Mons. Bruno Forte during the presentation of instrumentum laboris in the vatican press room - 23 June 2015

Mons. Bruno Forte - Foto ©ZENIT

Mons. Forte: Riconoscersi in Terra Santa

Alle radici di due popoli (Il Sole 24 Ore, Domenica 5 Agosto 2018, 1 e 6)

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Lo scorso 19 Luglio il Parlamento israeliano ha approvato un testo di Legge Fondamentale intitolato “Israele, Stato Nazione del Popolo Ebraico”, il cui primo articolo afferma: “La Terra di Israele è la patria storica del popolo ebraico, in cui lo Stato di Israele si è insediato. Lo Stato di Israele è la patria nazionale del popolo ebraico, in cui esercita il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all’autodeterminazione”. Queste formulazioni hanno un chiaro carattere politico, in particolare perché ribadiscono l’intangibilità di ciò che attraverso la guerra d’indipendenza di settant’anni fa e quella dei sei giorni del 1967 gli Ebrei hanno conquistato come territorio del loro Stato. Per questo motivo hanno suscitato riserve e perplessità nello stesso mondo ebraico, come mostra la presa di distanza del Presidente d’Israele Reuven Rivlin che, incontrando i leaders della minoranza drusa, la più attiva contro la norma, ha ribadito la sua contrarietà alla Legge, specialmente lì dove essa afferma che “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è un diritto esclusivo del popolo ebraico” e lì dove riformula lo “status” della lingua araba, passata da ufficiale a lingua a statuto speciale. Rivlin ha voluto parlare a tutte le minoranze presenti nello Stato d’Israele aggiungendo: “Non ho dubbi che voi siate uguali a noi da un punto di vista legale e dobbiamo assicurarci che anche voi vi sentiate uguali”.
Gli articoli della Legge approvata hanno, tuttavia, un significato culturale e religioso che non può essere ignorato e che può aiutare a comprenderne in parte le motivazioni, legate alle tante lotte sostenute dal popolo ebraico per giungere alla realtà attuale: questo senso, dalla forte connotazione identitaria, è evocato nei diversi termini usati per indicare la Terra d’Israele nel linguaggio dei tre monoteismi che riconoscono in Abramo il comune “padre nella fede”. Gli Ebrei parlano di “Terra d’Israele”, “Terra promessa” o semplicemente di “Terra” (“Eretz”), accentuando il carattere identitario dell’espressione. I cristiani, sin dall’epoca di Costantino, usano il nome “Terra Santa”, per sottolinearne il significato universale per tutti i credenti delle “religioni del Libro”. L’espressione si trova nel profeta Zaccaria (2, 16: “admat ha-qodesh”, nell’originale ebraico), nell’ambito di una stupenda promessa profetica: “Rallégrati, esulta, figlia di Sion, perché, ecco, io vengo ad abitare in mezzo a te… Il Signore si terrà Giuda come eredità nella terra santa ed eleggerà di nuovo Gerusalemme”. Per l’Islam, poi, Gerusalemme e la roccia del sacrificio d’Isacco sulla spianata del Tempo sono il luogo da cui Maometto è asceso al cielo nel suo sogno profetico. Si comprende, allora, come il riferimento alla Terra Santa evochi l’inestricabile coniugazione di promesse e di attese, di speranze e di dolore, ad essa legate. Scrivono due Autori cristiani, uno francese, l’altro israeliano: “Questa terra è la terra di Dio, ma allo stesso tempo è anche la terra degli uomini. È la terra dove ‘scorrono latte e miele’, ma è anche ‘una terra di lacrime e sangue’. È una terra affascinante per la sua storia umana e divina, attraente per la sua bellezza e la sua diversità, capace di ispirare i più bei canti mistici così come le violenze più sanguinarie” (Alain Marchadour – David Neuhaus, La Terra, la Bibbia e la storia, Jaca Book, Milano 2007, 22s). E aggiungono: “È su questo sfondo concreto che l’alleanza fra Dio e il suo popolo si sviluppa, con il Dio sempre fedele alle sue promesse da un lato, e dall’altro un popolo dalla dura cervice, spesso incostante e infedele” (ib., 20).
Da questi accenni si può comprendere, come scriveva il Card. Carlo Maria Martini nella prefazione al libro citato, l’importanza di ciò che “Terra Santa” viene a significare “per tutti coloro che hanno a cuore la terra della Bibbia, l’avvenire degli Ebrei e dei Palestinesi, e la pace del mondo”. Nei giorni appena trascorsi, durante i quali ho guidato un pellegrinaggio della diocesi a me affidata in quella terra, ho provato a raccogliere alcune impressioni sulla Legge Fondamentale da parte di cristiani tanto arabi, quanto di provenienza ebraica. La constatazione di partenza è comune: gli Ebrei hanno sofferto tanto e convivono ora con un popolo che tanto ha sofferto e soffre a causa loro. Un cristiano di origine ebraica mi ha detto: “Io non credo che ci sarà una soluzione, almeno fino al momento in cui i due popoli non riconosceranno ciascuno nell’altro una presenza permanente e ineliminabile. Non dico che debbano amarsi, ma devono entrambi non negare che l’altro faccia parte del suo presente. Noi siamo lontanissimi da questo obiettivo”. Ha quindi aggiunto: “Il nemico più grande della pace e della giustizia in Terra Santa è la condizione in cui entrambi i popoli credono di potersi sopraffare. Quest’atteggiamento è il più feroce nemico della pace: dal desiderio di vincere l’altro deriva la convinzione di poterlo far sparire. Il muro è il simbolo di questa dura realtà: rappresenta il voluto disinteressamento e la cecità nei confronti della condizione di chi soffre al di là della frontiera”. Il processo di educazione per un confronto pacifico sarà, dunque, lungo e la presenza cristiana non potrà sottrarsi allo sforzo di fare da “ponte” tra le due parti, sostenendo un confronto sano e stimolante. Tutto questo chiederà forza morale, disponibilità al sacrificio e coraggio per attivare processi efficaci di riconciliazione. Rinunciare a questo sogno significherebbe, però, abbandonare ogni prospettiva di pace: è quanto hanno ricordato al mondo nelle loro visite pastorali in Terra Santa Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco. Quando saranno pronte le parti in conflitto ad accettare la verità esigente di questo appello? E la Legge fondamentale appena approvata, con l’assolutezza delle sue pretese identitarie, rischia di essere un ulteriore ostacolo su questo cammino indispensabile per tutti.
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Mons. Bruno Forte è Arcivescovo di Chieti-Vasto.

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Bruno Forte

Arcivescovo di Chieti-Vasto

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