora che esistesse un oggetto fuori di sé da amare, aveva in se stesso il Verbo, il Figlio che amava con amore infinito, cioè “nello Spirito Santo”.
Questo non spiega “come” l’unità possa essere contemporaneamente trinità; questo è un mistero inconoscibile da noi perché avviene solo in  Dio. Ci aiuta però a intuire “perché”, in Dio, l’unità deve essere anche pluralità: perché “Dio è amore”! Un Dio che fosse pura conoscenza o pura legge, o puro potere non avrebbe certo bisogno di essere trino. Questo anzi complicherebbe le cose e infatti nessun “triumvirato” è mai durato a lungo nella storia! Non così con un Dio che è anzitutto amore, perché “meno che tra due, non ci può essere amore”. ”Occorre – ha scritto Henri de Lubac – che il mondo lo sappia: la rivelazione di Dio come amore sconvolge tutto quello che esso aveva concepito in precedenza della divinità”[1]. Noi cristiani crediamo “in un   Dio solo”, non in un  Dio solitario!
Contemplare la Trinità per vincere l’odiosa divisione del mondo[2]
Nessun trattato sulla Trinità è capace di farci entrare in contatto vivo con essa quanto la contemplazione dell’icona della Trinità di Rublev, di cui vediamo una riproduzione nel mosaico che abbiamo davanti a noi, alla sommità della parete di fronte. Dipinta nel 1425 per la Chiesa di san Sergio, l’icona fu dichiarata, dal “concilio dei cento capitoli” del 1551, modello di tutte le rappresentazioni della Trinità.
Una cosa si deve notare subito circa questa immagine. Essa non vuole rappresentare direttamente la Trinità, che, per definizione, è invisibile e ineffabile. Questo sarebbe stato contrario a tutti i canoni dell’iconografia bizantina. Direttamente, essa rappresenta la scena dei tre angeli apparsi ad Abramo alle querce di Mamre (Gen 18,1-15); lo dimostra chiaramente il fatto che in altri dipinti dello stesso soggetto, prima e dopo Rublev, nell’icona appaiono  anche Abramo, Sara, il vitello e, sullo sfondo, la quercia. Questa scena però, alla luce della tradizione patristica, viene letta come una prefigurazione della Trinità. L’icona è una delle forme che assume la lettura spirituale della Bibbia, cioè l’interpretazione di un fatto dell’Antico Testamento alla luce del Nuovo.
Il dogma dell’unità e trinità di Dio viene espresso nell’icona di Rublev dal fatto che le figure presenti sono tre e ben distinte, ma somigliantissime tra loro. Esse sono contenute idealmente dentro un cerchio che mette in luce la loro unità, mentre il diverso movimento, soprattutto del capo, proclama la loro distinzione. Tutti e tre indossano, nell’originale, una veste di colore azzurro, segno della natura divina che hanno in comune; ma sopra, o sotto, di essa ognuno riveste un colore che lo distingue dall’altro. Il Padre (identificato in genere con l’angelo di sinistra verso il quale le altre due persone inclinano il capo), ha una veste dai colori indefinibili, fatta quasi di pura luce, segno della sua invisibilità e inaccessibilità; il Figlio, al centro, veste una tunica scura, segno della umanità che ha rivestito; lo Spirito Santo, l’angelo di destra, un manto verde, segno della vita, essendo egli colui “che dà la vita”.
Soprattutto una cosa colpisce contemplando l’icona di Rublev: la pace profonda e l’unità che emana dall’insieme. Dall’icona si sprigiona un silenzioso grido: “Siate una cosa sola, come noi siamo una cosa sola”. San Sergio di Radonez, per il cui monastero fu dipinta l’icona, si era distinto nella storia russa per aver riportato l’unità tra i capi in discordia tra di loro e aver reso così possibile la liberazione della Russia dai Tartari. Il suo motto era: “Contemplando la Santissima Trinità, vincere l’odiosa discordia di questo mondo”. Rublev ha voluto raccogliere l’eredità spirituale del grande santo che aveva fatto della Trinità la fonte ispiratrice della sua vita e del suo operato.
