Papa Francesco e Card. Parolin (Foto: 2015) / © CCEW - Mazur/Catholicnews.Org.Uk, CC BY-NC-SA 2.0

Card. Parolin: Testimoniare Gesù – mettersi dalla parte dell’amore, della cura, della vita

Omelia del Segretario di Stato nella solennità Ss. Ermacora e Fortunato, Martiri, Patroni dell’Arcidiocesi di Gorizia – Basilica di Aquileia, 12 luglio 2018

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Cari Mons. Carlo Roberto Maria Redaelli e confratelli nell’Episcopato, cari Presbiteri e Diaconi, cari Consacrati e Consacrate, distinte Autorità, cari fedeli laici e laiche, carissimi tutti qui presenti:
1. E’ il Signore che oggi celebriamo nei Santi Martiri Ermacora, Vescovo, e Fortunato, Diacono, Patroni principali dell’Arcidiocesi di Gorizia, Colui che “rivela nei deboli la sua potenza e dona agli inermi la forza del martirio” (Prefazio dei Martiri); e la parola del Signore è al centro della nostra celebrazione eucaristica, quella che abbiamo ascoltata nel Vangelo: «Se il mondo vi odia, riconoscete che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia» (vv. 18-19).
2. Il contesto di queste parole di Gesù è quello del grande discorso dei capitoli 14-17 del Vangelo di Giovanni, l’ultimo discorso del Signore, il discorso dell’ultima cena: «Prima della festa di Pasqua Gesù – scrive Giovanni – sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine». L’Evangelista fa, quindi, seguire il gesto della lavanda dei piedi, l’annuncio del tradimento, i tre brevi dialoghi con Tommaso, Filippo e Giuda Taddeo, l’allegoria della vite e dei tralci, il comandamento dell’amore fraterno …
A questo punto, Gesù dice le “cose difficili” che abbiamo appena ascoltate: l’odio del mondo, la persecuzione, l’incapacità di riconoscere Colui che ha mandato Gesù. Gesù non può non parlare anche di queste cose prima di consegnarsi al suo destino, prima di bere il suo calice, perché desidera che il senso della sua morte (e, dunque, della sua intera vita) sia ben chiaro nell’animo dei discepoli. Egli desidera che ciascun discepolo e credente, ora e nel futuro, possa essere pienamente consapevole della sua nuova identità di “chiamato da Lui”, consapevole e preparato anche all’esperienza dell’«odio» e della «persecuzione» da parte del mondo. «Ricordatevi della parola che vi ho detto!» dice Gesù (v. 20): ricordatevi, cioè, che «Non siete più del mondo perché io vi ho scelti, ed è per questo che il mondo vi odia»!
3. Per “ricordare” la parola del Signore, questa come qualunque altra, noi dobbiamo seriamente e sempre di nuovo ascoltare, meditare, approfondire, custodire nel cuore. Di che cosa sta parlando Gesù? Dell’identità dei discepoli in rapporto a Lui e al cospetto del mondo. L’identità dei discepoli sta nell’essere stati scelti dal mondo, e questa elezione è per loro un dono, ma anche un impegno rischioso.
Il dono è l’amicizia di Gesù; il rischio nasce dal fatto che, dicendoli suoi amici, Gesù li “demondanizza”, li sottrae all’amicizia opposta, quella del mondo. E il mondo, il mondo in senso giovanneo, è quell’umanità che siamo tutti noi quando ci rinchiudiamo in una mentalità solo “terrena” e in una cultura incapace di tollerare se non ciò che le assomiglia e le appartiene. In questo senso, il mondo ama solamente ciò che conosce e ciò gli è conforme. Il mondo non ama i discepoli di Gesù, perché capisce di non costituire più il fondamento della loro esistenza. L’atto di elezione di Cristo, infatti, conferisce un fondamento nuovo all’esistenza di quegli uomini e di quelle donne che, mediante il Vangelo, Dio attrae, affascina e, infine, trasforma.
L’odio del mondo (argomento quanto mai antipatico e ben poco “politicamente corretto”, ma assolutamente evangelico!) è rivolto contro ciò che prima il mondo stesso amava perché era suo, e che ora non lo è più, perché gli è stato strappato. Ma questo odio verso i discepoli è solo un piccolo riverbero dell’odio, ben più radicato, contro Colui che ha fatto della liberazione dell’umanità lo scopo della propria esistenza! Egli è l’Unico che abbia la forza di strappare l’uomo a se stesso e alla perdizione: come lo capivano bene, questo, i primi cristiani! Ebbene, Gesù ha accettato consapevolmente questo odio, continuando a svolgere la missione per la quale il Padre lo ha mandato: amare l’umanità, salvare il mondo dall’odio e da ogni altra fallace “sapienza”, vincere il male col bene, inaugurare il Regno di Dio.
L’odio del mondo, dunque, è semplicemente l’altra faccia della rivelazione di Gesù e dell’elezione dei discepoli. In un certo senso, è il segno che contraddistingue il discepolo fedele, ma non quasi che il discepolo sia fatalmente destinato a suscitare odio o debba fomentare di proposito l’odio o, tanto meno, possa vantarsene.
L’odio di cui il Vangelo ci parla non è il frutto di una forma di paranoia religiosa: il cristiano non ha manie di persecuzione, non vede nemici dappertutto, non accusa nessuno, non provoca nessuno, sa di essere egli stesso chiamato a continua conversione!
L’odio, al contrario, è semplicemente ciò che rivela la “mondanità” del mondo e di ciascun individuo rispetto al Vangelo: la sua chiusura, la sua distanza, la sua incomprensione, la sua diversa gerarchia di valori. Questo mondo, che è dentro e fuori di noi, perennemente tentato di allontanarsi dall’amore, di non aprirsi alla Luce, cioè al Cristo e alle sue opere di vita, per paura di esserne dissolto, per paura di dover cambiare parere, abitudini, certezze … per paura di essere amato e di amare, questo mondo – dicevamo – rimane pur sempre l’oggetto ultimo dell’amore di Dio a causa del quale il Figlio viene donato.
