Mons. Francesco Follo - Foto © Servizio Fotografico-L'Osservatore Romano

Mons. Follo: Pane quotidiano e pane eucaristico

L’opera della fede – Domenica XVIII del Tempo Ordinario – Anno B – 5 agosto 2018

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Rito Romano
Es 16,2-4.12-15; Sal 77; Ef 4,17.20-24; Gv 6,24-35
 
 
Rito Ambrosiano
1Re 18,16b-40a; Sal 15; Rm 11,1-15; Mt 21,33-46
XI Domenica dopo Pentecoste
 
 1) Il problema è che si cerca il dono di Dio e non Dio come dono.
Il Vangelo di questa XVIII Domenica del Tempo Ordinario ci racconta di Gesù che invita la gente a non cercare in Lui solo la persona che sfama il corpo, ma soprattutto lo spirito e dice di se stesso: “Io sono il Pane della Vita; chi viene a me non avrà più fame” (Gv 6, 35)”. E’ strano questo Pane: a differenza di ogni altro pane, non è la persona ad assimilarlo a sé, ma è il Pane stesso che ci assimila alla Sua natura: “Diventiamo ciò che mangiamo” (Sant’Ambrogio di Milano). Cristo ci fa diventare come Lui.
Gesù è il cibo di eternità di cui dobbiamo andare alla ricerca continuamente e senza il quale la vita non ha senso o comunque perde di valore e consistenza. Solo nel Pane di Vita abbiamo la vita che dura per sempre.
Questo è il Cibo, di cui il mondo ha bisogno davvero. E’ un Cibo che non perisce e che impedisce di perire. Nel pane umano c’è gioia, fatica e amore umano, nel pane divino c’è gioia, fatica e amore divino, che ci fa vivere eucaristicamente. E vivere eucaristicamente non vuole dire solo “ringraziare”, ma  condividere.
Quando il cuore dell’uomo è alimentato con il Pane del Cielo, questo cuore fa sì che ci sia pane per tutti.
Dio nutre noi e attraverso noi nutre il mondo. Nutrendoci con se stesso, Cristo fa un’azione da Dio. Offre bocconi di vita ai morsi della nostra fame: quella del corpo e quella del cuore che il pane della terra non può saziare. Noi, poveri essere umani, cerchiamo un pane che non faccia morire: il Pane di cielo, il cibo per l’anima. Facendo la comunione “addentiamo” la Vita, e siamo saziati d’amore.
L’importante è capire che questo Pane è un dono immenso che ci viene da un Dio che non chiede, ma dà, che non pretende ma offre, che non esige niente, ma dona tutto. Non solo dona qualcosa, Lui dona se stesso.
Con l’Eucaristia, la nostra vita di terra si intreccia con la una vita di cielo, e in noi entra un corrente d’amore che  fa fiorire le radici del cuore.
Dunque la cosa più urgente da fare per ogni cristiano è quella di fare frequentemente la Comunione e di “spendere” il tempo quotidiano a raccogliere i frammenti del Pane celeste, che stanno anche nella Parola e nei sacramenti, per poterli -a sua volta- continuamente seminare nei campi del mondo.
Occorre che la nostra vita diventi Eucaristia, che vuol dire grazie, ma è un grazie speciale, perché al lavoro dell’uomo unisce la carità di Dio, il quale rende giusto il cuore riempendolo di misericordia. Perché ci sia giustizia tra gli uomini, deve prima germogliare nei cuori la giustizia misericordiosa, che non si cresce senza il nutrimento vitale del Pane di Vita.
Senza questo pane l’uomo non vive nella verità e nell’amore e utilizza tutto il creato per distruggersi. Condividendo il pane eucaristico possiamo condividere l’altro pane portando Cristo al povero, che anela non solo al cibo ma all’amore.
2)  L’opera di Dio è questa: credere in colui che egli ha mandato (Gv 6, 29).
Nel primo paragrafo ho offerto spunti di riflessione per capire l’affermazione di Cristo: “Io sono il Pane della Vita”, ma c’è una altra frase nel vangelo di oggi che è utile capire bene: “L’opera di Dio è questa: credere in colui che egli ha mandato (Gv 6, 29).
Tra i vati dibattiti circa il credere e il praticare, circa la moralità e la giustizia, il Vangelo di oggi è come se chiedesse: “Le nostre opere ‘in chi’ sono fatte?” Nel Vangelo di Giovanni fede e opere quasi coincidono: l’opera per eccellenza, infatti, è credere. È l’opera “fatta in Dio”, che apre la porta della vita alla luce. Credere è confidare in Cristo. credere è rimanere nel Signore. Tutto nel Vangelo di Giovanni conduce a una relazione di intimità con Gesù. Vedere è credere, e credere è essere uniti profondamente e indissolubilmente a Lui. Credere in Cristo coincide con l’essere in Lui.