Da questa visione della Trinità raccogliamo dunque soprattutto l’appello all’unità. Tutti vogliamo l’unità. Dopo la parola felicità, non ce n’è alcun’altra che risponda a un bisogno altrettanto impellente del cuore umano come la parola unità. Noi siamo “esseri finiti, capaci di infinito” e questo vuol dire che siamo creature limitate che aspiriamo a superare il nostro limite, per essere “in qualche modo tutto”, quodammodo omnia, si dice in filosofia. Non ci rassegniamo a essere solo quello che siamo. Chi non ricorda, negli anni giovanili, qualche momento di struggente bisogno di unità, quando avrebbe voluto che tutto l’universo fosse racchiuso in un punto solo e lui essere, con tutti gli altri, in quell’unico punto, tanto il senso di separazione e di solitudine nel mondo si faceva sentire con sofferenza? San Tommaso d’Aquino spiega tutto ciò dicendo: “Poiché l’unità (unum) è un principio dell’essere come la bontà (bonum), ne deriva che ognuno desidera naturalmente l’unità, come desidera il bene. Per questo come l’amore o il desiderio del bene causa sofferenza, così fa anche l’amore o il desiderio dell’unità”[3] .
Tutti dunque vogliamo l’unità, tutti la desideriamo dal profondo del cuore. Perché allora è così difficile fare unità, se tutti la desideriamo così ardentemente? È che noi vogliamo, sì, che si faccia l’unità, ma… intorno al nostro punto di vista. Esso ci sembra così ovvio, così ragionevole, che ci stupiamo come gli altri non se ne accorgano e insistano invece nel loro punto di vista. Tracciamo perfino delicatamente agli altri la strada per venire dove siamo noi e raggiungerci nel nostro centro. Il problema è che l’altro che mi sta davanti sta facendo esattamente la stessa cosa con me. Per questa via non si raggiungerà mai alcuna unità. Si fa il cammino inverso.
La Trinità ci indica il vero cammino verso l’unità. Partendo dalle persone divine, anziché dal concetto di natura, gli orientali si son trovati a dover assicurare in altro modo l’unità divina. Lo hanno fatto elaborando la dottrina della pericoresi. Applicata alla Trinità, pericoresi (alla lettera, mutua compenetrazione) esprime l’unione delle tre persone nell’unica essenza[4]. Grazie ad essa le tre persone sono unite, senza essere confuse; ogni persona si “immedesima” nell’altra, si dona all’altra e fa essere l’altra. Il concetto si fonda sulle parole di Cristo: “Io sono nel Padre e il Padre è in me”.
Gesù ha esteso questo principio al rapporto che c’è tra lui e noi: “Io sono nel Padre e voi in me e io in voi” (Gv 14,20); “Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità” (Gv 17, 23). La via alla vera unità sta nell’imitare tra di noi, nella Chiesa, la pericoresi divina. San Paolo ne indica il fondamento quando dice che “siamo membra gli uni degli altri” (Rom 12, 5). In Dio la pericoresi si basa sull’unità della natura, in noi sul fatto che siamo “un solo corpo e un solo spirito”.
L’Apostolo ci aiuta a capire cosa significa, nella pratica, vivere tra noi la pericoresi, o mutua compenetrazione: “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui” (1 Cor 12, 26); “Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo” (Gal 6, 2). I “pesi” degli altri sono le malattie, i limiti, i crucci, anche i difetti e i peccati. Vivere la pericoresi significa “immedesimarci” con l’altro, calarci, come si dice, nei suoi panni, cercare di capire, prima che giudicare.