Fratelli e sorelle, impariamo anzitutto a non odiare, e soprattutto a non odiare coloro che amano veramente, quando constatiamo che la loro vita mette in discussione la nostra. Poi, impariamo a rendere testimonianza nel nome di Gesù, anche se ci può talora apparire una faccenda scomoda e perfino pericolosa. Testimoniare Gesù è quanto mai urgente ed attuale, poiché è mettersi dalla parte dell’amore contro l’odio, della cura contro l’indifferenza, della vita contro la morte. Quante guerre (grandi o piccole) si sarebbero potute evitare e si potrebbero evitare, quante vite si sarebbero potute salvare e si potrebbero salvare, se si fosse lavorato e se si lavorasse di più e meglio per rendere testimonianza nel nome di Gesù, cioè per fare posto a Dio, per la giustizia, per la conoscenza reciproca tra i popoli, per la collaborazione, per il bene comune, il bene di tutti, il bene nostro ma anche quello degli altri. Se questo è lo spirito che condividiamo, allora possiamo guardare, oggi, con devozione del tutto autentica e sincera, ai nostri Santi Patroni, Ermacora e Fortunato.
4. Di loro non sappiamo molto. Sappiamo, e non è poco, che il culto del Vescovo Ermacora e dell’Arcidiacono Fortunato è antichissimo (essi sono citati nel Martirologio geronimiano del V secolo), ed è stato consolidato dal Patriarca Poppone, il quale nel 1031 volle dedicare a loro la nuova Basilica Patriarcale di Aquileia (oggi Patrimonio Mondiale dell’Umanità) dopo la dedicazione mariana.
Ma chi furono Ermacora e Fortunato? Ermacora è il Vescovo col quale comincia il catalogo episcopale di Aquileia. Oltre a questo dato, del quale non c’è ragione di dubitare, v’è una diffusa leggenda, che cominciò a formarsi già durante il sec. VIII nell’intento di chiarire e garantire l’origine apostolica della Chiesa di Aquileia. Essa narra che l’Evangelista Marco fu mandato in missione ad Aquileia dallo stesso Apostolo Pietro. Qui Marco incontrò Ermacora, allora semplice cittadino, e lo convertì alla fede in Gesù. Quando Ermagora divenne, poi, Vescovo della comunità cristiana di Aquileia, egli si scelse Fortunato come collaboratore e Arcidiacono. Ambedue si dedicarono all’evangelizzazione della città e forse anche dei territori circonvicini. Ambedue subirono il martirio ad Aquileia, inflitto, secondo la leggenda, da un pubblico funzionario che temeva la loro attività. La loro memoria fu subito celebrata il 12 luglio, data nella quale essi sono ricordati anche nel Martirologio Romano, nella Chiesa di Aquileia ed in altre Chiese.
5. Riflettiamo ancora un poco, fratelli e sorelle, su questo punto: Ermacora e Fortunato hanno portato una responsabilità pastorale ed il peso della testimonianza di una vita di amore alla sequela di Gesù, perciò sono diventati martiri subendo la stessa sorte di Cristo. Chissà quante volte avranno anch’essi meditato le parole del Signore: «Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato» (20-21).
I due aspetti che delineano l’identità cristiana di questi Santi, cioè il compito pastorale (Vescovo e Arcidiacono) e il martirio, non sono accostati in un modo casuale. Un duplice mistero è racchiuso nel martirio: il mistero del male e il mistero dell’amore. Ma lo è anzitutto in ciò che è il paradigma di ogni martirio, cioè la croce di Gesù: paradigma di ogni male e, insieme, paradigma di ogni amore. Nel martirio il mistero del male esplode con tutta la sua insensatezza: insensata è la persecuzione, ma anche ogni altra manifestazione della cattiveria umana, a cominciare dalla guerra. Solo la fragile voce di un Papa (Benedetto XV) aveva osato svelare l’insensatezza di quella terminata 100 anni fa, che aveva insanguinato in modo particolare queste terre, definendola “inutile strage”. Ma nel martirio, per nostra fortuna, si rende visibile anche l’altro e più grande mistero: quello dell’amore.
I martiri, anche questi nostri Santi martiri, ci indicano con la loro vita e la loro morte la croce di Gesù. Lì è la fonte dell’impegno cristiano, della testimonianza, di ogni vocazione, di ogni vero amore, e di ogni autentico progetto di pace. Guardando al crocifisso possiamo amare, possiamo vivere le beatitudini, possiamo, anzi dobbiamo, diventare santi. Ermacora e Fortunato, nostri intercessori presso il Padre, ci ottengano questa grazia.
6. A chiusura di questa comune riflessione, fratelli e sorelle, facciamo dunque nostra la bellissima preghiera che le “Passioni dei martiri aquileiesi e istriani” mettono in bocca al Vescovo Ermacora, rinchiuso in carcere: «Signore Dio Altissimo, Dio sempre da temere, Dio sempre da adorare, tu che hai ordinato a tuo figlio, il nostro Signore Gesù Cristo, di scendere sulla terra dal tuo cielo santo e di assumere aspetto di servo per liberare noi dal giogo della servitù! Guarda questa mia battaglia, e concedimi di continuarla fino alla fine, di spegnermi nel tuo nome, perché io, che in te confido, non temerò il male; perché sei con me tu, che regni con Dio Padre e con lo Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.» (VI, 3-4).

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ZENIT Staff

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