A questo riguardo Sant’Agostino spiega: “Gesù non disse di credere a lui né credere di lui, ma di credere in lui… dunque, se vogliamo compiere l’opera di Dio, poiché l’opera di Dio consiste effettivamente in questo: credere in colui che giustifica l’empio”. Poi sempre Sant’Agostino prosegue: “Il Signore non ha voluto distinguere la fede dalle opere, ma ha definito la fede stessa un’opera. E’ fede, infatti, quella che opera mediante l’amore (cf. Gal 5, 6)”. Che la nostra opera sia credere in Cristo con amorosa fiducia e totale abbandono, e nutrirci di Lui. Gesù, vero pane di vita che sazia la nostra fame di senso, di verità, non si può “guadagnare” con il lavoro umano. Lui viene a noi soltanto come dono dell’amore di Dio, come opera di Dio da chiedere e accogliere.
Un esempio di operosa vita eucaristica, cioè di una vita nel ringraziare Dio e nel condividerne castamente l’amore con il prossimo,  ci viene dalla Vergini consacrate.
La consacrazione verginale riceve significato dal riferimento a Cristo, vivente e presente nel sacramento dell’Eucaristia. Come il Papa emerito Benedetto XVI ha insegnato scrivendo:
“Oltre al legame con il celibato sacerdotale, il Mistero eucaristico manifesta un intrinseco rapporto con la verginità consacrata, in quanto questa è espressione della dedizione esclusiva della Chiesa a Cristo, che essa accoglie come suo Sposo con fedeltà radicale e feconda. Nell’Eucaristia la verginità consacrata trova ispirazione ed alimento per la sua dedizione totale a Cristo” (Sacramentum caritatis, n. 81).
Ricevendo Cristo come sua ispirazione e suo cibo, la vergine consacrata si alimenta quotidianamente con l’Eucaristia. E, rafforzata da questo cibo spirituale ricambia l’amore sponsale di Cristo con la preghiera a Dio e con  il servizio agli ultimi. E a questo riguardo l’Ecclesiae Sponsae Imago, la recente Istruzione della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, propone: “Al centro della loro esistenza, mettano l’Eucaristia, sacramento dell’Alleanza nuziale da cui sgorga la grazia della loro consacrazione” (n.32)
Queste donne consacrate testimoniano che nell’Eucaristia avvengono due fatti miracolosi.
Il primo è il miracolo del pane e del vino che diventa il corpo e il sangue di Cristo (transustanziazione). Il secondo è quello che fa di noi “un sacrificio vivente a Dio gradito”, che ci unisce al sacrificio di Cristo che è sacrificio di comunione per la salvezza e la gioia del mondo.
Nel pane e nel vino consacrati, Cristo non offre solo se stesso, ma anche noi cambiandoci (misticamente, non realmente) in Lui stesso. Lui dà anche a noi il valore che ha il suo dono d’amore al Padre. In quel pane e quel vino ci siamo anche noi; “In ciò che offre, la Chiesa offre se stessa” (Sant’Agostino d’Ippona).
Certo, la vergine che più di tutte è donna eucaristica, è la Vergine Maria. La Santa Vergine non fu presente all’Ultima Cena, ma il Venerdì santo fu lei che accolse tra le sua braccia e depose il corpo del Figlio, staccato dalla croce, sulle sue ginocchia. Io penso che abbia detto fra sé e sé: “Questo è il mio corpo”. E continuò a credere nel Figlio di Dio. Se la sua fede diede carne al Verbo di Dio il giorno dell’annunciazione a Nazareth. Se questa fede accresciuta accettò noi come figli. Questa fede del Venerdì santo con le parole “queste è il mio corpo” la unì ancor più profondamente al sacrificio del Figlio e con lui divenne offerta gradita a Dio per la salvezza del mondo. Le vergini consacrate prendano l’esempio dalla Madre di Dio e noi da questa Vergini e la nostra eucaristia sarà celebrata e vissuta con verità e santità
Chi crede in Cristo compie l’opera di Dio. L’ha Madonna l’ha fatto: dicendo sempre sì con fede piena compì l’opera di Dio e diede la carne che divenne il Pane della Vita. Le Vergini consacrate, e noi con loro, imitiamola, “praticando la giustizia, amando la pietà, camminando umilmente con il nostro Dio” (cfr. Mic 6, 8).
 