Le tre persone divine sono sempre impegnate a glorificarsi a vicenda. Il Padre glorifica il Figlio; il Figlio glorifica il Padre (Gv 17, 4); il Paraclito glorificherà il Figlio (Gv 16,14). Ogni persona si dà a conoscere facendo conoscere l’altra. Il Figlio insegna a gridare Abba!; lo Spirito Santo insegna a gridare: “Gesù è il Signore!”, e “Vieni, Signore” Maranatha. Non insegnano a pronunciare il proprio nome, ma quello delle altre persone. C’è un solo “luogo” al mondo dove la regola “ama il prossimo tuo come te stesso” è messa in pratica, in senso assoluto, ed è la Trinità! Ogni persona divina ama l’altra esattamente come se stessa.
Come è diversa l’atmosfera che si respira quando e in un corpo sociale ci si sforza di vivere con questi ideali sublimi davanti agli occhi! Pensiamo a una famiglia in cui il marito difende ed esalta la propria moglie davanti ai figli e agli estranei, e lo stesso fa la moglie rispetto al marito; pensiamo a una comunità in cui ci si sforza di mettere in pratica la raccomandazione di san Giacomo: “Non sparlate gli uni degli altri, fratelli” (Gc 4, 11), o quella di san Paolo: “Gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rom 12, 10). Di questo passo, uno potrebbe perfino arrivare a rallegrarsi della nomina di un’altra persona che stima a un certo posto di onore (per esempio al cardinalato), come se vi fosse nominato lui stesso.
Ma lasciamo dire queste cose ai santi, i soli che hanno il diritto di farlo, perché le mettono in pratica. In una delle sue Ammonizioni san Francesco d’Assisi dice: “Beato quel servo il quale non si inorgoglisce per il bene che il Signore dice e opera per mezzo di lui, più che per il bene che dice e opera per mezzo di un altro”[5]. Sant’Agostino diceva al popolo:
“Se tu ami l’unità, tutto ciò che in essa è posseduto da qualcuno, lo possiedi anche tu! Bandisci l’invidia e sarà tuo ciò che è mio, e se io bandisco l’invidia, è mio ciò che possiedi tu. L’invidia separa, la carità unisce… Soltanto la mano agisce nel corpo; essa però non agisce soltanto per se stessa, ma anche per l’occhio. Se sta per arrivare un colpo che ha di mira, non la mano, ma il volto, forse che la mano dice: ‘Non mi muovo perché il colpo non è diretto a me?” [6].
Voleva dire: se tu ti sforzi di mettere il bene della comunità al di sopra della tua affermazione personale, ogni carisma e ogni onore presente in essa sarà tuo, come in una famiglia unita il successo di un membro fa felici tutti gli altri. Ecco perché la carità è “la via migliore di tutte” (1 Cor 12, 31): essa moltiplica i carismi, fa del carisma di uno il carisma di tutti. Sono cose, mi rendo conto, facili a dirsi, ma difficili a mettere in pratica; è bello tuttavia sapere che, con la grazia di  Dio, esse sono possibili e alcune anime le hanno realizzate e le realizzano anche per noi nella Chiesa.
Contemplare la Trinità aiuta davvero a vincere “l’odiosa discordia del mondo”. Il primo miracolo che lo Spirito operò a Pentecoste fu di rendere i discepoli “concordi” (At 1, 14), “un cuore solo e un’anima sola” (At 4, 32). Egli è sempre pronto a ripetere questo miracolo, a trasformare ogni volta la dis-cordia in con-cordia. Si può essere divisi nella mente, in ciò che ognuno pensa su questioni dottrinali o pastorali ancora legittimamente dibattute nella Chiesa, ma mai divisi nel cuore: In dubiis libertas, in omnibus vero caritas. Questo significa, propriamente, imitare l’unità della Trinità; essa infatti è “unità nella diversità”.