 
Lettura Patristica
Baldovino di Ford (ca. 1120-1190),
De sacram. altar., 2, 3
 
“Io sono il pane della vita: chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete” (Jn 6,35).
“Chi viene a me” ha lo stesso significato di “chi crede in me”. “Non avrà più fame” vuol dire la stessa cosa di “non avrà più sete”. In un caso e nell’altro è significata la sazietà eterna quando più nulla manca.
Precisa, peraltro, la Sapienza: “Coloro che mi mangiano, avranno ancora fame; quelli che mi bevono avranno ancora sete” (Si 24,29). Cristo, Sapienza di Dio (1Co 1,24), non è mangiato fin d’ora fino a saziare il nostro desiderio, ma solo nella misura in cui eccita il nostro desiderio di sazietà; e più gustiamo la sua dolcezza più il nostro desiderio si ravviva. Ecco perché coloro che lo mangiano avranno ancora fame fino a che non sopraggiunge la sazietà. Ma, quando il loro desiderio sarà stato soddisfatto dai beni celesti, essi non avranno più né fame né sete (Ap 7,16).
La frase: “Coloro che mi mangiano avranno ancora fame”, può anche intendersi in rapporto al mondo futuro: infatti vi è in questa sazietà eterna una sorta di fame, che non deriva dal bisogno bensì dalla felicità. I commensali desiderano mangiarvi in continuazione: mai soffrono la fame, e nondimeno mai cessano dal venir saziati. Sazietà senza ingordigia, desiderio senza gemito. Cristo, sempre ammirabile nella sua bellezza, è del pari sempre desiderabile, “lui che gli angeli desiderano ammirare” (1P 1,12).
Così, proprio quando lo si possiede lo si desidera; proprio quando lo si afferra lo si cerca, secondo quanto è scritto: “Cercate sempre il suo volto” (Ps 104,4).
Sì, lo si cerca sempre, colui che si ama per sempre possederlo. Per cui, coloro che lo trovano lo cercano ancora, quelli che lo mangiano ne hanno ancora fame, quelli che lo bevono ne hanno ancora sete.
Tale ricerca, però, rimuove ogni preoccupazione, tale fame scaccia ogni fame, tale sete estingue ogni sete. È fame non dell’indigenza, bensì della felicità consumata. Della fame dell’indigente, è detto: “Chi viene a me non avrà più fame, chi crede in me non avrà più sete”. Della fame del beato, invece: “Coloro che mi mangiano avranno ancora fame; quelli che mi bevono avranno ancora sete”.
Il termine fame può intendersi come equivalente di sete, sia che si tratti della miseria, sia che si tratti della felicità; però, se si preferisce sottolineare una differenza, il Salmista ne fornisce l’occasione, allorché dice: “Il pane sostiene il cuore dell’uomo”, e: “Il vino allieta il cuore dell’uomo” (Ps 103,15).
Per coloro che credono in lui, Cristo è cibo e bevanda, pane e vino. Pane che fortifica e rinvigorisce, del quale Pietro dice: “Il Dio di ogni grazia, che ci ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, ci ristabilirà lui stesso dopo breve sofferenza, ci rafforzerà e ci renderà saldi” (1P 5,10). Bevanda e vino che allieta; è ad esso che si richiama il Profeta in questi termini: “Allieta l’anima del tuo servo; verso di te, infatti, o Signore, ho innalzato la mia anima” (Ps 85,4).
Tutto ciò che in noi è forte, robusto e solido, gioioso e allegro, per adempiere i comandamenti di Dio, sopportare la sofferenza, eseguire l’obbedienza, difendere la giustizia, tutto questo è forza di quel pane o gioia di quel vino. Beati coloro che agiscono fortemente e gioiosamente!
E siccome nessuno può farlo di suo, beati coloro che desiderano avidamente di praticare ciò che è giusto e onesto, ed essere in ogni cosa fortificati e allietati da Colui che ha detto: “Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia” (Mt 5,6). Se Cristo è il pane e la bevanda che assicurano fin da ora la forza e la gioia dei giusti, quanto di più egli lo sarà in cielo, quando si donerà ai giusti senza misura!

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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