Entrare nella Trinità
C’è qualcosa di ancora più beato che possiamo fare nei riguardi della Trinità che contemplarla e imitarla ed è entrare in essa! Noi non possiamo abbracciare l’oceano, ma possiamo entrare in esso; non possiamo abbracciare il mistero della Trinità con la nostra mente, ma possiamo entrare in esso! Cristo ci ha lasciato un mezzo concreto per farlo, l’Eucaristia. Nell’icona di Rublev, i tre angeli sono disposti in cerchio intorno a una mensa; su quella mensa c’è una coppa e dentro la coppa, si intravede un agnello. Non si poteva dire in modo più semplice ed efficace che la Trinità ci dà appuntamento ogni giorno nell’Eucaristia. Il banchetto di Abramo alle querce di Mamre è figura di questo banchetto. La visita dei tre ad Abramo si rinnova per noi ogni volta che ci accostiamo alla comunione.
Anche qui, cioè a proposito dell’Eucaristia, è illuminante la dottrina della pericoresi trinitaria. Essa ci dice che dove c’è una persona della Trinità, lì sono anche le altre due, inseparabilmente unite. Al momento della comunione si realizza in senso stretto la parola di Cristo: “Io in loro e tu in me”.  “Chi vede me, vede il Padre”, chi riceve me riceve il Padre. Non arriveremo mai a valutare appieno la grazia che ci è offerta. Commensali della Trinità!
San Cirillo Alessandrino ha formulato con il solito rigore teologico questa verità che lega indissolubilmente Trinità ed Eucaristia. Dice: “Siamo consumati nell’unità con Dio Padre per mezzo di Cristo. Ricevendo infatti in noi corporalmente e spiritualmente ciò che il Figlio è per natura diventiamo partecipi e consorti di tutta la natura suprema” [7].
La stessa persona di cui ho riportato la testimonianza all’inizio, mi confidò, in un’altra occasione, una sua esperienza della Trinità. Mi permetto di condividere anche questa perché aiuta a capire che la Chiesa non è solo quello che si vede o si dice di essa.
“L’altra notte, lo Spirito mi introdusse nel mistero dell’amore trinitario. Lo scambio estasiante del donare e del ricevere si operò anche attraverso di me: del Cristo, al quale ero unita, verso il Padre e del Padre verso il Figlio. Ma come esprimere l’inesprimibile? Non vedevo nulla, ma era ben più che vedere e le mie parole sono impotenti a tradurre questo scambio nella giubilazione, che si rispondeva, si slanciava, riceveva e donava. E da quello scambio fluiva una vita intensa dall’Uno all’Altro, come un latte tiepido che scorre dal seno della madre alla bocca del bambino attaccato a questo benessere. Ed ero io quel bambino, era tutta la creazione che partecipa alla vita, al regno, alla gloria, essendo stata rigenerata da Cristo. O Santa e vivente Trinità! Rimasi come fuori di me per due o tre giorni, e ancora oggi questa esperienza rimane fortemente impressa in me”.
La Trinità non è  soltanto un mistero e un articolo della nostra fede, è una realtà viva e palpitante. Ripeto ciò che ho detto all’inizio: il  Dio vivente della Bibbia non è altri che la vivente Trinità. Che lo Spirito introduca anche noi in essa e ci faccia gustare la sua dolce compagnia.
 
[1] H. de Lubac, Histoire et Esprit, Aubier, Parigi 1950, cap.5.
[2] Riproduco qui  in parte ciò che ho scritto nel mio libro Contemplando la Trinità, Ancora, Milano 2002, pp. 7 ss.
[3] S. Tommaso, Somma teologica I-IIae , q. 26,a.3.
[4]  Cf. Ps. Cirillo Alessandrino, De Trinitate,  23; PG 77 1164B; S. Giovanni Damasceno,  De fide orthodoxa, 3,7.
[5] S. Francesco, Ammonizione XVII (FF, 166).
[6] S. Agostino, Trattati su Giovanni, 32,8.
[7] S. Cirillo Al., Commento a Giovanni, XI, 12 (PG 74, 564)

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ZENIT Staff

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